Argomenti
Le proteste in Cile: fine della Costituzione di Pinochet o inizio di una nuova ricetta anti neoliberismo?
Il 14 ottobre 2019 la nazione che era considerata dal suo presidente Piñera un’“oasi” di progresso economico e sociale nel mezzo del mare tempestoso dell’America Latina si è riversata nelle strade di Santiago per cominciare una serie di manifestazioni che hanno aperto un solco incolmabile nella fiducia cieca delle classi politiche cilene nella continuazione di un modello che, nella sua sostanza costituzionale ed economica, è stato creato a seguito del golpe militare del generale Augusto Pinochet del 1973. Nonostante la causa scatenante delle proteste che si sono sviluppate in tutto il paese sia stato il rincaro del prezzo di 30 pesos nelle ore di punta dei biglietti della metro di Santiago il volume e la partecipazione di un variegato complesso di elementi sociali cileni fa presupporre una serie di problematiche ben più ampie e stringenti di un semplice aumento del costo di un bene pubblico. La iniziale reazione forte e violenta del governo, con la polizia e l’esercito che sono stati accusati di violazioni dei diritti umani nei confronti dei manifestanti, sottolinea una frattura netta tra una classe politica che non rappresenta che una minoranza del paese e il resto della popolazione: l’incapacità dei leggi tutto
La Colombia e le FARC: un eterno ritorno
Il 29 agosto 2019, con un messaggio inviato da una località segreta, l’ex vicesegretario delle FARC, Iván Márquez, ha ufficializzato il ritorno alle armi di una parte delle FARC, interrompendo di fatto il processo di pace ottenuto dall’ex presidente Juan Manuel Santos nel settembre 2015. La ripresa delle armi di una parte delle FARC-EP comporta un rinnovarsi delle violenze ai danni della popolazione civile nelle zone interessate dal ritorno dei guerriglieri, oltre al pericolo di una delegittimazione del processo di pace, in quanto l’ex numero due delle FARC aveva partecipato attivamente alle trattative di pace a La Avana.
La ripresa delle ostilità tra FARC dissidenti e governo ha dunque scatenato una serie di dibattiti sulle cause che hanno provocato la mancata osservanza del trattato di pace: le ipotesi sulle motivazioni di questo ritorno alle armi degli ex guerriglieri possono essere riassunte in due posizioni.
La prima ritiene che il trattato di pace, o Acuerdo General, contenga intrinsecamente un orientamento retorico di ricerca del consenso della società colombiana, ossia di un impianto dialettico orientato maggiormente verso un consenso emotivo piuttosto che verso una chiara e definitiva risoluzione dei conflitti politici fra Stato e FARC-EP. leggi tutto
Oligarchia e populismo in Brasile
Quanto successo in questi giorni in Brasile merita qualche riflessione. Non solo per la portata politica del caso Lula, ma perché ci dice molto del rapporto tra oligarchie e populismo e della crisi della democrazia. Di questo in effetti si tratta, e non di un semplice caso di corruzione, come parrebbe a leggere la maggioranza della stampa occidentale. L’inchiesta Lava Jato, che ha scoperchiato quello che tutti sapevano – che la politica brasiliana fosse profondamente corrotta, compresi molti esponenti del PT – è, in realtà, servita come grimaldello per scassinare le istituzioni democratiche: Dilma, lontana da ogni accusa di corruzione, fu sottoposta a impeachment per fatti politici ridicoli – un uso invero illegale del rifinanziamento pubblico, una pratica consolidata da tutti i governi brasiliani, di qualsiasi colore; ed ora, dopo le minacce nemmeno tanto velate di un colpo di stato militare, Lula viene condannato da corti tutt’altro che imparziali, per supposti reati che non reggerebbero la prova di processi seri. La gogna mediatica e l’impegno della magistratura è tutta per il PT, mentre i vari esponenti della destra brasiliana, colpevoli di ben più gravi reati, sono lasciati in pace.
E’ la resa dei conti voluta dall’establishment, stanco di ingoiare bocconi amari e impaziente di riprendere leggi tutto
Il vertice dei vescovi latinoamericani
Nel contesto di quella che altre volte abbiamo definito come nuova geografia ecclesiastica, assume una maggiore rilevanza l’incontro del CELAM (Consiglio Episcopale Latinoamericano) che si sta svolgendo a San Salvador (9-12 maggio). Si tratta della riunione dei rappresentanti di un istituto che riunisce le ventidue Conferenze Episcopali site nel vastissimo territorio compreso tra il Messico e Capo Horn, inclusi il Caribe e le Antille. Nell’occasione sono presenti anche esponenti della Chiesa cattolica statunitense e di quella canadese, segno di una viva attenzione alle questioni della più stretta attualità.
El Salvador, Venezuela
La scelta del paese centroamericano quale luogo di celebrazione del vertice non è casuale: si celebra infatti nel 2017 il centenario della nascita di monsignor Oscar Romero, del quale si aspetta la prossima canonizzazione. È in ricordo della sua esperienza pastorale che il consesso dei vescovi si riunisce, con l’obiettivo di discutere sulle emergenze denunciate ormai quarant’anni fa da Romero, ‘voce dei senza voce’: la lotta contro la povertà, la ricerca della pace. Si tratta di un’assemblea ordinaria, dalla quale non si attendono documenti particolari, leggi tutto
Stati Uniti e Messico: troppo uniti per essere divisi?
Anche se scomparsa dalle prime pagine internazionali, la questione dei rapporti fra Stati Uniti e Messico continua a rappresentare una delle priorità dell’agenda Trump. Durante la campagna elettorale, tale questione si è imposta quasi a paradigma della postura del nuovo Presidente e uno dei primi atti successivi al suo insediamento è stato rilanciare in maniera eclatante il tema del muro di separazione fra i due Paesi. Il cahier de doleances dell’amministrazione è lungo e articolato e spazia dalla sfera economica a quella della sicurezza interna, trovando il suo punto di saldatura nella questione dell’immigrazione, in particolare quella irregolare, che Trump si è impegnato a ridimensionare ricorrendo – se necessario – a provvedimenti draconiani. Dal punto di vista messicano, le cose sono rese più complesse dalla coincidenza con una delicata fase della vita politica interna. Il prossimo anno, in Messico, si terranno, infatti, le elezioni presidenziali, elezioni a cui il Presidente uscente, il contestato Enrique Peña Nieto, non si potrà ricandidare. In questo contesto, vari osservatori hanno ipotizzato che la linea dura dell’amministrazione USA possa, in ultima analisi, rafforzare la posizione dell’opposizione di sinistra, anche alla luce delle difficoltà che stanno sperimentando le altre forze politiche, primo fra tutti il Partito rivoluzionario istituzionale, tradizionale forza di governo del Paese. leggi tutto
Il Papa impantanato in Venezuela
Il 26 ottobre le agenzie informarono che Nicolás Maduro aveva incontrato Papa Francesco e che la Santa Sede s’impegnava a facilitare, insieme a UNASUR, il dialogo tra il governo venezuelano e l’opposizione. Il Venezuela era al bordo del bagno di sangue e il mondo plaudì. Perfino gli scettici, di cui faccio parte, sperarono che il Papa e Maduro si fossero intesi: perché, se no, quell’annuncio? L’incontro parve un salvagente lanciato a chi stava affogando, un gesto politico molto azzardato. Ma ben venga, pensai, se eviterà la carneficina garantendo un ritorno guidato alla democrazia. Su che altro poteva basarsi l’intesa? Non sono passati due mesi e a Caracas il dialogo è dato per morto. Il Papa festeggia gli 80 anni riunendo Santos ed Uribe. Ma sulla festa incombe lo spettro del vicino malato.
Quel gesto causò grandi effetti. Alcuni buoni: accrebbe la speranza che la crisi avesse esito pacifico; altri meno: il governo brandì l’incontro con Francesco come un’arma contro l’opposizione; la quale, già divisa, si spaccò ancor più: i radicali, malfidenti e coi leader incarcerati, rifiutarono di dialogare con Maduro, ma i moderati non potevano dire di no al Papa, per cui accolsero il dialogo e sospesero le proteste. leggi tutto
Trump e i diversi volti del populismo
Ora ci toccherà prendere sul serio Donald Trump. Finora avevamo fugato il suo fantasma facendo scongiuri, scrollando le spalle, ironizzando sui suoi eccessi. Era un impresentabile: chiuso. Eppure presto sarà il Presidente degli Stati Uniti. Capita sempre più spesso che il mondo faccia il tifo per qualcuno e il paese interessato gli volti le spalle. E’ appena capitato col plebiscito colombiano. Ed è stato così a lungo anche in Italia: il mondo rideva di Berlusconi, ma la maggioranza degli italiani lo votava. Il fatto è che viviamo sì in un mondo globale, ma ciò non implica che il mondo, per ben informato che si creda, comprenda umori e dinamiche di luoghi remoti e complessi. Ora è capitato con gli Stati Uniti. Su Trump, sulla sua figura e sul suo trionfo son già colati e ancora più colano oggi fiumi di inchiostro. In realtà, però, su chi è, su quanto ci è e quanto ci fa, su cosa farà davvero, regna l’assoluta incertezza, perfino tra i più esperti e informati osservatori della realtà statunitense. Solo su una cosa nessuno ha dubbi: la sua inattesa vittoria ci racconta una società attraversata da un grave malessere, arrabbiata e spaventata, ansiosa di riscatto ma orfana di rappresentanza politica. leggi tutto
Brasile: uno tsunami nel Partito dei Lavoratori
Ho atteso un po’ di tempo per scrivere questo articolo perché volevo aspettare i risultati definitivi delle elezioni municipali, in modo da avere un’idea esatta delle dimensioni del disastro atteso per il Partido de los Trabajadores (Lavoratori) degli ex-presidenti Lula e Dilma.
Non è stato un disastro ma un’ecatombe o, se si vuole, un vero e proprio tsunami. I numeri sono sufficientemente chiari per rendersi conto di quanto è successo.
Nel 2012 il PT reggeva 644 municipalità ma ora, nel 2016, ne ha ottenute solamente 254; la popolazione interessata è dunque passata da 38 milioni a meno di sei milioni. Questo significa che il PT non solo ha perso in più della metà delle municipalità, ma che ha vinto solo in città molto piccole e in nessuna capitale federale, a parte Rio Branco, la capitale dello stato di Acre, in piena foresta amazzonica, alla frontiera con il Perù.
Da parte sua il PSDB (Partito Social Democratico), partito in lizza per l’elezione presidenziale un anno fa, sconfitto da Dilma Rousseff, oggi nel 2016 governa su 48,7 milioni di persone quando nel 2012 lo faceva su 28,5 milioni. Il partito del presidente Temer (Partito del Movimento Democratico – PMDB) ha invece mantenuto la linea di galleggiamento: nel 2012 reggeva 1017 municipalità, oggi divenute 1038. Il fatto più rilevante, tuttavia, è probabilmente la vittoria di Marcelo Crivella, leggi tutto
Dal Venezuela il nuovo ‘Papa Nero’.
Venerdì scorso, 14 ottobre, è stato eletto il nuovo generale dei gesuiti, il venezuelano Arturo Sosa Abascal. Tradizionalmente l’uomo al vertice della Compagnia di Gesù viene definito ‘Papa Nero’. A quel che ne sappiamo, l’espressione fu riportata la prima volta dal prete-scrittore francese Jean Hippolyte Michon, che in una novella del 1865 (Le Jésuite) aveva messo in scena proprio il rientro del generale Jan Roothaan a Roma dopo l’esilio seguito ai moti del 1848, acclamato dalla folla al grido di «Viva il papa nero». L’invocazione richiamava l’abitudine degli ignaziani di abbigliarsi in quel colore. A un bambino che chiedeva spiegazioni alla madre sul significato di quel saluto, la donna – stando alla penna di Michon – rispose: «È il papa nero, il vero papa».
Arturo Sosa, tra periferia e centro
Oggi che «il vero papa» è egli stesso un gesuita, questa distinzione suona stonata, ma è indubbio che il capo dei gesuiti ricopra un posto di rilievo per la vita della Chiesa. Arturo Sosa ha un altissimo profilo intellettuale e non è certo una novità per il generale della Compagnia di Gesù. Esperto di scienza politica, accademico di valore, conosce il mondo e l’arte di governare, come dimostrato dalla sua strada all’interno dell’ordine, in Venezuela prima e a Roma poi, leggi tutto
Dall’Ungheria alla Colombia, i rischi della logica referendaria
Due storie profondamente diverse, che arrivano da luoghi separati da poco meno di diecimila chilometri. Eppure, a ben guardare, due storie che presentano similitudini interessanti e preoccupanti da non sottovalutare per il bene di tutti, a qualunque latitudine.
L’inizio di ottobre è stato segnato dal più capzioso dei referendum, organizzato dal Primo Ministro ungherese Orban per consentire al suo popolo di esprimersi – ovviamente per rigettarlo – sul sistema delle quote stabilito in sede UE per la ricollocazione dei rifugiati nel continente. L’intera operazione si è risolta in un imprevisto e fragoroso fiasco: una partecipazione al voto ben al di sotto del 50% ha portato all’annullamento del risultato, seppure il 98% dei voti abbia espresso il consenso alle intenzioni del governo. Col consueto piglio autoritario, Orban si è affrettato a ridimensionare il significato dell’astensione, a dichiararsi vincitore, ad avvisare Bruxelles che dovrà comunque tenere in conto l’espressione della volontà del popolo ungherese, e ad annunciare che introdurrà comunque una riforma costituzionale per riaffermare l’esclusiva competenza statale sulle quote di accoglienza. Una riforma che un alto rappresentante del suo partito ha giustificato con la necessità di difendere anche i milioni di ungheresi che hanno disertato le urne perché, evidentemente, non hanno compreso la gravità della posta in gioco. leggi tutto