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La crisi dell’Ue e la fragilità dei partiti europei
Partiamo dalla notizia. Gianni Pittella, presidente del gruppo socialista e democratico al Parlamento europeo, ha proposto ufficialmente che il Pse sospenda Robert Fico, presidente del Consiglio slovacco, a causa delle sue posizioni sui migranti, accusandolo di aver rilasciato dichiarazioni “più vicine a quelle di Salvini e Marine Le Pen che a quelle della famiglia socialista” – in sostanza, Fico aveva dichiarato di volere solo “migranti cristiani” per non snaturare l’identità del Paese. L’iniziativa di Pittella, sostenuta dal presidente del Pse, Sergei Stanishev, mette ancor più in risalto il silenzio del Ppe su Viktor Orban, già di per sé significativo se si tiene presente che persino il presidente Junker proviene da quella famiglia politica. Due episodi diversi che sono espressione dello stato di difficoltà in cui si trova gran parte dei partiti europei di fronte alla doppia crisi che attraversa l’Unione (europea): salvataggio della Grecia e pressione dei flussi migratori. Se è vero che i partiti europei hanno sempre dovuto affrontare problematiche legate ad alcuni affiliati nazionali e ai loro leader – si pensi agli imbarazzi del Ppe per alcune “uscite” di Berlusconi – oggi ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. L’integrazione europea è in crisi, l’Unione europea è in crisi; c’è un risveglio di nazionalismi e passioni nazionali cui non si assisteva da oltre vent’anni. E tutto questo si scarica, naturalmente, anche sui partiti europei. leggi tutto
Torniamo alle Guarentigie?
I tragici fatti di gennaio hanno inevitabilmente attribuito nuova centralità, in Francia, al problema dei rapporti tra Stato e religioni. Come ha segnalato Francesca Barca su “Una città”, agli inizi di marzo il primo ministro Valls ha proposto di “formare” “imam francesi”, che parlino in francese nelle moschee. E’ stato anche proposto di introdurre un obbligo per i futuri imam di frequentare “corsi di laicità” e di consentire un finanziamento pubblico per la costruzione delle moschee, in modo da evitare influenze fondamentaliste. Un finanziamento diretto delle moschee risulta in realtà in contrasto con la legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiese; una relazione di marzo della Commissione per le autonomie territoriali del Senato francese suggerisce allora, in maggiore coerenza con tale legge, l’introduzione dell’obbligo di presentazione, per la costruzione di nuovi luoghi di culto, di un piano di finanziamenti, certificato da un revisore contabile. Secondo alcuni questa previsione potrebbe concretizzarsi attraverso un aggiornamento della normativa sulle associations cultuelles previste dalla legge del 1905 per l’amministrazione dei luoghi di culto.
Associations cultuelles: questo termine evoca in Italia le analisi sui fatti francesi del 1905 compiute da Ruffini, Luzzatti, Salvatorelli, Jemolo e anche in alcune pagine crociane della Storia d’Europa; le associations cultuelles erano associazioni di fedeli destinate ad assumere l’amministrazione dei beni della Chiesa cattolica, sottraendola alle gerarchie ecclesiastiche. leggi tutto
Chi l’ha visto? La scomparsa dell’ONU dallo scenario politico internazionale.
Vari osservatori e studiosi hanno rilevato la straordinaria assenza dell’ONU nelle recenti crisi internazionali. I due esempi più recenti e a nostro avviso più rilevanti sono i seguenti:
a) la conclusione dell’accordo nucleare con l’Iran – il «Joint Comprehensive Plan of Action» firmato a Vienna il 14 luglio 2015 da «E3/EU+3: Cina, Francia, Germania, Federazione russa, Regno Unito e Stati Uniti, con l’alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza» con la Repubblica Islamica dell’Iran: l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’EU sembra aver preso il posto del Segretario Generale dell’ONU;
b) il fenomeno delle migrazioni di massa e dei rifugiati politici dai paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente verso paesi membri dell’Unione Europea: campo tipico di competenza delle Nazioni Unite, ma sul quale non si è avuta occasione di ascoltare nessun intervento, suggerimento o iniziativa del Segretariato Generale o del consiglio di sicurezza. Un fenomeno, quello delle migrazioni e dei rifugiati, che, tra l'altro, è la diretta conseguenza dell’instabilità politica e della conflittualità interna di numerosi paesi, e che denota l’attuale incapacità dell’ONU di assolvere il suo compito principale: il mantenimento della pace nel mondo (cui sono dedicate le norme fondamentali della Carta delle Nazioni Uniti, quelle contenute nei capitoli VI e VII). leggi tutto
Facciamo i conti con il secessionismo in Catalogna
Uno dei punti più discussi delle elezioni regionali di domenica in Catalogna è il carattere plebiscitario che i secessionisti hanno voluto dare alla votazione. Dopo aver celebrato una consultazione non ufficiale sull'indipendenza nel 2014, nella quale saggiarono il loro consenso - notevole sí, ma non maggioritario -, i separatisti hanno lanciato un listone formato da politici, membri dell'associazionismo catalano, personaggi del mondo calcistico e televisivo, cha ha come obiettivo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza in 18 mesi.
Artur Mas, l'attuale presidente regionale, sarà il numero 4 del listone, mentre un excomunista, Raul Romeva, apprezzato nel bacino elettorale più diffidente verso il separatismo, è il capolista. Quest’ultimo ha assicurato che in caso di vittoria lascerà la presidenza del governo regionale a Artur Mas, per favorire il «processo costituente», il cui obiettivo sarà la creazione di strutture di governo nazionali e incluso l’istituzione di un esercito, «qualora sia necessario».
A nessun giurista, analista o persona dotata di buon senso può sfuggire la forzatura del concetto di legittimità proposto dai separatisti catalani in questi mesi, secondo la quale con una semplice maggioranza nel Parlamento regionale si possa dichiarare l’ indipendenza. Sostenuti dai mass media locali (gli indipendentisti scozzesi si lamentarono dell’ostilità della BBC), il secessionismo ha cercato di diffondere l'idea che solo attraverso la separazione leggi tutto
Kosovo: “molto” di nuovo sotto il sole (tardo estivo)
È almeno dalla dichiarazione del 17 febbraio 2008 con cui il Kosovo si autoproclamò indipendente dalla Serbia, che lo scenario politico kosovaro non era così attivo, quasi a voler smentire l’avarizia di azioni politiche rilevanti che il mese di agosto generalmente riserva. Da quella data, le relazioni fra il governo di Belgrado e quello di Pristina, definite eufemisticamente “tese”, rimasero congelate e conferirono al Kosovo uno status ambiguo di Stato non totalmente indipendente. Le truppe militari internazionali della KFOR (Kosovo Force) restarono, seppur in numero limitato, per garantire la sicurezza del territorio anche a più di 15 anni dalla fine della guerra. Gli uomini della missione Eulex, sancita dall’Unione Europea proprio alla proclamazione dell’indipendenza del più giovane Stato del continente, giunsero allora sul territorio per coadiuvare le autorità kosovare nella costruzione dello stato di diritto del Paese. Centinaia di organizzazioni, governative e non, operano attivamente sul territorio sin dalla fine della guerra per sostenere e farsi carico di progetti di cooperazione internazionale che spaziano dall’istruzione/formazione, alla realizzazione di infrastrutture, alla salute pubblica, e all’inclusione sociale. E mentre i soldati vegliano sulla sicurezza, i tecnici di Bruxelles dispensano consigli su procedure amministrative e giuridiche, e gli operatori umanitari intessono relazioni e tentano di alleviare le difficoltà di una comunità frammentata, povera e senza chiari orizzonti, per anni i politici kosovari e i colleghi serbi sono stati a guardare, leggi tutto
Croazia, i rifugiati nel collo di bottiglia dei Balcani
Come temuto, è stato un weekend di sole, pioggia e paura per i profughi siriani, davanti ai quali si è chiusa la strada della rotta balcanica. Dopo l'inaugurazione del muro di filo spinato al confine serbo-ungherese e l'entrata in vigore di leggi draconiane nel paese magiaro (denunciate anche dall'UNHCR come "contrarie al diritto internazionale ed europeo"), il flusso di persone in fuga si è spostato a occidente. E il fallimento dei governi europei nell'accordarsi su un approccio comune all'accoglienza dei profughi, lo scorso giovedì, ha fatto sì che si chiudessero loro in faccia i confini della Mitteleuropa.
Dal 16 settembre, sono più di 25.000 i rifugiati e migranti che sono entrati nell'Unione europea attraverso il confine della Croazia, principalmente dal punto frontiera di Tovarnik. Le prime centinaia di profughi sono state trasferite via treno verso i centri d'accoglienza attorno a Zagabria, e da lì hanno proseguito con altri mezzi fino alla frontiera slovena, dove circa 700 persone restano in attesa di poter entrare nello spazio Schengen. La stazione di Tovarnik si è tuttavia presto sovraffollata, e treni e bus non si sono dimostrati sufficienti per facilitare il deflusso delle persone in transito, mentre le capacità di accoglienza del paese sono andate presto saturandosi.
Il governo di Zagabria si è allora risolto a facilitare il transito diretto dei profughi, inviandoli via treno verso l'Ungheria, da dove potessero proseguire verso l'Austria, di fatto aiutandoli ad aggirare la barriera di Orban. leggi tutto
Ignazi e la spada di Brenno
Piero Ignazi su Repubblica del 12 settembre (con i complimenti di Scalfari) accusa il governo di usare la spada di Brenno nei confronti dell’opposizione interna al PD. La frase è retoricamente ad effetto, ma il vaevictis,alla quale essa fa allusione (così nell’episodio della storia romana che narra Livio), non è altro che “una frase ad effetto”. Per il momento non ci sono né vincitori né vinti nella battaglia per la riforma del bicameralismo. Ma solo tentativi di mediazione da parte del governo che gli oppositori nel partito di maggioranza rifiutano sistematicamente.
Renzi, alla differenza di più illustri predecessori, da Togliatti a Longo, non ha espulso nessuno dal PD. Si è limitato a vincere le primarie, che lo avevano opposto a Bersani, Cuperlo e Civati, ed ha accettato l’incarico datogli da Napolitano per condurre in porto le riforme che il paese attende da anni. Una vittoria, quella alla segreteria del partito, che la “ditta” non ha mai digerito. Non ha espulso nessuno nonostante che la sinistra radicale abbia trattato il segretario del partito come un nemico politico.
Quello peraltro che non convince dell’articolo di Ignazi sono gli esempi che egli trae da una affrettata analisi di politica comparata al fine di persuadere il lettore che il governo italiano è fatto di politici feroci (per esempio il ministro Maria Elena Boschi ?), a differenza dei chierichetti delle altre grandi democrazie europee. leggi tutto
Gran Bretagna: turn left ?
Alla notizia dell’elezione di Corbyn alla guida del Labour Party mi sono ricordato di una vignetta che comparve al tempo della rottura della dissidenza di sinistra del Labour nel 1950-51. Ritraeva Bevan, Wilson, Tiratsoo vestiti da scolaretti che ad un incrocio si imbattevano nel classico cartello turn left (svoltare a sinistra). Anche allora prese piede la leggenda che si erano perse le elezioni del 1951 perché non si aveva avuto il coraggio di spingere la politica del governo laburista abbastanza a sinistra (il partito aveva preso più voti in termini assoluti, ma aveva vinto un minor numero di collegi rispetto ai conservatori).
Il risultato di allora fu che i conservatori arrivarono al potere e se lo tennero per tredici anni. “Tredici anni buttati via” dirà poi la propaganda di Wilson (nel frattempo divenuto molto più tiepido circa le sue antiche posizioni di sinistra) quando nell’ottobre 1964 riportò finalmente i laburisti al governo. Continuò così la serie degli spostamenti del Labour Party tra una posizione sostanzialmente centrista quando era al potere o aveva chance di andarci ed una orgogliosamente di sinistra alternativa quando quell’orizzonte era precluso: ricordarsi dei tempi del lungo regno della Thatcher, neppure scalfita dai furori ideologici di Michael Foot (che peraltro era un intellettuale di notevole spessore). Il pendolo riprese la sua corsa opposta con Blair e il “New Labour” rappresentò la rinnovata proposta di un partito di sinistra che voleva competere con i conservatori non come partito “sectional”, ma come partito della nazione. leggi tutto
Damasco, Istanbul, Berlino
"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.
La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. leggi tutto
La crisi dei rifugiati e dei migranti. Quando la “generosità” è nemica del bene
Qualunque siano state le ragioni, demografiche, economiche, politiche o morali, che hanno spinto la cancelliera tedesca Angela Merkel a dichiarare pubblicamente la volontà di accogliere i milioni di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana, la Germania e la stessa Europa pagheranno caro il prezzo di una scelta che, oggi, appare popolare ma che, domani, si rivelerà esiziale.
Pur senza sottovalutare il dramma umanitario che si sta consumando alle porte del nostro continente, la pura e semplice accoglienza non è e non può essere la risposta; al contrario, essa rischia di creare nuovi e, se possibile, più gravi problemi.
L’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, nell’intento di criticare e sferzare le coscienze europee, ha recentemente ricordato come Turchia e Libano si siano accollati, rispettivamente, due milioni e un milione di rifugiati siriani, mentre la pavida ed egoista Unione Europea sarebbe colpevolmente restia a accogliere e ridistribuire poche decine di migliaia di fuggiaschi.
Il parallelismo è quantomeno fuorviante.
Turchia e Libano, paesi certamente più affini dal punto di vista culturale e religioso alla Siria rispetto ai paesi membri dell’Unione Europea, sono paesi privi di un moderno welfare state e, per questo, paradossalmente meno vulnerabili all’impatto sociale dei flussi migratori.
Allo stesso tempo, pur avendo dovuto sopportare il peso maggiore dei flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, essi non subiscono e, probabilmente, non dovranno subire, nelle stesse proporzioni dei paesi europei, leggi tutto