Ultimo Aggiornamento:
22 marzo 2025
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Argomenti

Elisabetta e Vittoria: due regine, due epoche

Giulia Guazzaloca - 12.09.2015

Il regno più lungo

 

La notizia è rimbalzata per giorni sui media di tutto il mondo, probabilmente assai di più di quanto la regina avrebbe gradito: nel pomeriggio del 9 settembre 2015 il regno di Elisabetta II è diventato ufficialmente il più lungo nella storia della monarchia britannica, avendo superato quello dell’antenata Vittoria rimasta sul trono per 63 anni e 217 giorni. Un altro dei tanti primati di Sua Maestà: Elisabetta è infatti attualmente il più anziano capo di Stato al mondo, nel 2007 era diventata la monarca britannica più longeva, essendo Vittoria morta all’età di 81 anni, e secondo un recente sondaggio del «Sunday Times» gli inglesi la ritengono il più grande sovrano che il paese abbia mai avuto.

A fronte delle tante celebrazioni, nei paesi del Commonwealth e non solo, delle migliaia di telegrammi e lettere arrivate da ogni parte del mondo, la regina ha preferito evitare cerimonie ufficiali ritenendole una mancanza di rispetto nei confronti dei suoi antenati; forse anche un modo per onorare la memoria di Vittoria, nota per la sua riservatezza. Business asusual, quindi, secondo una tipica massima britannica; e così, come previsto da mesi, nel giorno del «record» Elisabetta si è recata all’inaugurazione di un nuovo tronco ferroviario nella Scozia meridionale. Non si è trattato comunque di una scelta casuale, visto che i sentimenti indipendentisti degli scozzesi li hanno portati, nel referendum dell’anno scorso, ad un passo dalla separazione da Londra e alla vigilia della consultazione la sovrana si era spinta a chiedere al popolo della Scozia di «riflettere con grande attenzione» sul voto. leggi tutto

Non ci siamo mai sentiti così europei. Come mai?

Lorenzo Ferrari * - 12.09.2015
Tra i cittadini europei, il senso di appartenenza all'UE non è mai stato così alto come quest'anno. O meglio: non è mai stato così alto da quando l'Eurobarometro ha cominciato a interrogare l'opinione pubblica su questo tema, nel 2010. Secondo l'ultima indagine standard dell'Eurobarometro – condotta nel maggio di quest'anno e in corso di pubblicazione – il 67% del campione dichiara di sentirsi cittadino dell'UE, contro il 31% che non esprime questa sensazione. Cinque anni fa, le rispettive percentuali erano del 62% e del 37%. Per quanto riguarda i Paesi dell'eurozona, il senso di appartenenza all'UE dei loro cittadini è passato dal 66% nel 2010 al 71% nel 2015.
Quest'anno è anche la prima volta che il senso di appartenenza all'UE è condiviso dalla maggioranza dei cittadini in ogni singolo stato membro (con la parziale eccezione della Grecia, dove in primavera l'opinione pubblica era equamente divisa tra chi lo condivideva e chi no). Nel 2010, erano ben cinque gli stati membri in cui la maggioranza dei cittadini dichiarava di non sentirsi parte dell'UE: poco sorprendentemente, questo accadeva nel Regno Unito e nei Paesi di più recente adesione (Romania e Bulgaria), ma anche in Grecia e in Lettonia.
 
Eurobarometro standard n° 83 (primavera 2015)
 
La domanda posta dai ricercatori dell'Eurobarometro è “Senti di essere un cittadino dell'UE?”. Indagare sul sentimento di far parte dell'Unione europea è qualcosa di diverso dall'indagare sull'atteggiamento
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FN e Francia cattolica: un fronte aperto

Michele Marchi - 10.09.2015

Pare che Marine Le Pen abbia attaccato, con l’obiettivo di distruggerlo, un altro muro. Questa volta si tratta di quello che si potrebbe definire l’“assioma di Rémond”. Il grande esperto di storia politica e storia religiosa, nonché abituale commentatore televisivo delle principali tornate elettorali francesi sino alla sua scomparsa nel 2007, ha sempre mostrato che le aree del Paese a maggiore densità di praticanti religiosi sono state quelle a minor penetrazione del voto FN. Insomma nella sempre più laica e secolarizzataFrancia (ma meglio sarebbe dire atea, dato che oltre il 60% si dichiara “senza religione”), la pratica cattolica ha agito da barriera di fronte all’avanzata del voto frontista. Il riferimento al passato è d’obbligo dato che la recente evoluzione potrebbe rendere obsolete le certezze espresse da Rémond e dai principali esperti di flussi elettorali transalpini.

In realtà il discorso è complesso ed è necessario fare un minimo di chiarezza non limitando l’analisi al solo dato elettorale. Si può comunque partire dall’elemento del voto per poi articolare meglio il quadro.

Le elezioni europee di maggio 2014 e quelle dipartimentali della scorsa primavera, hanno evidenziato l’apertura di non poche crepe nel cosiddetto cattolicesimo progressista francese. Alle europee due praticanti su dieci hanno scelto il FN. leggi tutto

Mercato unico digitale e frammentazione (2)

Patrizia Fariselli * - 05.09.2015

Come anticipato nel precedente articolo, nell’Unione Europea il contrasto tra frammentazione reale e mercato unico virtuale è evidente nel settore dell’economia digitale ed è rivelatore il caso della tassazione delle imprese americane che operano servizi digitali di rete (OTT) negli Stati membri.

In sostanza, imprese come Google, Apple, Amazon che hanno il loro quartier generale negli Stati Uniti (che sono un mercato unico), localizzano le loro filiali europee negli Stati che offrono loro trattamenti fiscali di favore (ad esempio Irlanda e Lussemburgo) e riconducono ad esse la formalizzazione dei contratti relativi alle attività che società locali svolgono nei singoli Stati europei. Recentemente, Apple è stata accusata dalla Procura di Milano di presunta evasione fiscale per non aver pagato all’Agenzia delle Entrate 879 milioni di Euro sulle vendite di Apple Italia destinate alla rete di distribuzione nazionale, sostenendo che la società residente in Italia è in grado di negoziare e decidere autonomamente i contratti e contestando che si tratti di un agente che opera per conto della società irlandese. Nel dicembre scorso il cancelliere Osborne ha manifestato l’intenzione di introdurre una tassa del 25% sugli utili generati nel Regno Unito dalle imprese che “deviano i profitti in altri Paesi con aliquote fiscali più basse”. La cosiddetta Google tax, tuttavia, leggi tutto

SLOVACCHIA: Rifugiati siriani? Prendiamo solo i cristiani, grazie

Davide Denti * - 03.09.2015

Il governo slovacco ha annunciato la sua partecipazione al programma europeo di ridistribuzione delle decine di migliaia di richiedenti asilo arrivati sul continente da Africa e Medio Oriente. Bratislava ha annunciato che avrebbe accettato di accogliere 200 rifugiati (la chiave di redistribuzione in base a PIL e popolazione, studiata dalla Commissione europea, ne prevedeva 319 per il paese carpatico). Un numero limitato, ma non è tutto: dovranno essere cristiani. “In Slovacchia non abbiamo moschee.” Per cui, secondo quanto dichiarato da un portavoce del ministero dell’interno slovacco al Wall Street Journal, “vogliamo solo scegliere i cristiani.

La guerra civile in Siria, in corso ormai da tre anni, e il consolidamento dell’ISIS tra Siria e Iraq, hanno fatto ormai più di 200.000 morti e più di 4 milioni di rifugiatila peggiore crisi umanitaria di questa generazione. Di questi, la maggior parte restano nei paesi limitrofi: Turchia, Libano, Giordania ne ospitano quasi un milione a testa. Gli altri hanno iniziato a spostarsi più lontano. La Germania ha appena annunciato di aver revisionato verso l’alto le stime dei richiedenti asilo in arrivo per il 2015: 800.000, il triplo dei 250.000 attesi – e l’ammontare maggiore dalla seconda guerra mondiale, leggi tutto

GRECIA: La nuova politica estera balcanica di Tsipras e Kotzias

Davide Denti * - 29.08.2015

La Grecia di Tsipras, una volta regolate le questioni economico-finanziarie, sta preparando unrinnovo della propria politica estera? Riunificazione di Cipro, un compromesso sul nome della Macedonia, il riconoscimento del Kosovo e il rilassamento delle relazioni con l’Albania. Possibile? Così sembrerebbe, da una serie di segnali apparsi negli ultimi mesi nelle relazioni esterne di Atene. L’annata 2015/16 dovrà dimostrarlo.

 

Una politica estera balcanica per l’Atene del dopo-debito

 

L’arrivo della strana coppia Syriza-ANEL al governo ad Atene inizialmente non lasciava presagire novità sul fronte della politica estera greca, che nel gennaio 2015 l’istituto Carnegie Europe definiva “miserabile“. Tsipras sembrava aver bloccato tutti i dossier storici (Cipro, Macedonia, Kosovo) in nome dell’alleanza con la destra sociale anti-austerità, e di voler guadagnare qualche margine negoziale con l’eurogruppo tramite un’apertura tattica verso Mosca. Si sa come è andata a finire. L’accordo sul terzo pacchetto di salvataggio per la Grecia, ora, potrebbe concederle lo spazio di manovra necessario a riprendere in mano i dossier di politica estera.

Già a maggio, il ministro degli esteri Nikos Kotzias aveva annunciato l’intenzione di avviareuna politica estera attiva verso i Balcani, tramite un tour delle capitali di Macedonia, Serbia e Montenegro nel mese di giugno, e il riavvio della cooperazione tripartita con Romania e Bulgaria – “tre paesi che devono avere e condividere una visione sul resto dei Balcani”, leggi tutto

Come se i profughi non fuggissero da qualche cosa

Lorenzo Ferrari * - 27.08.2015

Nelle ultime settimane in Italia e negli altri paesi dell'Unione europea s'è ampiamente discusso del problema del crescente afflusso di richiedenti asilo in Europa. Come vanno controllati i confini dell'Unione? Chi deve registrare i profughi? Quanti ne deve accogliere ciascun paese? Negli ultimi giorni il dibattito ha condotto ad alcune significative – seppur ancora parziali – decisioni politiche per quanto riguarda l'allocazione dei profughi tra i vari stati membri dell'UE, in particolare grazie alla decisione tedesca di accogliere sostanzialmente tutti i profughi siriani che chiederanno l'asilo in Germania.

 

Nonostante questi alcuni progressi recenti, il dibattito europeo sui richiedenti asilo continua a mostrarsi ostinatamente refrattario a una seria e franca discussione sulle cause del crescente afflusso di profughi in Europa. Si parla molto del sintomo – l'afflusso massiccio di richiedenti asilo – ma non si parla affatto della malattia che ne è all'origine. I problemi profondi dell'Eritrea non hanno mai ottenuto la benché minima attenzione, ma anche la guerra in Siria guadagna le prime pagine dei giornali solo quando vengono fatte saltare in aria rovine archeologiche di prim'ordine: la guerra in sé non interessa affatto, non ne parlano i politici e non ne parla la stampa.

 

La Siria viene ormai chiaramente guardata come un caso senza speranze, soggetta a un'autocombustione di cui si può solamente stare passivamente ad attendere la fine (che peraltro non pare affatto vicina). leggi tutto

Kos, i profughi e i confini dell’Europa

Giovanni Bernardini - 25.08.2015

“Una delle migliori destinazioni in Grecia, con siti archeologici, spiagge sabbiose e divertimento per tutti i gusti”. Per una volta la formula di prammatica dei depliant non colpisce lontano dal bersaglio: perché l’isola di Kos, nel Dodecaneso, si è affermata da tempo come l’ennesima, “normale” meraviglia estiva che la Grecia offre a prezzi tutto sommato abbordabili ai turisti europei e non solo. Quest’anno però l’isola è assurta agli onori della cronaca per un primato degli arrivi ben più difficile rispetto a quello consueto dei charter e dei traghetti da occidente, carichi di visitatori e dei loro risparmi per le vacanze. Perché un fazzoletto di mare, o un “braccio” a voler essere generosi, separa a nordest le coste di Kos da quelle della Turchia. Quest’ultima, dati alla mano, sta sopportando il maggior peso della disperata fuga per la sopravvivenza dal disastro siriano: ormai quasi due milioni d’individui, secondo le stime sicuramente al ribasso dell’UNHCR, che in percentuale considerevole guardano come approdo finale della loro odissea all’ingresso nell’Unione Europea. Di cui Kos, volente o nolente, si è scoperta porta d’ingresso e frontiera critica al pari di Lampedusa, Malta, Melilla, Orestiada. Rispetto ad altre destinazioni, però, l’isola greca ha mostrato nelle ultime settimane un’impreparazione comprensibile ma non meno preoccupante di fronte all’ingente flusso di rifugiati. In un paese la cui amministrazione pubblica ha già subito colpi gravi dalla crisi e dall’austerity, l’arrivo di circa 7.000 migranti leggi tutto

La Germania perde uno dei protagonisti della Ostpolitik

Gabriele D'Ottavio - 22.08.2015

Giovedì è venuto a mancare Egon Karl-Heinz Bahr, uno degli artefici della Ostpolitik. Egon Bahr era nato il 18 marzo 1922 a Treffurt in Turingia, uno dei Länder Orientali della Germania. Finita la seconda guerra mondiale, cui aveva partecipato come soldato dal 1942 al 1944, Bahr iniziò la sua attività di giornalista come inviato di “Berliner Zeitung”, “Allgemeine Zeitung” e “Tagesspiegel”; dal 1950 al 1960 fu anche caporedattore dell’emittente radiofonica berlinese RIAS. La sua carriera politica fu strettamente legata a quella del suo mentore, nonché amico, Willy Brandt. Iscritto alla Socialdemocrazia tedesca dal 1956, Bahr venne nominato nel 1960 dall’allora borgomastro berlinese portavoce al Senato e direttore dell’ufficio stampa e informazione di Berlino Ovest. Nel 1966, quando Brandt divenne ministro degli Esteri, Bahr fu nominato ambasciatore straordinario e, nel 1967, direttore della Commissione di pianificazione presso l’Auswärtiges Amt. Al culmine della carriera politica di Brandt, Bahr ricevette nel 1969 il doppio incarico di segretario di stato presso la cancelleria e di delegato plenipotenziario della città di Berlino e, nel 1972, divenne ministro agli Affari particolari. La sua attività politica proseguì, tuttavia, anche dopo le dimissioni di Brandt da capo del governo, provocate dallo scandalo Guillaume. Nel luglio 1974 il successore di Brandt, Helmut Schmidt, affidò a Bahr il Ministero per la Cooperazione allo sviluppo, incarico che ricoprì fino al 1976. Membro del Bundestag sin dal 1972, resterà parlamentare fino al 1990, l’anno della riunificazione tedesca. leggi tutto

L’esperimento greco

Francesco Lefebvre D’Ovidio * - 18.08.2015

Il recente accordo di negoziare un accordo (“agreement to agree”, dicono gli inglesi), raggiunto fra Ecofin e governo greco, per la continuazione dei trasferimenti di capitali da parte degli Stati membri verso la Grecia, è il frutto di una forte pressione esercitata dall’opinione pubblica sui ministri finanziari europei e, in particolare, sui governanti tedeschi, affinché effettuassero il “salvataggio” della Grecia anziché spingerla ad “uscire” dall’Eurosistema.

Sembra spontaneo domandarsi: da cosa nasce questa pressione?

La risposta è fornita dalla diffusa persuasione, in una parte dell’opinione pubblica e dei politici di vari paesi membri, che i principi di politica economica posti alla base del processo di integrazione europea siano errati. Tali principi vengono solitamente etichettati dai media come “neo-monetaristi” (o “neo-liberisti”) e la richiesta di osservarli, rivolta ai paesi in crisi, è qualificata come imposizione di “austerità” e di misure recessive.

Invece, questa parte dell’opinione pubblica europea sostiene principi di politica economica che vengono solitamente definiti “neo-keynesiani” e consistenti, in sostanza, nella convinzione che per aumentare il PIL sia necessario aumentare la spesa pubblica (cosiddette misure espansive di politica fiscale).

Sorvoliamo sulla correttezza di queste definizioni e sulla validità delle teorie economiche sostenute dall’una e dall’altra parte.

Il dato di fatto è che l’evoluzione del processo di integrazione è stata dominata dai principi definiti nel trattato di Maastricht, nello statuto del SEBC (Sistema europeo delle banche centrali) e in tutto l’apparato normativo sul mercato unico e sulla convergenza dei paesi in condizioni di squilibrio. leggi tutto