Argomenti
Due ragioni per non buttare l’Europa nel vortice della crisi
Predicare in mezzo alle tempeste finanziarie in favore dell’Europa ricorda la preghiera di Paolo durante il naufragio dal quale si salvò approdando fortunosamente a Malta. Certo le difficoltà sul cammino dell’integrazione che sono scoppiate dalla primavera del 2010 sembrano essere tutte ancora lì e averne generate di nuove per le quali la soluzione appare ancora più lontana di prima. Sul piano finanziario l’area euro e il resto della Ue rappresentano un mercato tra i più aperti del globo. Il che può essere un vantaggio ma anche un’ipoteca in momenti in cui le correnti speculative sono travolgenti. Se questo l’Europa non può tornare indietro, occorre sapere che una forte esposizione richiede anche difese adeguate. Per tutti e non solo per i paesi che in un particolare momento sembrano più deboli.
Consideriamo due temi caldi per l’integrazione europea.
Il primo, sottolineato dal presidente della BCE Mario Draghi, e sul quale più volte mi sono soffermato su questo periodico, tocca l’ assicurazione federale sui depositi, fino a 100000 euro, ricordandoci che negli Usa (la FDIC) arriva invece a 200000 dollari. Questa assicurazione, negli Usa, garantisce i depositanti nel caso la banca fallisca. E’ basata su fondi federali e quindi su base geograficamente mutualistica. leggi tutto
La difficile Europa
Dare troppa importanza alle sortite di Renzi su chi deve fare i compiti a casa, chi deve presentarsi col cappello in mano e roba simile è poco utile. Altrettanto inseguire le reazioni che le uscite del premier italiano suscitano a Bruxelles: anche quelle sono fatte tanto per finire sui giornali. Gli osservatori più attenti vedono bene le contraddizioni che si annidano in tutte queste posizioni. Werner Mussler sulla “Frankfurter Allegemeine Zeitung” ha ironizzato sul commissario Moscovici che prima dichiara solennemente che il rispetto dei parametri e l’ortodossia economica sono “un mantra” (parole sue) e poi deve far capire che, insomma, il termine va poi preso con cautela. Il commentatore tedesco ha insinuato che con la Francia, paese di cui Moscovici è stato ministro delle finanze, che rischia di sforare il limite di deficit del 3%, avesse tutto l’interesse ad andarci leggero.
Vale però la pena di passare oltre le sceneggiate politiche e di interrogarsi sulla sostanza della faccenda: l’Unione Europea è o no in crisi? C’è una leadership capace di affrontarla? Rispondere a queste domande significa anche affrontare la necessaria analisi del contesto mondiale in cui si muove l’Europa. Continuiamo a parlare di globalizzazione, ma poi ci dimentichiamo che è qualcosa di più di un vago slogan passpartout. leggi tutto
Le crisi dell’Europa, l’assenza della storia e degli storici
Nel dibattito pubblico europeo e in quello interno ai ventotto Stati membri è ormai da più di un anno che si discute, con (incauta) superficialità di mettere fine all’Euro, di estromettere la Grecia dall’Eurogruppo, di uno scenario che vede l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Un dibattito che sui migranti e sul trattato di Schengen continua a scrivere nuove tragiche pagine. Il tutto in un contesto che, dall’Ucraina al Medio Oriente, appare sempre più teso e pone all’Ue sfide non ulteriormente rinviabili (ancor più dopo gli attentati di Parigi e nell’ottica delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti).
Gran parte delle responsabilità delle molteplici crisi che attraversano l’Europa (e dell’imbarbarimento del dibattito sul processo d’integrazione) ricade sulle spalle delle classi dirigenti nazionali, preoccupate “più dalle urne che dai libri di storia” - per riprendere lo slogan di un azzeccato manifesto lanciato da Amnesty International. Tuttavia, se la fine dell’integrazione europea, o l’ipotesi di un suo drastico ridimensionamento, sono diventati ormai un tema su cui confrontarsi, un’opzione possibile tra le tante sul tavolo, attribuire le responsabilità esclusivamente agli Stati membri e alle storiche contraddizioni irrisolte della costruzione europea sarebbe riduttivo, per quanto corretto. Così come sarebbe riduttivo limitarsi a denunciare la scarsa competenza con la quale i mass media si occupano dell’Ue e delle sue crisi. leggi tutto
Nessuna guerra è giusta, tranne… Star Wars, o le difficili parole delle nuove guerre (1).
«Siamo isolati, siamo disarmati»
«Non è come se stessimo per riaprire i rifugi antiaerei», ha dichiarato Henry Rousso in un articolo pubblicato da Le Monde all’indomani degli attentati di Parigi «ma gli europei si devono interrogare sulla loro capacità di organizzarsi per la nuova guerra e di viverla», anche a costo di richiamare dal passato esperienze che si pensavano seppellite, come l’idea del sacrificio di sé e la necessità di saper ricorrere alla violenza delle armi. Quella di Rousso, uno dei maestri riconosciuti tra gli storici dei conflitti novecenteschi e del totalitarismo, è stata una delle voci più lucide e incisive che si è levata nel disorientamento generale seguito alle stragi del 13 novembre. Mentre François Hollande proclamava ad una nazione spaventata che ci si trovava di fronte ad una nuova guerra, lo storico si interrogava su quali strumenti culturali avessero i francesi per affrontare la nuova prova. «Di fronte alla minaccia siamo isolati, siamo disarmati». E’ difficile dargli torto. Gli europei di oggi sono gli eredi della demilitarizzazione seguita all’apocalisse del 1945, quell’età post-eroica, per usare un’espressione di James Shehaan un po’ grossolana ma indubbiamente efficace, durante la quale armi e armati sono stati rimossi dalla quotidianità e dall’immaginario, anche se non dalla politica reale. leggi tutto
L’Europa e il rischio Orban per Polonia e Balcani
Settimana scorsa il Parlamento europeo ha discusso della situazione in Polonia dopo che il partito di destra Diritto e Giustizia (PiS) nelle prime settimane di governo ha riformato la Corte Costituzionale e messo sotto controllo la televisione pubblica. La premier polacca Beata Szydło si è premurata di tranquillizzare i parlamentari europei: “non è successo niente di male”, “non c'è stata alcuna violazione della Costituzione” e “non vedo ragione per cui perdere così tanto tempo sulle questioni [interne] polacche”, ha dichiarato. Ma le rassicurazioni non sono bastate agli eurodeputati né al vicepresidente della Commissione europea, il socialista olandese Frans Timmermans, secondo il quale “rischiamo di vedere l'emergere di una minaccia sistemica allo stato di diritto in Polonia”. Sempre settimana scorsa, la Commissione europea ha avviato un meccanismo di dialogo con il governo polacco per verificare se il governo di Varsavia non abbia infranto le leggi del proprio stesso paese. Una prima volta per un meccanismo adottato nel 2014 come passo intermedio prima di aprire una procedura in base all'articolo 7 del Trattato UE – quello in base al quale uno stato membro può arrivare a perdere i propri diritti di voto laddove sia verificata una “grave violazione” dei valori europei.
La situazione della Polonia è ancora fluida, leggi tutto
Prezzi del petrolio in discesa: opportunità e rischi
Un piccolo rimbalzo del prezzo del petrolio da 27 a 32 dollari tra venerdì 22 gennaio e inizio settimana non altera molto la condizione dei mercati dell’oro nero che hanno visto le quotazioni scendere dai quasi 110 dollari a barile toccati nel 2012-4 ai livelli del 1979. Come cambiano le prospettive dell’economia mondiale con un prezzo del petrolio tornato ai livelli di quasi 40 anni fa? Chi ci guadagna? Chi ci perde? E come saranno i prezzi nel futuro prossimo?
Iniziamo dall’ultima questione osservando che dal 2008 il consumo di petrolio nel mondo è cresciuto ad un misero tasso annuo dello 0.5%. Dal 2000 l’energia prodotta con le rinnovabili è cresciuta circa 15-16 volte e quella idroelettrica dal 2010 ha compensato con la sua salita la lenta discesa di quella nucleare. Le proiezioni dei consumi per i prossimi 15 anni, per quanto veritiere, ci danno tassi di crescita annuali del consumo di petrolio attorno allo 0.4%. A fronte di nuovi giacimenti scoperti soprattutto in Africa, produzione Usa di shale oil e ripresa estrazione in Iran le previsione di prezzi, a meno di conflitti di larghe proporzioni, sono piatte se non cedenti.
Per capire invece gli effetti del basso prezzo dell’energia, occorre muoversi per grandi aree. Nei paesi produttori del golfo persico le entrate fiscali provengono in gran parte dalle royalty su petrolio e gas esportati. Ad esempio, nel sultanato dell’Oman, petrolio e gas fanno il 72% del bilancio pubblico. leggi tutto
Cambiare i trattati UE? Sì, ma per unificare l'Europa, non per dividerla
Nella sua intervista dell'11 gennaio a Repubblica, il sottosegretario agli affari europei Sandro Gozi annuncia che l'Italia si spenderà per la riapertura dei trattati europei a partire dal 2017, in concomitanza con il sessantennale del Trattato di Roma.
L'Unione europea del 2020 che Gozi preconizza, tuttavia, non è quella che ci si potrebbe aspettare. Anziché una democrazia compiuta che abbracci l'intero continente, il sottosegretario propone di spezzare l'Unione in due: da una parte i paesi di un nucleo duro, democratico ed integrato; dall'altra un'Europa più sbiadita, sostanzialmente ferma allo stato attuale dell'integrazione.
La proposta di Gozi ha varie fonti. Da una parte, essa riprende certe idee del movimento federalista europeo, volte a rafforzare l'eurozona, ma che possono andare a discapito dell'unitarietà dell'Unione intera. Dall'altra parte, essa riprende la visione di Sergio Fabbrini, più volte pubblicata sul Sole 24 Ore. Infine, essa appare coerente con una politica di appeasement delle velleità del governo conservatore britannico, nel caso in cui esso arrivi a vincere il referendum sulla brexit atteso per il 2016-2017 – non è un caso se solo poche settimane fa i ministri degli esteri Gentiloni e Hammond firmavano un editoriale a quattro mani. Ciononostante, si tratta di un modello fallace e pernicioso. Anziché procedere verso una maggiore integrazione e democratizzazione dell'UE, tali posizioni sull'integrazione a “due cerchi” ci riportano indietro di almeno dieci anni, al dibattito sull'Europa a due o più velocità dei primi anni 2000. leggi tutto
David Bowie: la vita come un’opera d’arte
Se la sua vita è stata un’opera d’arte, la sua morte non è stata da meno. Un’uscita di scena con tempismo teatrale perfetto, suggellata da uno splendido disco (“Blackstar”), con tanto di versi profetici: “Guardate lassù, sono in paradiso, ho cicatrici che non possono essere viste” (l’inquietante “Lazarus”). David Bowie, il Duca Bianco, l’uomo delle stelle si congeda dal mondo al culmine della (ritrovata) popolarità, mentre il suo testamento musicale è appena uscito nei negozi (l’8 gennaio, proprio nel giorno del suo 69° compleanno). Bowie lottava da 18 mesi una battaglia contro il cancro. Proprio mentre era alle prese con la malattia, ha registrato le canzoni – e i video, magnifici e disturbanti – di “Blackstar”. Un album il cui titolo non andrebbe scritto, ma solo illustrato grazie al disegno di quella stella nera, che ora ci appare come il sepolcro ideale di un artista che, fin dall’odissea dell’astronave di Major Tom (“Space Oddity”, 1969), ha inseguito un sogno spaziale ad occhi aperti.
Una morte accompagnata da un cordoglio pressoché unanime e che tuttavia ci appare impossibile. Forse perché, novello Dorian Gray, Bowie ha sempre lasciato che fosse il suo ritratto a invecchiare, mai il suo spirito. O forse perché il suo nome è ormai da tempo consegnato all’eternità. Paradossale, per chi è partito dal warholiano “quarto d’ora di celebrità”, immortalandosi poi “eroe per un giorno” (“Heroes”). leggi tutto
Francia un anno dopo
Circa due mesi fa ci si interrogava (http://www.mentepolitica.it/articolo/un-salto-di-qualit/693) sul necessario “salto di qualità” che la Francia nel suo complesso e l’Europa come comunità di Stati avrebbero dovuto fare per affrontare il dopo 13 novembre 2015, a dieci mesi dai già gravissimi fatti di Charlie Hebdo e dell’ipermercato kosher. È avvenuto questo “scatto”? La risposta dell’opinione pubblica francese e della sua classe politica sono state all’altezza della gravità della minaccia? I vicini europei e le istituzioni comunitarie hanno reagito nella direzione di una più concreta coesione e solidarietà e di un maggior coinvolgimento e coordinamento nel contrasto al terrorismo?
Sul secondo punto il bilancio è deficitario. L’Ue sta reagendo con la solita lentezza e soprattutto sui dossier chiave del registro dei passeggeri aerei e della gestione dei flussi migratori, nonostante alcuni passi avanti, lo shock del 13 novembre non sembra aver fornito la sufficiente scossa. Allo stesso modo la “risposta europea” sul fronte della lotta allo Stato islamico da un punto di vista militare non sta brillando per coordinamento. Dopo la formale (e strumentale) richiesta di Hollande, al momento di annunciare l’intenzione francese di estendere i propri bombardamenti all’indomani degli attacchi di Parigi, l’Ue ha per la prima volta attivato l’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona (difesa reciproca). leggi tutto
Il fantasma della Brexit
L’«anno orribile» dell’Unione Europea
Un bilancio sullo stato dell’Unione Europea nel 2015 rimanda l’immagine di una realtà che pare lontanissima da quella in cui, solo tre anni fa, le venne assegnato il premio Nobel per la pace. Se la crisi economica le ha fatto progettare, per la prima volta nella sua storia, l’espulsione di uno dei suoi paesi membri, la Grecia, la massiccia ondata migratoria e la sfida del terrorismo islamico ne hanno pesantemente compromesso i valori fondanti. Non solo, infatti, sono in crescita un po’ ovunque i partiti anti-europeisti e xenofobi, ma la reintroduzione dei controlli alle frontiere da parte di Svezia e Danimarca sta mettendo a rischio gli storici accordi di Schengen e, più in generale, quei principi di libertà e libera circolazione delle persone che costituiscono l’architrave del progetto comunitario. Sono subito corsi ai ripari il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il commissario europeo agli Affari Interni e all'Immigrazione: il primo dicendo che salvare Schengen è un «dovere collettivo », il secondo convocando un tavolo coi rappresentanti dei governi svedese, danese e tedesco per rispondere in modo coordinato all’emergenza migratoria.
In questa complessa situazione, nella quale si sommano il prosperare dei populismi nazionalistici, il moltiplicarsi delle sfide interne ed esterne, la crisi della leadership tedesca, un ulteriore pericoloso fantasma aleggia sul futuro della UE. leggi tutto