Ultimo Aggiornamento:
22 marzo 2025
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Argomenti

Perché’ in Italia non c’è Podemos?

Andrea Betti * e Gabriel Echeverria ** - 29.10.2015

La crisi economica e politica degli ultimi anni ha fatto riesplodere nel seno della sinistra europea le antiche divisioni e contrapposizioni fra coloro che ambiscono a governare il sistema capitalista e globalizzato cercando di renderlo più giusto e coloro che invece propongono di sfidarlo cercandone un’alternativa. Dal Mediterraneo all’Inghilterra riemergono con forza i dibattiti intorno al significato stesso del “essere di sinistra” e sulla strategia che dovrebbero seguire i partiti progressisti per vincere le elezioni e governare.

Da una parte vi è chi propone di “andare verso il centro”, nel senso di ampliare la propria base elettorale per catturare segmenti di votanti non del tutto identificabili con la sinistra storica. Pare essere questo il caso di Manuel Valls in Francia e, come vedremo, di Matteo Renzi in Italia. Dall’altra parte, si giudicano gli esempi precedenti come deviazioni dalla missione storica della sinistra di combattere il capitalismo in favore di una maggiore uguaglianza economica e si mettono insieme movimenti e coalizioni politiche che si propongono di sfidare frontalmente la austerità di Bruxelles. Rispondono, o hanno risposto, a tale intento, il progetto iniziale di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis in Grecia, oggi ritornato nei ranghi della disciplina europea dopo il defenestramento del Ministro delle Finanze leggi tutto

Bosnia: i primi venti anni degli accordi di Dayton.

Christian Costamagna * - 27.10.2015

Il prossimo novembre si celebrerà il ventesimo anniversario degli Accordi di Dayton, ossia il trattato di pace facilitato dall’amministrazione americana di Bill Clinton che pose fino al conflitto in Bosnia ed Erzegovina (ed in Croazia). In molte sedi si sono tenuti e si terranno convegni, conferenze e seminari sul tema, ma come si presenta, oggi, la situazione in Bosnia ed Erzegovina?

Venti anni or sono, gli Accordi di Dayton vennero avallati e favoriti sia dalla Comunità internazionale, sia dagli attori locali e regionali. Gli Stati Uniti dimostrarono che l’Europa non era in grado, da sola, di gestire i conflitti in casa propria. Il mantenimento di uno stato bosniaco formalmente unitario, all’epoca venne interpretato come un chiaro monito, ossia che non era concesso mutare con la forza i confini internazionali (perché la Bosnia ed Erzegovina, dopo l’indipendenza, venne riconosciuta come membro dell’ONU), ed in secondo luogo non si voleva far passare l’idea che la Comunità internazionale favorisse la creazione di stati monoetnici, e si evitò, peraltro, la creazione di un piccolo stato musulmano in Europa (per quanto queste interpretazioni possano, ovviamente, essere opinabili). Tra i firmatari degli accordi di pace, il Presidente della Croazia Franjo Tudjman ed il Presidente della Serbia Slobodan Milosevic (oltre, ovviamente, ad Alija Izetbegovic), leggi tutto

I 70 anni dell’ONU

Miriam Rossi - 24.10.2015

70 anni e non sentirli? Non sembra il caso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che quest’oggi raggiunge tale veneranda età incurvata dal peso di problemi insoluti e mille preoccupazioni. Da quel 24 ottobre 1945 quando i 51 Stati fondatori decretarono l’entrata in vigore del suo Statuto, il mondo intero sembra cambiato: la fine del colonialismo con l’accesso all’indipendenza di numerosi Stati afro-asiatici, la divisione del mondo nei blocchi contrapposti della guerra fredda e la ricomposizione dello stesso con il passaggio all’era della “globalizzazione”, l’avvento della rivoluzione informatica, la creazione di organizzazioni regionali e l’impressionante sviluppo di diverse aree del “sud” del pianeta. E se l’Organizzazione è stata solo in parte artefice di questi cambiamenti, sicuramente nel tempo ha assurto il ruolo di attenta osservatrice, continuando a fungere da arbitro delle controversie, da incubatore e promotore di piani di sviluppo globale, e da codificatrice del diritto internazionale. Una funzione insostituibile, anche nell’immaginario dei suoi detrattori, come forum di dialogo globale e punto di riferimento perenne per i governi nella promozione della pace, delle libertà e della giustizia.

Tuttavia sono evidenti i limiti dell’ONU. Limiti determinati, piuttosto che da inefficienze gestionali, dalla scarsa propensione degli Stati membri, ad oggi 193, a cedere porzioni della propria sovranità all’Organizzazione multilaterale. leggi tutto

Cosa succede tra Roma e Bruxelles?

Paolo Pombeni - 22.10.2015

Lo scambio aspro di opinioni (chiamiamole così) fra Roma e Bruxelles merita qualche considerazione perché a nostro avviso è una ulteriore spia della crisi che attraversa l’Unione Europea come istituzione. Non andiamo lontani dal vero se lo inquadriamo nell’eterna questione dello scontro fra “sovranisti” e “comunitaristi”, cioè fra coloro rifiutano di considerare Bruxelles come il potere para-federale a cui le nazioni sovrane devono far riferimento e coloro che invece quel potere vorrebbero vedere riconosciuto e se possibile rafforzato.

Naturalmente non ci sfugge che questo rizzar di code nelle euroburocrazie arrivi perché si sta parlando di Italia. Nulla di simile si era visto contro interventi ben più significativi che si rifacevano alla sovranità nazionale da parte della Gran Bretagna o della Corte Costituzionale tedesca. Ad essere maligni verrebbe da pensare che dipenda dal peso che le rappresentanze di quei paesi hanno nella alta burocrazia europea dove invece gli italiani sono sottorappresentati (e secondo alcuni molto timidi nel reclamare le loro radici nazionali). Noi non vogliamo far peccato e col rischio di sbagliarci respingiamo questa ipotesi e più banalmente osserviamo che quei paesi hanno un peso politico maggiore del nostro.

Ci interessa di più promuovere una riflessione su una ragione profonda di questo scontro fra i burocrati di Bruxelles e i politici di Roma. Si sarà notato l’imbarazzo dei vertici della commissione che sono di estrazione politica, i quali si sono esibiti nel funambolico gioco di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. leggi tutto

Sciences Po, specchio della Francia?

Michele Marchi - 20.10.2015

Il FN conquista Sciences Po? Espresso in questo modo il concetto è mal posto e può essere derubricato a livello di boutade mediatica. Se si decide di affrontare la questione con attenzione e fuori dal gioco degli slogan, allora si fa interessante.

Prima di tutto i fatti, di per sé non eclatanti. FN Sciences Po ha rapidamente raccolto le 120 adesioni necessarie per diventare una delle numerose associazioni (politiche, culturali, sportive) accreditate in uno dei più famosi e prestigiosi istituti di formazione universitaria e post-universitaria a livello mondiale, almeno per quello che concerne le scienze umane, la politologia e la storia politica. Dunque come ha prontamente dichiarato il suo direttore, Frédéric Mion, siamo di fronte alla conferma della vocazione aperta e pluralista di questa grande istituzione, erede dell’Ecole Libre de Sciences Po, poi rifondata nel post ’45 dalla coppia De Gaulle-Debré, dando origine all’Institut d’études politiques e alla Fondation Nationale des Sciences Politiques.

È ugualmente vero che non si è di fronte ad una “prima assoluta”. Nei tardi anni Settanta, il Groupe d’Union Défense (molto attivo nelle facoltà parigine di diritto) aveva avuto al 27, rue Saint-Guillaume una sua rappresentanza e lo stesso si può dire del Cercle National, leggi tutto

La politica che cambia

Nicola Melloni * - 13.10.2015

La recente vittoria di Corbyn alle “primarie” del Labour inglese ha colto di sorpresa quasi tutti i commentatori. Corbyn era considerato una candidatura di bandiera, senza alcuna speranza di vittoria. Ora, gli stessi che lo davano per sconfitto certo, prevedono un futuro nebuloso per il Labour, troppo a sinistra per essere un avversario credibile per Cameron. Sembra però che sia i media che i politologi facciano ancora fatica a comprendere ed a tenere il passo con un cambiamento radicale che sta trasformando il panorama politico.

Il crollo economico e finanziario, l’austerity, la paralisi politica e la crisi di legittimità dei regimi democratici hanno contribuito a creare fenomeni nuovi, troppo spesso bollati semplicemente come anti-sistema: i movimenti secessionisti, dalla Scozia alla Catalogna; i partiti nuovi che rigettano la vecchia distinzione destra e sinistra e cercano di trovare elettori tra i delusi della politica tradizionale, come il Movimento Cinque Stelle e Podemos; la crescita di formazioni di destra e sinistra già esistenti ma non compromessi con i passati regimi, da Syriza al Front National; e la radicalizzazione di partiti tradizionali, come il Labour a guida Corbyn, ma anche il Partito Repubblicano americano influenzato dai Tea Party, per esempio. 

Tutte queste evoluzioni stanno mettendo in crisi il sistema bi-polare e ci costringono a ripensare alla maniera a cui eravamo abituati a guardare alla politica. leggi tutto

I 25 anni della riunificazione tedesca, ovvero della memoria divisa degli europei

Gabriele D'Ottavio - 06.10.2015

Il 3 ottobre 1990 avveniva ciò che per decenni era apparso impensabile: la ricomposizione delle due Germanie all’interno di un’unica entità statuale. Gli europei ebbero la certezza che in loro presenza fosse terminata un’intera epoca. Diversi sono, però, i modi in cui questa cesura storica è stata recepita e poi rielaborata. In Germania s’impose da subito una narrazione trionfalistica, che interpretava l’annus mirabilis 1989-1990 come una sorta di punto di non-ritorno alle famigerate «vie speciali», come approdo in Occidente, ovvero come il coronamento di una democrazia riuscita: quella della Repubblica federale tedesca, nata nel 1949 e che quarant’anni dopo estese le sue strutture politiche e legali ai territori della ex Repubblica democratica tedesca. Fuori dai confini tedeschi, invece, gli avvenimenti legati alla riunificazione delle due Germanie furono accolti con sentimenti contrastanti. Se è vero che all’indomani del crollo del muro di Berlino si poté registrare in tutto il mondo (e analogamente in Italia) un’ondata di simpatia nei confronti dei tedeschi, alquanto diversa appare la reazione dell’opinione pubblica internazionale se si guarda alle posizioni assunte nei mesi successivi dalle élite politiche e intellettuali europee. È noto, per esempio, che nel marzo 1990 Margaret Thatcher organizzò un seminario leggi tutto

Migrazioni, istituzioni e diritto: andare oltre i confini

Fulvio Cortese * - 06.10.2015

Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato sull’edizione on line de Il Sole 24 Ore, Martin Wolf ha scritto che gli «ideali cosmopoliti» che animano chi guarda con favore alle grandi migrazioni «sono in contrasto con il fatto che la nostra vita politica è organizzata in giurisdizioni territoriali sovrane». L’osservazione è utile; consente di capire qual è il nodo strutturale che offre una perdurante legittimazione a chi, sia pur spinto dalle più diverse, e talvolta urticanti, motivazioni, ritiene doveroso che gli Stati erigano barriere ad hoc e diano comunque la piena precedenza ai cittadini.

Non si tratta di dare “sfogo” a presunzioni oggi poco sostenibili, come lo sono, ad esempio, quelle di chi ritiene che vi possa essere una comunità soltanto in presenza di un’omogeneità di caratteri valoriali o etnici. Il punto è quello che aveva evidenziato Proudhon già nella seconda metà del XIX Secolo, all’interno del celebre saggio sulla capacità politica della classe operaia.

In quel caso era in gioco l’opportunità che Francia e Inghilterra stipulassero un trattato commerciale di libero scambio. Proudhon notava che – pur non essendoci ragioni di principio per essere contrari alla libertà dei commerci – sarebbe stato senz’altro allentato il regime doganale e, con esso, l’implicito ma decisivo legame di garanzia che permetteva ai ceti produttivi di riconoscersi reciprocamente e di dare con ciò fiducia e stabilità alle istituzioni nazionali. leggi tutto

Volkswagen: i danni di imprese troppo grandi e dominanti

Gianpaolo Rossini - 01.10.2015

Ci vorrà tempo per far metabolizzare al settore auto in Europa e ai mercati finanziari la truffa Volkswagen. E’ la prima volta che una grande impresa automobilistica europea viene colpita al cuore da uno scandalo così imponente che investe la qualità dei suoi prodotti. Eppure l’industria dell’auto in Europa è stata coccolata con incentivi di ogni tipo. I consumatori lo sanno e sono doppiamente amareggiati per aver buttato euro per auto la cui qualità sbandierata non corrisponde al vero e perché i produttori di auto hanno beneficiato negli anni recenti di numerosi favori. Vi sono state facilitazioni finanziarie che hanno consentito operazioni di ristrutturazione della governance (con dubbie regole sui sistemi di voto nei consigli di amministrazione a partire da Volkswagen per finire a Renault). Inoltre il settore auto ha avuto accesso privilegiato a risorse cospicue a prezzi di favore. Ha ricevuto aiuti diretti di stato, con incentivi agli investimenti e ripetuti sussidi all’acquisto di auto nuove. E infine l’auto ha goduto di una colpevole tolleranza per non corrette applicazioni delle norme sulle emissioni. Goccia che ha fatto traboccare il vaso ormai pieno in cui si è consumata l’ennesima eccezione europea. Ovvero una diversità industriale che ha visto l’incentivazione dell'utilizzo del gasolio per l'autotrazione privata. Il beneficio di questa scelta sarebbe stato quello di minori consumi energetici. Un risultato incerto in quanto molti consumatori finiscono per aumentare le percorrenze o usare auto più grandi. A fronte di danni certi. leggi tutto

Lo “spettro” delle primarie alla francese

Michele Marchi - 01.10.2015

Uno spettro si aggira per la Francia oramai da mesi avviata sulla via della lunga campagna presidenziale per il voto del 2017. Si tratta dello spauracchio delle primarie, fonte di imbarazzo e difficoltà politiche  per un PS a rischio implosione e per Les Républicains, la nuova creatura di Nicolas Sarkozy che sembra aver ereditato dal post-gollismo faide e trame interne.

Davvero paradossale appare ciò che sta accadendo all’interno del PS. Quando il segretario Cambadélis ha annunciato che quasi sicuramente militanti e simpatizzanti socialisti non sceglieranno il loro candidato per le future presidenziali attraverso l’istituto delle primarie, ad andare in pezzi è stato un ventennio di “democrazia diretta e partecipativa”, applicata con risultati apprezzabili per le candidature del 1995, 2007 e 2012. In realtà il vero salto di qualità si è avuto con le primarie del 2011, rispetto alle quali ha svolto un ruolo non trascurabile il “modello italiano” del 2005. Se infatti nel 1995 con il duello Jospin-Emmanuelli il PS testò il sistema con la partecipazione aperta ai soli iscritti, già nel 2006, seppur in un contesto ancora soltanto interno, le primarie condussero, con la vittoria di Segolène Royal, all’emergere di una leadership non così in linea con l’establishment tradizionale del partito, non fosse altro per questioni di genere. Dal canto suo François Hollande ha utilizzato la lunga campagna per le primarie poi vinte al ballottaggio contro Martine Aubry per costruirsi un profilo di candidato alla presidenza equilibrato e rispettabile, leggi tutto