Ultimo Aggiornamento:
16 luglio 2025
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Gran Bretagna: turn left ?

Paolo Pombeni - 17.09.2015

Alla notizia dell’elezione di Corbyn alla guida del Labour Party mi sono ricordato di una vignetta che comparve al tempo della rottura della dissidenza di sinistra del Labour nel 1950-51. Ritraeva Bevan, Wilson, Tiratsoo vestiti da scolaretti che ad un incrocio si imbattevano nel classico cartello turn left (svoltare a sinistra). Anche allora prese piede la leggenda che si erano perse le elezioni del 1951 perché non si aveva avuto il coraggio di spingere la politica del governo laburista abbastanza a sinistra (il partito aveva preso più voti in termini assoluti, ma aveva vinto un minor numero di collegi rispetto ai conservatori).

Il risultato di allora fu che i conservatori arrivarono al potere e se lo tennero per tredici anni. “Tredici anni buttati via” dirà poi la propaganda di Wilson (nel frattempo divenuto molto più tiepido circa le sue antiche posizioni di sinistra) quando nell’ottobre 1964 riportò finalmente i laburisti al governo. Continuò così la serie degli spostamenti del Labour Party tra una posizione sostanzialmente centrista quando era al potere o aveva chance di andarci ed una orgogliosamente di sinistra alternativa quando quell’orizzonte era precluso: ricordarsi dei tempi del lungo regno della Thatcher, neppure scalfita dai furori ideologici di Michael Foot (che peraltro era un intellettuale di notevole spessore). Il pendolo riprese la sua corsa opposta con Blair e il “New Labour” rappresentò la rinnovata proposta di un partito di sinistra che voleva competere con i conservatori non come partito “sectional”, ma come partito della nazione. leggi tutto

Damasco, Istanbul, Berlino

Massimiliano Trentin * - 15.09.2015

"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.

La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. leggi tutto

La crisi dei rifugiati e dei migranti. Quando la “generosità” è nemica del bene

Simone Paoli * - 15.09.2015

Qualunque siano state le ragioni, demografiche, economiche, politiche o morali, che hanno spinto la cancelliera tedesca Angela Merkel a dichiarare pubblicamente la volontà di accogliere i milioni di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana, la Germania e la stessa Europa pagheranno caro il prezzo di una scelta che, oggi, appare popolare ma che, domani, si rivelerà esiziale.

Pur senza sottovalutare il dramma umanitario che si sta consumando alle porte del nostro continente, la pura e semplice accoglienza non è e non può essere la risposta; al contrario, essa rischia di creare nuovi e, se possibile, più gravi problemi.

L’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, nell’intento di criticare e sferzare le coscienze europee, ha recentemente ricordato come Turchia e Libano si siano accollati, rispettivamente, due milioni e un milione di rifugiati siriani, mentre la pavida ed egoista Unione Europea sarebbe colpevolmente restia a accogliere e ridistribuire poche decine di migliaia di fuggiaschi.

Il parallelismo è quantomeno fuorviante.

Turchia e Libano, paesi certamente più affini dal punto di vista culturale e religioso alla Siria rispetto ai paesi membri dell’Unione Europea, sono paesi privi di un moderno welfare state e, per questo, paradossalmente meno vulnerabili all’impatto sociale dei flussi migratori.

Allo stesso tempo, pur avendo dovuto sopportare il peso maggiore dei flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, essi non subiscono e, probabilmente, non dovranno subire, nelle stesse proporzioni dei paesi europei, leggi tutto

Elisabetta e Vittoria: due regine, due epoche

Giulia Guazzaloca - 12.09.2015

Il regno più lungo

 

La notizia è rimbalzata per giorni sui media di tutto il mondo, probabilmente assai di più di quanto la regina avrebbe gradito: nel pomeriggio del 9 settembre 2015 il regno di Elisabetta II è diventato ufficialmente il più lungo nella storia della monarchia britannica, avendo superato quello dell’antenata Vittoria rimasta sul trono per 63 anni e 217 giorni. Un altro dei tanti primati di Sua Maestà: Elisabetta è infatti attualmente il più anziano capo di Stato al mondo, nel 2007 era diventata la monarca britannica più longeva, essendo Vittoria morta all’età di 81 anni, e secondo un recente sondaggio del «Sunday Times» gli inglesi la ritengono il più grande sovrano che il paese abbia mai avuto.

A fronte delle tante celebrazioni, nei paesi del Commonwealth e non solo, delle migliaia di telegrammi e lettere arrivate da ogni parte del mondo, la regina ha preferito evitare cerimonie ufficiali ritenendole una mancanza di rispetto nei confronti dei suoi antenati; forse anche un modo per onorare la memoria di Vittoria, nota per la sua riservatezza. Business asusual, quindi, secondo una tipica massima britannica; e così, come previsto da mesi, nel giorno del «record» Elisabetta si è recata all’inaugurazione di un nuovo tronco ferroviario nella Scozia meridionale. Non si è trattato comunque di una scelta casuale, visto che i sentimenti indipendentisti degli scozzesi li hanno portati, nel referendum dell’anno scorso, ad un passo dalla separazione da Londra e alla vigilia della consultazione la sovrana si era spinta a chiedere al popolo della Scozia di «riflettere con grande attenzione» sul voto. leggi tutto

Non ci siamo mai sentiti così europei. Come mai?

Lorenzo Ferrari * - 12.09.2015
Tra i cittadini europei, il senso di appartenenza all'UE non è mai stato così alto come quest'anno. O meglio: non è mai stato così alto da quando l'Eurobarometro ha cominciato a interrogare l'opinione pubblica su questo tema, nel 2010. Secondo l'ultima indagine standard dell'Eurobarometro – condotta nel maggio di quest'anno e in corso di pubblicazione – il 67% del campione dichiara di sentirsi cittadino dell'UE, contro il 31% che non esprime questa sensazione. Cinque anni fa, le rispettive percentuali erano del 62% e del 37%. Per quanto riguarda i Paesi dell'eurozona, il senso di appartenenza all'UE dei loro cittadini è passato dal 66% nel 2010 al 71% nel 2015.
Quest'anno è anche la prima volta che il senso di appartenenza all'UE è condiviso dalla maggioranza dei cittadini in ogni singolo stato membro (con la parziale eccezione della Grecia, dove in primavera l'opinione pubblica era equamente divisa tra chi lo condivideva e chi no). Nel 2010, erano ben cinque gli stati membri in cui la maggioranza dei cittadini dichiarava di non sentirsi parte dell'UE: poco sorprendentemente, questo accadeva nel Regno Unito e nei Paesi di più recente adesione (Romania e Bulgaria), ma anche in Grecia e in Lettonia.
 
Eurobarometro standard n° 83 (primavera 2015)
 
La domanda posta dai ricercatori dell'Eurobarometro è “Senti di essere un cittadino dell'UE?”. Indagare sul sentimento di far parte dell'Unione europea è qualcosa di diverso dall'indagare sull'atteggiamento
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FN e Francia cattolica: un fronte aperto

Michele Marchi - 10.09.2015

Pare che Marine Le Pen abbia attaccato, con l’obiettivo di distruggerlo, un altro muro. Questa volta si tratta di quello che si potrebbe definire l’“assioma di Rémond”. Il grande esperto di storia politica e storia religiosa, nonché abituale commentatore televisivo delle principali tornate elettorali francesi sino alla sua scomparsa nel 2007, ha sempre mostrato che le aree del Paese a maggiore densità di praticanti religiosi sono state quelle a minor penetrazione del voto FN. Insomma nella sempre più laica e secolarizzataFrancia (ma meglio sarebbe dire atea, dato che oltre il 60% si dichiara “senza religione”), la pratica cattolica ha agito da barriera di fronte all’avanzata del voto frontista. Il riferimento al passato è d’obbligo dato che la recente evoluzione potrebbe rendere obsolete le certezze espresse da Rémond e dai principali esperti di flussi elettorali transalpini.

In realtà il discorso è complesso ed è necessario fare un minimo di chiarezza non limitando l’analisi al solo dato elettorale. Si può comunque partire dall’elemento del voto per poi articolare meglio il quadro.

Le elezioni europee di maggio 2014 e quelle dipartimentali della scorsa primavera, hanno evidenziato l’apertura di non poche crepe nel cosiddetto cattolicesimo progressista francese. Alle europee due praticanti su dieci hanno scelto il FN. leggi tutto

Mercato unico digitale e frammentazione (2)

Patrizia Fariselli * - 05.09.2015

Come anticipato nel precedente articolo, nell’Unione Europea il contrasto tra frammentazione reale e mercato unico virtuale è evidente nel settore dell’economia digitale ed è rivelatore il caso della tassazione delle imprese americane che operano servizi digitali di rete (OTT) negli Stati membri.

In sostanza, imprese come Google, Apple, Amazon che hanno il loro quartier generale negli Stati Uniti (che sono un mercato unico), localizzano le loro filiali europee negli Stati che offrono loro trattamenti fiscali di favore (ad esempio Irlanda e Lussemburgo) e riconducono ad esse la formalizzazione dei contratti relativi alle attività che società locali svolgono nei singoli Stati europei. Recentemente, Apple è stata accusata dalla Procura di Milano di presunta evasione fiscale per non aver pagato all’Agenzia delle Entrate 879 milioni di Euro sulle vendite di Apple Italia destinate alla rete di distribuzione nazionale, sostenendo che la società residente in Italia è in grado di negoziare e decidere autonomamente i contratti e contestando che si tratti di un agente che opera per conto della società irlandese. Nel dicembre scorso il cancelliere Osborne ha manifestato l’intenzione di introdurre una tassa del 25% sugli utili generati nel Regno Unito dalle imprese che “deviano i profitti in altri Paesi con aliquote fiscali più basse”. La cosiddetta Google tax, tuttavia, leggi tutto

SLOVACCHIA: Rifugiati siriani? Prendiamo solo i cristiani, grazie

Davide Denti * - 03.09.2015

Il governo slovacco ha annunciato la sua partecipazione al programma europeo di ridistribuzione delle decine di migliaia di richiedenti asilo arrivati sul continente da Africa e Medio Oriente. Bratislava ha annunciato che avrebbe accettato di accogliere 200 rifugiati (la chiave di redistribuzione in base a PIL e popolazione, studiata dalla Commissione europea, ne prevedeva 319 per il paese carpatico). Un numero limitato, ma non è tutto: dovranno essere cristiani. “In Slovacchia non abbiamo moschee.” Per cui, secondo quanto dichiarato da un portavoce del ministero dell’interno slovacco al Wall Street Journal, “vogliamo solo scegliere i cristiani.

La guerra civile in Siria, in corso ormai da tre anni, e il consolidamento dell’ISIS tra Siria e Iraq, hanno fatto ormai più di 200.000 morti e più di 4 milioni di rifugiatila peggiore crisi umanitaria di questa generazione. Di questi, la maggior parte restano nei paesi limitrofi: Turchia, Libano, Giordania ne ospitano quasi un milione a testa. Gli altri hanno iniziato a spostarsi più lontano. La Germania ha appena annunciato di aver revisionato verso l’alto le stime dei richiedenti asilo in arrivo per il 2015: 800.000, il triplo dei 250.000 attesi – e l’ammontare maggiore dalla seconda guerra mondiale, leggi tutto

GRECIA: La nuova politica estera balcanica di Tsipras e Kotzias

Davide Denti * - 29.08.2015

La Grecia di Tsipras, una volta regolate le questioni economico-finanziarie, sta preparando unrinnovo della propria politica estera? Riunificazione di Cipro, un compromesso sul nome della Macedonia, il riconoscimento del Kosovo e il rilassamento delle relazioni con l’Albania. Possibile? Così sembrerebbe, da una serie di segnali apparsi negli ultimi mesi nelle relazioni esterne di Atene. L’annata 2015/16 dovrà dimostrarlo.

 

Una politica estera balcanica per l’Atene del dopo-debito

 

L’arrivo della strana coppia Syriza-ANEL al governo ad Atene inizialmente non lasciava presagire novità sul fronte della politica estera greca, che nel gennaio 2015 l’istituto Carnegie Europe definiva “miserabile“. Tsipras sembrava aver bloccato tutti i dossier storici (Cipro, Macedonia, Kosovo) in nome dell’alleanza con la destra sociale anti-austerità, e di voler guadagnare qualche margine negoziale con l’eurogruppo tramite un’apertura tattica verso Mosca. Si sa come è andata a finire. L’accordo sul terzo pacchetto di salvataggio per la Grecia, ora, potrebbe concederle lo spazio di manovra necessario a riprendere in mano i dossier di politica estera.

Già a maggio, il ministro degli esteri Nikos Kotzias aveva annunciato l’intenzione di avviareuna politica estera attiva verso i Balcani, tramite un tour delle capitali di Macedonia, Serbia e Montenegro nel mese di giugno, e il riavvio della cooperazione tripartita con Romania e Bulgaria – “tre paesi che devono avere e condividere una visione sul resto dei Balcani”, leggi tutto

Come se i profughi non fuggissero da qualche cosa

Lorenzo Ferrari * - 27.08.2015

Nelle ultime settimane in Italia e negli altri paesi dell'Unione europea s'è ampiamente discusso del problema del crescente afflusso di richiedenti asilo in Europa. Come vanno controllati i confini dell'Unione? Chi deve registrare i profughi? Quanti ne deve accogliere ciascun paese? Negli ultimi giorni il dibattito ha condotto ad alcune significative – seppur ancora parziali – decisioni politiche per quanto riguarda l'allocazione dei profughi tra i vari stati membri dell'UE, in particolare grazie alla decisione tedesca di accogliere sostanzialmente tutti i profughi siriani che chiederanno l'asilo in Germania.

 

Nonostante questi alcuni progressi recenti, il dibattito europeo sui richiedenti asilo continua a mostrarsi ostinatamente refrattario a una seria e franca discussione sulle cause del crescente afflusso di profughi in Europa. Si parla molto del sintomo – l'afflusso massiccio di richiedenti asilo – ma non si parla affatto della malattia che ne è all'origine. I problemi profondi dell'Eritrea non hanno mai ottenuto la benché minima attenzione, ma anche la guerra in Siria guadagna le prime pagine dei giornali solo quando vengono fatte saltare in aria rovine archeologiche di prim'ordine: la guerra in sé non interessa affatto, non ne parlano i politici e non ne parla la stampa.

 

La Siria viene ormai chiaramente guardata come un caso senza speranze, soggetta a un'autocombustione di cui si può solamente stare passivamente ad attendere la fine (che peraltro non pare affatto vicina). leggi tutto