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19 aprile 2025
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Argomenti

La crisi politica ed economica della Grecia. Uno spettro che si aggira per l'Europa?

Rigas Raftopoulos * - 23.12.2014

La prima votazione per eleggere il nuovo presidente della Repubblica ellenica si è tenuta mercoledì 17 dicembre come aveva annunciato l'8 dicembre scorso il primo ministro Antonis Samaras ed ha avuto esito negativo. Il candidato proposto dal governo, Stavros Dimas, ha ricevuto infatti soltanto 160 voti a favore  laddove la Costituzione greca prevede per la prima tornata il quorum di 200 deputati sui 300 del Parlamento. Se la maggioranza necessaria non viene raggiunta allora dopo cinque giorni si torna a votare con stesse modalità e requisiti. In caso ancora negativo, dopo altri cinque giorni si dovrà effettuare la terza ed ultima votazione con il quorum abbassato a 180 voti. Il fallimento al terzo turno comporterebbe dopo dieci ulteriori giorni le dimissioni del Consiglio dei ministri, lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di elezioni politiche. Il nuovo Parlamento procederebbe come suo primo compito all'elezione del presidente della Repubblica seguendo un calendario articolato su tre votazioni: nella prima il quorum è fissato a 180 voti, nella seconda, cinque giorni dopo, a 151 voti e nelle eventuale terza tornata si confronterebbero i due candidati più votati in precedenza e il vincitore della tornata verrebbe eletto nuovo presidente della Repubblica. leggi tutto

Una storia che serva alla politica (senza esserne serva)

Giovanni Bernardini - 13.12.2014

Ha colto nel segno il romanziere britannico L.P. Hartley quando ha definito il passato come “un paese straniero”, popolato da gente che si comporta in modo strano rispetto a noi. Un paese da cui attingiamo immagini, aneddoti e manufatti con lo stesso spirito ai quali spesso riserviamo lo stesso destino estetizzante e decontestualizzante dei Buddha sui comodini, o degli improbabili tatuaggi tribali da spiaggia. A quell’oceano di eventi accaduti nel tempo accediamo spesso sull’onda di stimoli e assonanze momentanee, destate più dall’istinto che dalla ponderazione. Così la semplice menzione della Crimea nella contesa tra Russia e Ucraina riporta alla mente nozioni di conflitti ottocenteschi, o di più recenti summit che nella vulgata hanno determinato le sorti dell’Europa (“di Yalta”, appunto). Similmente il referendum per l’indipendenza scozzese è stato associato all’immagine di una nuova epopea di “Braveheart”, con buona dose di grossolano ed esilarante anacronismo.

E poi c’è la storia, che è cosa diversa dal collezionismo occasionale di accadimenti passati. La storia che è interpretazione e conferimento di senso a quegli eventi, alla distanza che ci separa da essi, alla miriade di mutamenti infinitesimali e strutturali che hanno prodotto il presente. Pur semplificando, è lecito paragonare le interpretazioni storiche a delle mappe dei possibili percorsi verso quel “paese straniero”: mai uniche né univoche, diverse nei metodi di rilevamento e di raffigurazione, eppure comparabili in base alla loro rispondenza a regole chiare e rigore intellettuale. leggi tutto

La crisi portoghese

Goffredo Adinolfi * - 09.12.2014

Venerdì  21 Novembre l’ex primo ministro portoghese, il socialista José Socrates (2005-2011), è stato arrestato all’aeroporto di Portela mentre rientrava a Lisbona da Parigi.  Le accuse sono pesanti: riciclaggio di denaro, frode fiscale e corruzione.

Quello di Socrates è solo l’ultimo caso di una lunga serie che stanno lambendo più o meno direttamente il mondo della politica e dell’economia. È di pochi giorni fa la notizia di un’indagine su di una rete di corruzione che coinvolgerebbe i più alti livelli dell’amministrazione pubblica. In questo caso i capi d’imputazione riguardano le  “gold visa” ovvero i visti di entrata permanenti concessi dal governo portoghese in cambio di investimenti. C’è poi la condanna per l’ex deputato del Partido Social Democrata (Psd - centro destra) Duarte Lima, a dieci anni di prigione per frode nei confronti del Banco Portugues de Negocios. C’è infine la paradossale questione dei sottomarini militari acquistati in Germania dal governo di centro-destra nel 2004. Per quel contratto due alti funzionari tedeschi della Ferrostaal, impresa produttrice di armi, sono stati condannati dal tribunale di Monaco per corruzione senza che in Portogallo, siano stati condannati i relativi corrotti.

Dietro a questi casi, per il momento perlopiù sporadici, sembrerebbe nascondersi un fenomeno decisamente più esteso. Maria José Morgado, pubblico ministero che per due anni ha guidato la Direcção Central de Investigação da Corrupção e Criminalidade Económica e Financeira, denuncia in un’intervista alla rete televisiva Sic, come, nel corso degli ultimi tre decenni, grande parte dei sostanziosi fondi concessi dall’Unione Europea (si calcola che dalla metà degli anni ottanta siano arrivati circa 9 milioni di euro al giorno) siano stati usati non per il bene pubblico bensì per l’arricchimento individuale leggi tutto

A volte ritornano

Michele Marchi - 02.12.2014

Nicolas Sarkozy si è ripreso l’UMP, a dieci anni dalla prima conquista del partito post-gollista creato dalla coppia Chirac-Juppé nel 2002. Il 28 novembre 2004 Sarkozy aveva ottenuto l’85% dei voti dei militanti e avviato la sua rincorsa all’Eliseo, coronata con la vittoria del maggio 2007. Il 29 novembre 2014 il 63% dei militanti gli ha riconsegnato le chiavi del partito della destra repubblicana francese.

Un decennio è passato e si vede! Si potrebbe affermare così, con una battuta. Infatti, le differenze sono davvero notevoli. Cominciamo da quelle più banali, ma non per questo meno importanti. L’attuale Nicolas Sarkozy è l’ex presidente per cinque anni alla guida del Paese e non in grado nel 2012 di ottenere la riconferma per un secondo mandato. La parentesi maggio 2012-settembre 2014 è stata caratterizzata da una serie di faide interne e di guai giudiziari che hanno condotto l’UMP sull’orlo dell’implosione. Si può senza retorica affermare che il trauma del 2012 non è mai stato superato dal partito ed ora è chiamato a risolvere la situazione colui che, di quel trauma, per molti versi è una, se non la principale, causa.

Non si devono poi sottovalutare le differenze di sostanza tra novembre 2004 e novembre 2014. Intanto lo score. Un plebiscito per Sarkozy nel 2004, con l’85% dei voti (anche se in termini effettivi, solo 60 mila voti contro gli oltre 100 mila odierni) e al secondo posto un misero 8% per Dupont-Aignan e un 5% di testimonianza per Christine Boutin. leggi tutto

Il piano Juncker: quello che le cifre non dicono

Duccio Basosi * - 02.12.2014

In un'epoca di flussi informativi continui, nella quale ogni tweet di qualunque persona celebre pare  costituire un evento per il semplice fatto di essere stato digitato, la professione giornalistica non deve essere semplice da svolgere. Nel caso italiano, poi, il fatto che ogni analisi pessimistica delle tendenze in atto sia considerata, con simpatico giovanilismo, opera da "gufi", rende forse la vita del reporter ancora più complicata. È solo con questa premessa che è possibile affrontare con serenità il tema del corto circuito politico-informativo che ha circondato il lancio, lo scorso 26 novembre, del cosiddetto "Piano Juncker" per gli investimenti in Europa.

 

Quello degli investimenti per rilanciare la crescita è, con ogni evidenza, uno dei temi fondamentali dell'attuale dibattito politico nell'Unione europea: della necessità di misure straordinarie hanno parlato, negli ultimi mesi, quasi tutti i governi dell'Unione, così come i sindacati, le organizzazioni degli imprenditori e persino il governatore della Banca centrale europea. È certo possibile osservare che, almeno in alcuni casi, coloro che oggi invocano gli investimenti sono gli stessi che hanno celebrato fino a ieri le presunte virtù "espansive" delle politiche di austerità. Dopo sette anni di decrescita infelice e di stagnazione, che hanno moltiplicato la povertà e le disuguaglianze da un lato, e gli squilibri politici e regionali nell'Unione europea dall'altro, tuttavia, è un fatto che oggi nell'insieme della UE si registra un parziale cambiamento di parole d'ordine. leggi tutto

La corsa inarrestabile degli anti-europeisti di Farage

Giulia Guazzaloca - 29.11.2014

Lo UKIP conquista il secondo seggio a Westminster

           

La prima doccia fredda per il primo ministro inglese David Cameron era arrivata lo scorso 9 ottobre, quando il partito anti-europeista di Nigel Farage aveva conquistato il suo primo seggio al Parlamento di Londra, nella persona dell’ex conservatore Douglas Carswell, dopo le elezioni suppletive di Clacton. In meno di due mesi lo United Kingdom Independence Party ha raddoppiato: Mark Reckless – anch’egli un ex tory che ha prontamente dichiarato che diversi conservatori sarebbero pronti a passare nelle fila del partito di Farage – si è imposto con il 42% delle preferenze sulla conservatrice Kelly Tollhurst ferma al 34,8%. L’elezione suppletiva si è svolta, dopo una lunga e agguerrita campagna, lo scorso 20 novembre nella circoscrizione di Rochester-Strood, nel Kent settentrionale.

Tanto Reckless quanto soprattutto Farage hanno subito letto la vittoria alla luce delle elezioni politiche del prossimo maggio: il leader dello UKIP prefigura di poter raddoppiare i deputati che porterà alla Camera dei Comuni rispetto ai 20 ipotizzati all’indomani delle elezioni per il Parlamento europeo. In effetti la corsa dello United Kingdom Independence Party sembra inarrestabile e anche nel caso di Rochester si sono dimostrate vincenti le sue tradizionali istanze da little England: lotta all’immigrazione, difesa dell’identità britannica, promessa di uscire dall’Unione Europea. leggi tutto

Perché Juncker non può dimettersi

Lorenzo Ferrari * - 27.11.2014

Se non c'è due senza tre, i precedenti non sono di buon auspicio per il nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Il primo presidente lussemburghese della Commissione, Gaston Thorn (1981-85), guidò quella che è pressoché unanimemente ricordata come la Commissione più debole e scialba della storia europea. Il secondo, Jacques Santer (1995-99), guidò l'unica Commissione che fu costretta a dimettersi. Ora siamo al terzo presidente lussemburghese, e l'inizio del suo mandato non pare molto fortunato: da varie parti sono state chieste le sue dimissioni a seguito di un'inchiesta giornalistica sui favori fiscali concessi dal Lussemburgo alle società che vi si stabiliscono, decisi negli anni in cui il paese era governato da Juncker.

Le dimissioni di Juncker sono molto improbabili, dato che la politica fiscale dei suoi governi non violò le norme europee. Violò piuttosto lo spirito di cooperazione che dovrebbe governare i rapporti tra gli stati membri, ma sono assai rari i casi di dimissioni indotte da questioni morali. Inoltre, le rivelazioni giornalistiche sulla politica fiscale del Lussemburgo hanno presentato dei dettagli prima inediti, ma non hanno destato vera sorpresa: che il paese praticasse una politica fiscale di favore per le società che vi si stabilivano era un fatto ampiamente noto. Era noto al Partito Popolare Europeo che scelse Juncker come suo candidato alla presidenza della Commissione, lo era  (sebbene non nei dettagli) agli elettori che hanno votato per il Parlamento europeo, e lo era anche ai parlamentari europei che hanno approvato la nomina di Juncker e della sua Commissione. leggi tutto

La Germania e la crisi economica

Edmondo Montali * - 20.11.2014

La Germania è vittima di una sorta di maledizione sulla quale storici e pubblicisti discutono da decenni.

Se prova ad esercitare la propria influenza, traducendo la sua forza economica in scelte politiche, la cosa migliore che può capitare è l’evocazione di un famigerato quarto Reich. Se invece sceglie un atteggiamento di basso profilo ripiegando sulla difesa dei propri interessi che non appaia protagonismo internazionale allora il coro intona la grettezza teutonica incapace di vedere oltre la sua meschina convenienza.

Ne nasce un enigma irrisolvibile: è sempre colpa della Germania.

L’attuale crisi dell’eurozona non fa eccezione. La Germania è doppiamente colpevole: di cercare di instaurare un’egemonia tedesca sull’Europa con mezzi diversi dalle avventure militari dei precedenti tentativi; ma allo stesso tempo è colpevole di non esercitare una leadership sufficientemente forte e visibile per consentire a tutta la zona Euro di uscire dalle difficoltà.

In verità, il dibattito europeo, certamente esacerbato dalla crisi e alimentato da strumentalizzazioni politiche al servizio di interessi di parte, manca di chiarezza sia su cosa succede sulle sponde del Reno e dell’Oder sia dei motivi che spingono i tedeschi a una politica che in apparenza miope e senza prospettive.

La Germania ha avviato un processo di riforme per il quale paga un prezzo sociale alto. Certo, ha un grande surplus commerciale, imprese competitive, conti pubblici in ordine, un Welfare state ancora relativamente generoso leggi tutto

TTIP: di cosa diavolo (non) stiamo parlando?

Giovanni Bernardini - 18.11.2014

Soltanto dieci anni fa l’Unione Europea godeva presso i suoi cittadini di una popolarità certamente maggiore di quella odierna. A fronte del massiccio allargamento a est, molto si discusse all’epoca della necessità che un’entità di mezzo miliardo di persone definisse chiaramente la propria vocazione negli equilibri geopolitici. Si suggerì allora che l’Europa perseguisse l’obiettivo di imporsi come “potenza civile”: in altri termini, che essa si ponesse alla guida della creazione di un sistema internazionale fondato sulla forza di istituzioni e regole comuni, riproponendo su scala globale il proprio modello di integrazione nella diversità e di valorizzazione della pluralità. Tuttavia, negli anni successivi i dissidi tra governi hanno spinto molti osservatori ad assimilare l’Unione a un novello Tarzan: sana, forte e muscolosa ma incapace di esprimersi in modo chiaro e comprensibile. Se la corporatura dell’Europa appare oggi più gracile, provata da anni di lacerazioni intestine, di crisi economica e di confronto sempre meno favorevole con altri soggetti internazionali in ascesa, si può persino dire che quell’afasia abbia finito per estendersi gravemente anche alla comunicazione interna all’Unione.

Lo dimostra la vicenda del dossier TTIP, acronimo inglese di “Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti”. Un progetto ambizioso di cui sarebbe interessante discutere nel merito… se ce lo consentissero le informazioni a disposizione. La nostra ignoranza non è vinta dalle professioni di fede del Primo Ministro Renzi, leggi tutto

Mal comune ….. mezzo gaudio?

Michele Marchi - 15.11.2014

La metà del mandato ha spesso colto gli inquilini dell’Eliseo in difficoltà. Ma a due anni è mezzo dalla sua elezione, François Hollande si trova nel bel mezzo di un vero e proprio incubo politico.

De Gaulle, eletto a suffragio universale diretto nel 1965, ha vissuto il trauma di metà mandato nel maggio ’68. La riscossa del voto anticipato è durata meno di un anno e poi sono giunte le dimissioni dopo la bocciatura del referendum sulla riforma del Senato. Per Pompidou eletto nel 1969, la metà del settennato ha coinciso più o meno con il non esaltante (per partecipazione) referendum sull’ingresso di Londra nella Cee. Il suo successore Giscard ha iniziato un po’ prima della metà, dall’aprile 1977, ad incontrare problematiche, soprattutto economiche, di complicata risoluzione. Ma sono forse Mitterrand e Chirac, nei loro due rispettivi primi mandati, ad avere vissuto in maniera peggiore il passaggio di boa. Per Mitterrand l’autunno 1984 giunge dopo la traumatica svolta del rigore dell’anno precedente, ma soprattutto dopo la doppia debacle di giugno: manifestazioni oceaniche contro la legge Savary (insegnamento laico e repubblicano) e disastrose elezioni europee. Nemmeno il cambio a Matignon, con l’arrivo del giovane Fabius, impedì la prima coabitazione dopo la sconfitta alle legislative del 1986. Addirittura Chirac ha “festeggiato” la metà del suo mandato, nel 1998, nel bel mezzo di una coabitazione da lui stesso provocata con l’inutile scioglimento dell’anno precedente. Dunque si potrebbe concludere che l’attuale situazione di Hollande non sia poi così “speciale”. Attenzione però. Prima di tutto nei casi citati l’orizzonte potenziale dei presidenti in carica era di altri tre anni e mezzo e il tempo trascorso in carica era stato della stessa durata. Oggi a stupire è quindi, innanzitutto, quanto rapidamente sia crollato il livello di fiducia nei confronti dell’attuale presidente e allo stesso tempo quanto esiguo sia oramai quello a disposizione prima dell’avvio della nuova campagna elettorale. leggi tutto