I 70 anni dell’ONU
70 anni e non sentirli? Non sembra il caso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che quest’oggi raggiunge tale veneranda età incurvata dal peso di problemi insoluti e mille preoccupazioni. Da quel 24 ottobre 1945 quando i 51 Stati fondatori decretarono l’entrata in vigore del suo Statuto, il mondo intero sembra cambiato: la fine del colonialismo con l’accesso all’indipendenza di numerosi Stati afro-asiatici, la divisione del mondo nei blocchi contrapposti della guerra fredda e la ricomposizione dello stesso con il passaggio all’era della “globalizzazione”, l’avvento della rivoluzione informatica, la creazione di organizzazioni regionali e l’impressionante sviluppo di diverse aree del “sud” del pianeta. E se l’Organizzazione è stata solo in parte artefice di questi cambiamenti, sicuramente nel tempo ha assurto il ruolo di attenta osservatrice, continuando a fungere da arbitro delle controversie, da incubatore e promotore di piani di sviluppo globale, e da codificatrice del diritto internazionale. Una funzione insostituibile, anche nell’immaginario dei suoi detrattori, come forum di dialogo globale e punto di riferimento perenne per i governi nella promozione della pace, delle libertà e della giustizia.
Tuttavia sono evidenti i limiti dell’ONU. Limiti determinati, piuttosto che da inefficienze gestionali, dalla scarsa propensione degli Stati membri, ad oggi 193, a cedere porzioni della propria sovranità all’Organizzazione multilaterale. È il caso dell’intero settore della promozione e della tutela dei diritti umani, un caposaldo dell’Organizzazione edificata sulle ceneri della seconda guerra mondiale che aveva individuato, su forte pressione della società civile e di uno sparuto gruppo di Stati perlopiù dell’America Latina, nella tutela della dignità di ogni essere umano l’antidoto alle violenze belliche che avevano causato in appena 30 anni circa 90 milioni di morti. La creazione di organi preposti alla formulazione di norme a tutela di soggetti ritenuti più deboli, come i bambini e i portatori di handicap, o per l’eliminazione della discriminazione razziale o della tortura, ha determinato la diffusione di uno standard internazionale comunemente accettato o quanto meno posto quale obiettivo finale verso cui tendere.
Se il bilancio della costruzione di regole mondiali appare un obiettivo perfettamente centrato, è difficile dare un voto altrettanto positivo al sistema di monitoraggio e sanzionatorio di queste stesse norme. Le disposizioni del diritto internazionale impersonate dall’ONU restano spesso disattese dai governi degli Stati, quegli stessi che però non forniscono all’Organizzazione strumenti e mezzi per imporre la loro attuazione, come fanno invece per le leggi nazionali. Ipocrisia, o meglio, Realpolitik la fanno da padrone, configurando accanto a documenti di alto spessore giuridico, un blando sistema di controllo. Allora accade che le polemiche sollevate dalla recente notizia della designazione alla presidenza del Consiglio per i Diritti Umani dell’Arabia Saudita nel 2016, Paese non certo noto per essere un campione nella tutela dei diritti civili e politici, non facciano purtroppo da contrappeso alla scelta degli Stati di operare una trasformazione sostanziale dell’organo, ad esempio sostituendo le figure rappresentative che lo compongono con esperti in materia non delegati degli Stati. Una trasformazione invocata a più riprese dall’opinione pubblica interessata, proprio in ragione di pretestuose indagini in materia o di presenze negli organi di controllo di alcuni Stati tra i principali violatori di diritti umani, ma che ancora non ha trovato uno spazio di attuazione.
Alcuni “acciacchi” dell’ONU sono per la verità congeniti. Primo fra tutti la struttura del Consiglio di Sicurezza, in cui primeggiano 5 membri permanenti con diritto di veto sui restanti 10 a rotazione tra tutti gli altri Paesi al mondo. Una configurazione che rispecchia il sistema politico ed economico delle relazioni internazionali uscite dal secondo conflitto mondiale e i suoi vincitori e che ad oggi, ad eccezione di un ampliamento degli Stati membri a rotazione, non ha subito alcuna modifica a dispetto delle numerose proposte di trasformazione. Il Consiglio rappresenta l’esecutivo del sistema gestionale onusiano e ad esso è affidato il compito prioritario della salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale in un’Organizzazione votata a “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. L’ONU, o meglio il Consiglio di Sicurezza, è l’unico organo internazionale deputato ad accordare l’autorizzazione a un attacco armato in un mondo che ha messo al bando la guerra come strumento di risoluzione di conflitti; un accordo sancito 70 anni fa e che, all’indomani della fine della guerra fredda e dei fatti dell’11 settembre, appare messo ripetutamente in dubbio dinanzi alle tante violazioni che si stanno verificando. La costituzione di “coalizioni di volonterosi” armati contro un nemico comune ha di fatto costretto il sistema di concertazione multilaterale a valutare ex post le stesse iniziative unilaterali, ad approvarle o criticarle quando esse hanno avuto luogo senza il previo assenso societario.
Nondimeno va tenuto conto dell’estrema debolezza dell’intero sistema attuativo e sanzionatorio dell’ONU connesso al mancato rispetto delle proprie disposizioni o ammonimenti: non esiste un corpo di polizia internazionale, le sanzioni o gli embarghi funzionano limitatamente su un piano globale, e l’ingaggio dei famosi caschi blu viene sancito di volta in volta dal Consiglio di Sicurezza, spesso autorizzando l’uso della forza solo a fini difensivi. Le responsabilità di tali inefficienze non possono che gravare ancora una volta sulle scelte degli Stati membri, di frequente così distanti dalle speranze e dai timori di 70 anni fa, quando la carneficina prodotta dalla macchina bellica aveva indicato nell’unione fra le nazioni la strada obbligata per la salvaguardia dell’umanità.
Che l’ONU sia da allora cambiata è evidente. L’Organizzazione è stata svuotata dai suoi stessi Stati membri dei poteri più propriamente politici ma ha fortificato e vitalizzato le sue capacità tecniche: l’ideazione di piani di sviluppo globale, l’assistenza umanitaria nei casi di calamità naturale o di conflitti armati, il rafforzamento dello stato di diritto e la configurazione del sistema di giustizia internazionale. Nel DNA rimane l’aspirazione a rendere il mondo migliore, mentre il resto dell’organismo muta per adattarsi ai cambiamenti globali. Niente di strano per una “signora” di 70 anni.
di Luca Tentoni
di Miriam Rossi