Migrazioni, istituzioni e diritto: andare oltre i confini
Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato sull’edizione on line de Il Sole 24 Ore, Martin Wolf ha scritto che gli «ideali cosmopoliti» che animano chi guarda con favore alle grandi migrazioni «sono in contrasto con il fatto che la nostra vita politica è organizzata in giurisdizioni territoriali sovrane». L’osservazione è utile; consente di capire qual è il nodo strutturale che offre una perdurante legittimazione a chi, sia pur spinto dalle più diverse, e talvolta urticanti, motivazioni, ritiene doveroso che gli Stati erigano barriere ad hoc e diano comunque la piena precedenza ai cittadini.
Non si tratta di dare “sfogo” a presunzioni oggi poco sostenibili, come lo sono, ad esempio, quelle di chi ritiene che vi possa essere una comunità soltanto in presenza di un’omogeneità di caratteri valoriali o etnici. Il punto è quello che aveva evidenziato Proudhon già nella seconda metà del XIX Secolo, all’interno del celebre saggio sulla capacità politica della classe operaia.
In quel caso era in gioco l’opportunità che Francia e Inghilterra stipulassero un trattato commerciale di libero scambio. Proudhon notava che – pur non essendoci ragioni di principio per essere contrari alla libertà dei commerci – sarebbe stato senz’altro allentato il regime doganale e, con esso, l’implicito ma decisivo legame di garanzia che permetteva ai ceti produttivi di riconoscersi reciprocamente e di dare con ciò fiducia e stabilità alle istituzioni nazionali. La chiusura dello Stato, in altri termini, è chiusura di un sistema anche concettuale, nel quale l’organismo nazionale si autoalimenta in un circuito protetto di produttori e consumatori, che a loro volta danno linfa alla tenuta del circuito politico-amministrativo, il quale, dal canto suo, può giustificarsi soltanto nella misura in cui riversi su quegli attori tutte le sue attenzioni privilegiate. Per Proudhon il libero scambio avrebbe messo in discussione la sicurezza che un mercato chiuso avrebbe garantito a lavoratori destinati ad essere impiegati nelle sedi stesse in cui si produce ciò che essi avrebbero consumato: quelle sedi, nazionali, sarebbero state esposte alla concorrenza; sarebbero state indotte ad essere più competitive; e quindi sarebbero state portate a diminuire gli standard delle condizioni di lavoro.
Si dirà, certo, che, in Europa, il superamento dei limiti concettuali in questione è avvenuto da tempo: il processo di integrazione europea ha abbattuto proprio le barriere sul cui modello Proudhon aveva argomentato l’importanza dell’esistenza previa di un legame di garanzia e della sua tenuta sostanziale. Ciò è vero; ma lo è solo in parte.
Per un verso, l’abbattimento di quelle barriere è stato solo interno, tra gli Stati aderenti all’Unione; anzi, si è fondato sul compresente riconoscimento di una barriera esterna nei confronti degli altri Stati e, più in generale, di tutti i soggetti terzi. Per altro verso, esso è avvenuto, per lungo tempo, mediante acquisizioni graduali, in un contesto di crescita economica complessiva in cui il libero commercio ha potuto distribuire opportunità e benessere, e per lo più tra società civili relativamente vicine. Viceversa, vuoi le “estensive” politiche dell’allargamento, vuoi la crisi successiva al 2008, vuoi, ancora, l’attuale e forte immissione, nella compagine sociale, di forti iniezioni di culture e di aspettative altre hanno contribuito a mettere in discussione il nuovo legame di garanzia costituito dalla cittadinanza europea. La fragilità di questo confine (esterno) ha naturalmente riattivato la tendenza a riscoprire l’altro confine (quello interno).
Ciò significa, forse, che la constatazione di Wolf è insuperabile? Occorre dunque arrendersi all’irrinunciabilità dei privilegi connessi all’esistenza di giurisdizioni territoriali sovrane (anche quando queste, cioè, hanno mutato la loro capacità di governo in un modello, quello europeo, di sovranità 2.0)?
La considerazione della fragilità di un confine non impone di bloccare le migrazioni con la riaffermazione di tutto ciò che è giuridicamente e politicamente connesso alla funzione concettuale di quello stesso confine. Pretenderlo equivale a voler ristrutturare un edificio pericolante ben sapendo che ad essere franoso è il terreno sottostante, e facendo peraltro finta che ciò non sia rilevante. Soprattutto, pensare di riaffermare la territorialità più tradizionale significa credere di poterla ricostituire con forme e contenuti che, in natura, non esistono più, perché gli Stati che storicamente compongono il nucleo duro dell’Unione hanno ormai condiviso da tempo, anche grazie all’intervento delle giurisdizioni sovranazionali, itinerari di intensa mutazione degli istituti e dei principi che ne alimentano la consistenza (su tutti, del principio della tutela dei diritti fondamentali e del principio di eguaglianza). Non si tratta ora di assecondare trasformazioni radicali della cittadinanza, della partecipazione politica, del servizio pubblico; si tratta di constatarne un’incombente e pervasiva versione “resiliente” e di declinarne ufficialmente tutti i connotati.
In questa prospettiva, una bella lezione di metodo ce l’ha data, pochi mesi fa, la nostra Corte costituzionale, quando (con sentenza n. 119/2015) ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni che limitavano il servizio civile ai soli cittadini italiani. In quel caso la Corte non ha negato l’esistenza e la perdurante predicabilità della classica nozione di cittadinanza (innanzitutto politica); le ha tuttavia affiancato una nozione costituzionale più ampia, giustificata sempre e comunque per mezzo del dato costituzionale della partecipazione e degli interessi generali della Repubblica. Si è indicato, così, un confine diverso, che aspetta riconoscimento e che, al contempo, afferma la sovranità di una nuova comunità in formazione.
* Professore Ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università di Trento
di Paolo Pombeni
di Gabriele D'Ottavio
di Fulvio Cortese *