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12 ottobre 2024
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La crisi dell’Unione Europea

Paolo Pombeni - 07.01.2016

Da cosa dipende la crisi dell’Unione Europea? La domanda dovrebbe essere di quelle che inquietano, mentre invece l’impressione è che in fondo il tema, almeno a livello di opinione pubblica generale, non susciti particolare interesse. Del resto è da mesi che si registrano insoddisfazioni circa l’incapacità della Ue di affrontare in maniera decisa problemi sia di politica internazionale che di politica interna.

Lo sfarinarsi del tanto proclamato e lodato (ai bei tempi) “spirito comunitario” è sotto gli occhi di tutti. L’apertura ad Est che era stata avviata con grandi speranze e conseguenti proclamazioni di svolte epocali si sta rivelando una fonte di erosione di quella che si riteneva fosse la grande tradizione comune dell’europeismo. Diritti fondamentali, libertà storiche come quella di stampa, rigore nell’amministrazione pubblica sono dimensioni che non hanno trovato terreno molto fertile nei paesi un tempo satelliti dell’URSS. Era comprensibile che il passaggio da un regime assolutistico di partito unico ad una democrazia evoluta non sarebbe stato una passeggiata, ma le difficoltà sono state sottovalutate, convinti che bastassero l’egemonia dell’Europa occidentale e l’offerta di una partecipazione al nuovo benessere per convertire società che evidentemente avevano problemi interni nello sviluppo di un certo contesto politico.

Così non è stato, anche perché ben presto l’Europa occidentale non ha avuto più molto da offrire a causa di una crisi economica di dimensioni non previste. leggi tutto

Perseguitati per la fede. Un dramma senza esclusive

Claudio Ferlan - 07.01.2016

La libertà religiosa è garantita in ambito internazionale dall’articolo diciotto della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ed è assicurata in molte leggi fondamentali: bastino qui gli esempi del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America o l’articolo diciannove della Costituzione italiana. Ciononostante, a una percentuale molto alta di donne e uomini non è consentito vivere e professare apertamente il proprio credo. Lo affermava il Pew Research Center nel bilancio presentato il 28 febbraio scorso, dove si suonava anche l’allarme per una situazione in sensibile peggioramento. Previsioni fosche che i primi resoconti del nuovo anno confermano a pieno.

Tutti abbiamo ben presenti movimenti terroristici come Boko Haram o Isis, abbiamo notizia delle violenze religiose in Kenya o in Somalia, ma in molti casi l’intolleranza è tutt’altro che fuori dalla legge. Guardiamo alla lista pubblicata dalla Organizzazione Non Governativa Human Rights Without Frontiers (HRWF), che segnala venti Paesi nelle cui carceri vi sono persone detenute per motivi religiosi: i cosiddetti FoRB (Freedom of Religion or Belief & Blasphemy Prisoners). L’elenco è lungo ma non esaustivo: Arabia Saudita, Azerbaigian, Bhutan, Cina, Corea del Nord, Corea del Sud, Egitto, Eritrea, Indonesia, Iran, Kazakistan, Laos, Pakistan, Russia, Singapore, Sudan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam. Non esaustivo perché leggi tutto

Merkel bizzosa, Europa senza rotta

- 22.12.2015

Un passo avanti e due indietro. E’ questo il ritmo dell’incerto incedere della nostra Europa. Qualche mese fa mi ero rallegrato su queste colonne per la decisione presa dal consiglio europeo di erigere l’ultimo fondamentale pilastro della unificazione del sistema monetario dei paesi euro. Si trattava di mettere in piedi un meccanismo fotocopia di quello che esiste da quasi un secolo negli Stati Uniti che doveva prevedere una garanzia federale (FDIC-Federal Deposit Insurance Corporation) sui depositi bancari fino ad una soglia di 100.000 euro.  Negli Usa la FDIC  nasce nel 1933 sotto la coraggiosa presidenza Roosvelt a seguito delle ripetute crisi bancarie che si verificano negli anni 20 e nei primi anni 30 del XX secolo. Consente di  alleviare la paurosa crisi del sistema bancario durante la grande crisi assicurando  i depositi (oggi fino a 250.000 dollari) in caso di fallimento della banca. La FDIC interviene in seguito con artiglieria pesante negli anni 80 e 90 quando gli Usa soffrono di una protratta serie di chiusure  delle piccole banche e impedisce alla crisi del sistema bancario di infettare l’intera economia.  E’ attiva ovviamente negli anni recenti dal 2008 e costituisce un vero baluardo del sistema creditizio americano. La sua disciplina è cambiata nel 2010 con la riforma dei mercati finanziari (Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act)  che l’ha resa più efficiente e ne ha espanso la copertura assicurativa non solo portandola a 250000 dollari ma ancorandola anche a requisiti di bilancio delle banche. leggi tutto

Londra e Roma “mano nella mano” al Consiglio europeo. Cui prodest?

Massimo Piermattei * - 22.12.2015

In prossimità del Consiglio europeo del 17-18 dicembre, un appuntamento che si preannunciava quanto mai rilevante – sul tavolo, tra l’altro, le problematiche legate ai flussi migratori, alle crisi internazionali, alla “Brexit” – «la Repubblica» e il «Telegraph» hanno pubblicato un articolo di fondo (Lavoriamo insieme per un’Europa migliore/Britain and Italy stand together on EU reform”) firmato congiuntamente dal ministro degli esteri italiano Gentiloni e dal suo omologo inglese Hammond. Il ragionamento proposto si sviluppa soprattutto intorno a due punti chiave: la necessità di “semplificare” l’Ue e renderla più flessibile (parola che diventa quasi un mantra, tante sono le volte che ricorre nel testo); il diritto per gli stati che vogliono progredire sulla via della maggiore integrazione, specie se parte dell’Eurogruppo, di andare avanti.

Tuttavia, entrambi i concetti sono formulati in termini così vaghi che, volendo, è possibile dare al documento interpretazioni completamente divergenti. Ad esempio, sulla necessità (innegabile) di riformare l’Ue, di semplificarne il quadro istituzionale, si può innestare facilmente il tentativo di ridimensionare il ruolo delle istituzioni comuni – soprattutto del Parlamento europeo, di ammorbidire il “vincolo europeo” in alcuni campi e di abbassare la portata di diverse politiche: tutti concetti che potrebbero essere sottoscritti da partiti, leggi tutto

Da Parigi, il primo accordo universale sul clima

Elisa Calliari * - 22.12.2015

A Parigi abbiamo visto molte rivoluzioni. La più bella, la più pacifica rivoluzione è stata ora raggiunta: una rivoluzione climatica”. Così il presidente François Hollande ha salutato sabato 12 dicembre l’adozione dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, frutto di due intense settimane negoziali tenutesi nella capitale francese a partire dal 30 Novembre e culmine di un percorso iniziato alla Conferenza delle Parti (COP) di Durban quattro anni fa. L’Accordo è stato accolto da un generalizzato entusiasmo da parte della stampa, del settore privato, di molte organizzazioni della società civile e, soprattutto, da parte degli stessi paesi che lo hanno più volte definito un eclatante successo del multilateralismo. Che sia davvero una “rivoluzione”, come affermato da Hollande, è difficile da sostenere. Ciò non toglie che si tratti di un accordo storico nella sua natura universale e, sotto alcuni aspetti, più ambizioso di quanto ci si aspettasse inizialmente.

L’elemento di ambizione più importante è rappresentato dall’obiettivo di lungo periodo che si è scelto di perseguire, ossia di mantenere l’aumento della temperatura rispetto al periodo pre-industriale “ben al di sotto dei 2 °C” e sforzandosi di limitarlo a 1.5 °C. Il riferimento a quest’ultimo target rappresenta forse la vittoria più importante per i paesi in via di sviluppo, ed in particolar modo per le piccole isole caraibiche e del Pacifico che avevano più volte annunciato di non poter firmare alcun accordo che le condannasse all’estinzione. leggi tutto

L'analisi del sabato. Francia-Italia: riflessioni sul ballottaggio

Luca Tentoni - 19.12.2015

Fra i numerosi spunti interessanti che l'analisi del voto francese offre al dibattito italiano ce ne sono alcuni che meriterebbero maggior rilievo, soprattutto nella prospettiva di un non improbabile ballottaggio, con l'"Italicum", alle future (forse non molto prossime) elezioni per il rinnovo dell'Assemblea di Montecitorio. Al secondo turno delle "regionali" francesi sono andati ai seggi 26.455.071 elettori (il 58,41% del totale degli aventi diritto): fra essi, 25.167.273 hanno espresso un voto valido (55,56% sugli aventi diritto, 95,13% sui votanti). Al primo turno, invece, i votanti erano stati 22.609.335 (49,91%) e i voti validi 21.708.280 (47,92% sugli aventi diritto, 96,01% sui votanti). Nel giro di una settimana, insomma, i francesi che sono andati alle urne sono aumentati di circa 3 milioni e 850 mila unità, mentre i voti validi hanno avuto un incremento di 3 milioni e 460 mila unità. Un progresso notevole, pari all'8,5% degli aventi diritto. Com'è noto, i ballottaggi hanno visto prevalere in sette occasioni il candidato del centrodestra e in cinque quello di sinistra (più un autonomista, in Corsica) ma nessun esponente del FN ha ottenuto la vittoria. Anche senza addentrarci nell'analisi delle matrici di flusso elettorale (che pure ci darebbe indicazioni interessanti, come per esempio il dato Ipsos-France in base al quale l'indice di fedeltà degli elettori nei ballottaggi triangolari, fra primo e secondo turno, è stato del 95% per i socialisti, del 92% per il centrodestra e solo dell'88% fra chi aveva votato FN, leggi tutto

Luci e ombre dell’accordo di Parigi

Elisa Magnani * - 19.12.2015

L’11 dicembre si è conclusa a Parigi la ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, già nota al grande pubblico come Conferenza sul clima di Parigi. L’attenzione mediatica, sia prima sia durante questo evento geopolitico mondiale, è stata enorme, producendo da un lato grandi aspettative e dall’altro molti dubbi sulla possibilità di raggiungere un effettivo accordo tra tutti gli stakeholder coinvolti. Il dubbio che la preoccupazione per il clima e la salute del pianeta non fosse sufficiente a superare il prevalere degli interessi economici di alcuni dei soggetti coinvolti serpeggiava infatti già prima dell’incontro e anche durante – come espresso dalle parole del presidente degli Stati Uniti – ma a Conferenza conclusa non si può che riconoscere che il timore si sia effettivamente trasformato in verità e che gli interessi di alcuni Stati in via di sviluppo o produttori di petrolio e di alcune lobby globali abbiano pesantemente condizionato le trattative. La necessità di raggiungere un accordo, infatti, ha imposto di ammorbidire alcune posizioni particolarmente spinose per alcuni paesi e stakeholder e così il bilancio finale non è rigoroso come ci si aspettava, come avrebbe dovuto essere, e le questioni veramente pregnanti - carbon taxes, limiti obbligatori per i singoli paesi, sanzioni - sono scomparse in fretta dal tavolo delle trattative. leggi tutto

Se il Front National vince tra la gente, il modello francese ha fallito

Francesca Del Vecchio * - 17.12.2015

Il doppio turno premia i moderati. Accade in Francia, dove domenica 13 dicembre si è disputata la partita più importante: il ballottaggio per le elezioni regionali. I Repubblicani smentiscono i pronostici fatalisti, conquistando sette regioni, a fronte delle cinque dei Socialisti. Nulla di fatto per il Front National, vincente al primo turno con le percentuali di voti più alte in ben sei regioni (Nord-Pas-Calais/Picardia, Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Champagne-Ardenne/Lorena/Alsazia, Centro, Midi-Pyrénées e Borgogna/Franca Contea).

Nonostante gli esiti - più rassicuranti rispetto a quelli dello scorso 6 dicembre - non tranquillizzano i numeri di questa tornata elettorale. Il partito di estrema destra - guidato da Marine, figlia di Jean-Marie Le Pen - guadagna alle urne percentuali significative: 6,6 milioni di voti pari al 28%. Cifre che lasciano poche speranze per i sostenitori del modello d'integrazione transalpino, ad oggi al collasso. A dirlo è la crescente insofferenza nei confronti di immigrati e stranieri espressa attraverso il voto al Front National. Il suo 29% - circa - del primo turno è sintomo dell’interesse pubblico per le battaglie anti immigrazione, oltre che per l’economia nazionale e sicurezza interna di cui il Front National si è fatto propugnatore accanito. Il modello francese di convivenza e integrazione - con la presunzione dell'assimilazione - ha dimostrato le sue falle già con le rivolte delle banlieues del 2005, quando ai ragazzi veniva imposta la rimozione delle proprie specificità culturali, leggi tutto

Molto rumore per nulla? Il secondo turno delle regionali francesi

Michele Marchi - 15.12.2015

Dunque è stato tutto uno scherzo? Il solito FN che spaventa mezza Europa, poi arriva il barrage républicain e il pericolo rientra?

In realtà le cose sono andate piuttosto diversamente. E in attesa di poter riflettere sui flussi elettorali e sui dati precisi e relativi ad ogni singola regione, è possibile avanzare qualche riflessione di circostanza.

Prima di tutto bisogna riflettere sul dato della partecipazione. Tra primo e secondo turno si è passati dal 49 al 58,5%, quasi dieci punti percentuali che in termini di voti significano circa quattro milioni di elettori in più che si sono mobilitati. È stato l’effetto della “chiamata alle armi” in funzione anti-frontista? La lettura in questa direzione può essere corretta, ma il dato può anche essere interpretato in altro modo: ancora una volta una parte consistente di elettori dei partiti di governo (PS e LR) hanno voluto mandare un segnale di insoddisfazione alle rispettive classi dirigenti astenendosi massicciamente al primo turno, un po’ meno al secondo. Al contrario il voto FN sembra oramai essersi strutturato come voto di adesione, che non tende a diminuire quando aumenta la partecipazione. Insomma gli elettori da mobilitare sembrano essere oramai una percentuale sempre maggiore di quelli tradizionalmente ascrivibili ai partiti di governo. leggi tutto

La Cancelliera del mondo libero

Gabriele D'Ottavio - 15.12.2015

L’anno scorso il tributo è venuto dal quotidiano britannico «Times», questa volta ci ha pensato il settimanale americano «Time» a eleggere Angela Merkel “persona dell’anno”, mettendola in cima a una lista di soli uomini e assegnandole il titolo di “Cancelliera del mondo libero”. Non si tratta di un atto di gentilhommerie (per la prima volta dal 1986 la scelta è caduta su una donna), ma di un riconoscimento che è stato motivato sulla base del ruolo internazionale avuto dalla Cancelliera tedesca: dopo la crisi economica, Merkel ha preso di petto quella dei rifugiati e, secondo quanto si legge nella motivazione del «Time», si sarebbe “opposta fermamente alla tirannia, fornendo una leadership morale decisa in un mondo che ne è a corto”.

Curiosamente, i media tedeschi non hanno dato particolare risalto alla notizia: un anonimo trafiletto sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», una breve intervista al pittore irlandese Colin Davidson, autore del ritratto della copertina del «Time», sulla «Süddeutsche Zeitung» e poco altro. Il quotidiano tedesco che ha dato un po’ più di peso al riconoscimento del «Time» è stato il conservatore «Die Welt», che d’altra parte, nell’unico articolo di approfondimento (pubblicato a pagina 11), sembra accreditare la tesi secondo cui il settimanale americano, più che premiare Angela Merkel, abbia voluto denunciare l’inerzia del Presidente Obama. leggi tutto