Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

La crisi dell’Ue e la fragilità dei partiti europei

Massimo Piermattei * - 01.10.2015
Gianni Pittella

Partiamo dalla notizia. Gianni Pittella, presidente del gruppo socialista e democratico al Parlamento europeo, ha proposto ufficialmente che il Pse sospenda Robert Fico, presidente del Consiglio slovacco, a causa delle sue posizioni sui migranti, accusandolo di aver rilasciato dichiarazioni “più vicine a quelle di Salvini e Marine Le Pen che a quelle della famiglia socialista” – in sostanza, Fico aveva dichiarato di volere solo “migranti cristiani” per non snaturare l’identità del Paese. L’iniziativa di Pittella, sostenuta dal presidente del Pse, Sergei Stanishev, mette ancor più in risalto il silenzio del Ppe su Viktor Orban, già di per sé significativo se si tiene presente che persino il presidente Junker proviene da quella famiglia politica. Due episodi diversi che sono espressione dello stato di difficoltà in cui si trova gran parte dei partiti europei di fronte alla doppia crisi che attraversa l’Unione (europea): salvataggio della Grecia e pressione dei flussi migratori. Se è vero che i partiti europei hanno sempre dovuto affrontare problematiche legate ad alcuni affiliati nazionali e ai loro leader – si pensi agli imbarazzi del Ppe per alcune “uscite” di Berlusconi – oggi ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. L’integrazione europea è in crisi, l’Unione europea è in crisi; c’è un risveglio di nazionalismi e passioni nazionali cui non si assisteva da oltre vent’anni. E tutto questo si scarica, naturalmente, anche sui partiti europei.

 

Nate negli anni ’70 in vista delle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, le grandi federazioni transnazionali dei partiti europei hanno storicamente evidenziato la tendenza a rafforzarsi all’interno dell’emiciclo di Strasburgo a scapito della propria coesione interna. Infatti, è bene ricordare che nel contesto dell’Ue, partito europeo e gruppo parlamentare europeo non hanno il legame stretto che si genera nelle arene politiche nazionali. Per contare di più nel Pe, le federazioni transnazionali hanno accolto partiti ed eurodeputati che poco avevano a che fare con la cultura politica di riferimento, ma che erano utili per avere più voti in Assemblea; un approccio che ha finito addirittura per snaturare il bagaglio storico-politico di alcune “famiglie”. Il caso più eclatante è quello del Ppe che, a partire dai primi anni ’90, con l’ingresso dei Tories e di altri partiti conservatori ed euroscettici – Forza Italia e i conservatori portoghesi - ha visto poco a poco erodersi, fin forse a sparire del tutto, l’originale matrice federalista e democratico-cristiana. Lo stesso Pse ha cambiato la denominazione del proprio gruppo a Strasburgo per la difficoltà del Pd e di alcuni suoi eurodeputati, di definirsi socialisti o comunque membri della famiglia socialista europea.

 

E pensare che, dopo le elezioni europee del 2014 (grazie al Trattato di Lisbona e per la prima volta nella storia dell’integrazione europea) il nuovo presidente della Commissione, seppur sempre nominato dal Consiglio europeo, era espressione del partito che aveva vinto le elezioni, come avviene normalmente negli stati membri. Questa innovazione aveva un duplice obiettivo: rilanciare la partecipazione alle elezioni europee e rafforzare il livello europeo della lotta politica. E così è stato, se è vero che il Consiglio europeo avrebbe preferito a Junker una figura più “grigia” e al “servizio” degli Stati, in continuità con Barroso.

 

Il limite dei partiti europei, reso ancor più evidente dallo stato di crisi che attraversa l’Ue, è di aver sostanzialmente recepito l’atipicità istituzionale dell’Ue trasferendola sul terreno della lotta politica, che si è strutturata, in un certo senso, in modo intergovernativo: 1) il focus è sui partiti nazionali e non sulle federazioni transnazionali; 2) non sono possibili forme di militanza diretta, ma si deve passare per il “filtro” del partito nazionale; 3) gli appuntamenti più rilevanti non sono i congressi, come avviene normalmente nelle realtà nazionali, ma gli incontri tra i capi di Stato e di governo espressi dai partiti affiliati, per ricercare posizioni comuni in vista dei Consigli europei, un approccio che accresce la centralità del massimo organo intergovernativo dell’Ue. Di conseguenza, il rafforzamento dei poteri e delle prerogative del Parlamento europeo, avviato dall’Atto Unico Europeo e da Maastricht, non ha portato a un rilancio dei partiti europei, ma a quello dei gruppi politici nell’emiciclo di Strasburgo. Tanto che, anche nella eterogenea area delle destre europee, i cui partiti hanno troppo poco in comune, eccezion fatta per alcune parole d’ordine, per “fondersi” in un vero e proprio partito europeo, si è comunque riusciti a dar vita a dei gruppi parlamentari, per incidere di più nei processi decisionali comunitari – si pensi all’EFD di Farage e Grillo o all’ENF della Le Pen e di Salvini.

 

Se è vero che le crisi che attraversano oggi l’Ue sono “effetti”, tragici, di una crisi più generale che attraversa l’integrazione europea, o meglio dell’assenza di una visione globale sulla direzione da imprimere al processo d’integrazione - quindi una crisi di “progetto”, di “sogno” – allora a chi, se non ai partiti, dovrebbe spettare il compito di elaborare e rilanciare una visione politica che sappia andare oltre gli egoismi nazionali e i particolarismi? Ecco la sfida che attende i partiti europei. Una sfida che richiede sempre più una risposta e non un (ennesimo) rinvio della domanda.

 

 

 

* Massimo Piermattei, insegna Storia delle relazioni internazionali all’Università della Tuscia