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6-13 dicembre 2015: il “laboratorio francese” e le sue molte incognite
Se diffondersi in previsioni prima di un test elettorale è un’arte alla quale sempre più si sottraggono anche sondaggisti e politologi, a maggior ragione non pronosticabile appare l’esito del voto regionale francese del 6-13 dicembre prossimi.
Ben prima dei tragici eventi del 13 novembre scorso, l’annunciata dirompente vittoria della destra repubblicana guidata da Les Républicains di Sarkozy, era stata almeno in parte messa in dubbio sia dalla continua risalita del FN nei sondaggi, sia dai segnali di parziale ripresa della gauche almeno in alcuni contesti regionali del centro e dell’ovest del Paese. La rinnovata carta regionale, con il passaggio da 22 a 13 macro-regioni, è un elemento di novità che costituisce, senza dubbio, un fattore di ulteriore complicazione nella lettura del voto. I drammatici fatti di metà novembre hanno definitivamente sconvolto il quadro. Hanno messo intanto, per una decina di giorni, in secondo piano la campagna elettorale e contemporaneamente fatto risalire il livello di fiducia nel Presidente della Repubblica, impegnato nella lotta al terrorismo ed emblema di un diffuso spirito di union sacrée. Allo stesso tempo hanno reso ancora più centrali parole d’ordine quali sicurezza, lotta all’islamismo radicale, identità nazionale e contrasto all’immigrazione, tipiche della narrazione frontista e di conseguenza hanno così posto i partiti di governo (PS, LR e centristi) in una situazione ancora più complicata. leggi tutto
«Bastardi Islamici», il titolo di Libero e il limiti del giornalismo
«Bastardi Islamici». Non una chiacchiera da bar, e neppure la manifestazione di una ripulsa individuale, ma il titolo di apertura di un quotidiano nazionale con oltre 104mila copie di tiratura: Libero. La risposta, all’apparenza impulsiva, di certo smodata, all’orrore parigino del 13 Novembre. Forse non è opportuno indugiare su una scelta editoriale che è stata oggetto di una serie di denunce, nonché di una controversa proposta di radiazione dall’albo dei giornalisti professionisti per il direttore del giornale, Maurizio Belpietro. Ma occorre partire da questo episodio, per nulla isolato, ma indubbiamente eclatante, se si vuole affrontare una riflessione sulle libertà e sui limiti del giornalismo: tema delicato, poiché qui si intersecano (e come in questo caso si scontrano) la necessità di assicurare un ampio regime di autonomia all’informazione e quella di prevenire le conseguenze negative di un suo abuso. Partiamo da una premessa: chiunque conosca il mondo dei media sa che l’obiettività giornalistica è un mito che vive al di fuori dalla realtà, nell’empireo della narrazione anglosassone. Di fatto, non esiste. Non necessariamente per malizia, è nella natura delle cose: anche l’informazione più asettica presuppone una scelta di campo o quantomeno una visione specifica della realtà. La selezione delle notizie, la titolazione, il linguaggio: sono tutti aspetti che dipendono dal modo in cui si intende la società. leggi tutto
L'analisi del sabato. Lo "spirito repubblicano"
Dopo l'attentato di Parigi la Francia ha dato prova di possedere ancora il suo "spirito repubblicano". Si tratta di un comune sentire del quale in Italia si è sempre lamentata la scarsità o l'assenza. Nel nostro paese, del resto, alcune ricorrenze che dovrebbero accomunare le parti politiche e i cittadini non sono sempre state pacificamente riconosciute come tali, prima fra tutti quella del 25 aprile. L'avvento della Seconda Repubblica, nel 1994-'96, ha soltanto accentuato divisioni che apparivano in precedenza ricomposte e che invece erano pronte a riproporsi in occasione della scelta fra un "polo" e l'altro. Certamente, la creazione di un "nemico" interno da additare ai propri sostenitori (il comunismo da una parte, Berlusconi dall'altra) non ha favorito una pacificazione nazionale che pure il presidente della Repubblica Ciampi, fra il 1999 e il 2006, ha tentato di promuovere. L’aggregazione in due “famiglie politiche” ha polarizzato l'elettorato e ha svolto una funzione divisiva che ha finito per colpire non solo i simboli del nostro patrimonio comune (dalle feste nazionali alla stessa Costituzione e alle istituzioni). Ad una più attenta analisi, però, appare riduttivo e sbagliato attribuire al sistema elettorale maggioritario uninominale (1994-2005) e alla personalizzazione della politica (con l'emergere di leader e di "partiti del capo") l'impossibilità di far nascere (o rinascere) in Italia lo "spirito repubblicano". leggi tutto
Clima: c'è qualcosa da aspettarsi da Parigi?
Un vero appuntamento con la Storia. È questa l'aspettativa nei confronti della Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima, la COP21, che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre prossimo. Prevista la partecipazione di 50mila persone e di 25mila delegati ufficiali in rappresentanza di 196 Paesi. Già confermata la presenza di 117 leader mondiali, dall'americano Barack Obama e il cinese Xi Jinping alla brasiliana Dilma Rousseff e all'indiano Narendra Modi.
A dimostrazione che i cambiamenti climatici rappresentano oggi la sfida scientifica, economica, politica e morale più importante che l’umanità si trova ad affrontare. E Parigi può rappresentare una svolta in questa sfida data l’urgenza di affrontare gli impatti che si stanno già manifestando con conseguenze gravi specie nei Paesi più vulnerabili dal punto di vista sociale ed economico.
Se è vero che il clima del nostro pianeta ha subito diverse modifiche nel corso della sua storia, ciò che rende inedita la fase che stiamo vivendo è la velocità con cui il pianeta si sta riscaldando e il contributo dato dall’uomo nell’emissione di gas serra che non ha precedenti nella storia.
L'importanza della COP21 è dovuta proprio al fatto che da Parigi ci si aspetta l'adozione di un nuovo accordo globale sul clima e vincolante per tutti i paesi della comunità internazionale, da quelli industrializzati (come Stati Uniti e Unione europea) e maggiormente responsabili delle concentrazioni attuali di gas serra in atmosfera, leggi tutto
Risposte globali ai cambiamenti climatici. Dagli insuccessi del protocollo di Kyoto alla nuova strategia di Parigi
Grazie al protocollo di Kyoto il tema dei cambiamenti climatici ha assunto rilevanza globale, tanto da essere sempre più presente negli scambi economici e nelle relazioni politiche tra paesi, così come nelle strategie di cooperazione internazionale finalizzate allo sviluppo.
Come ha ricordato Ban Ki-Moon, quella dei cambiamenti climatici è la grande sfida della nostra epoca, e noi tutti dobbiamo impegnarci a giocare un ruolo, per quanto piccolo, in questa lotta, divenendo parti attive nelle strategie di mitigazione e adattamento nazionali e locali. Su questi temi si sta concentrando buona parte dell’attenzione mediatica in questa fine di 2015. Il 30 novembre, infatti, aprirà a Parigi la ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, istituita nel 1992 durante la Conferenza di Rio de Janeiro su clima e ambiente - ed entrata in vigore due anni dopo – da cui nel 1997 è scaturito il Protocollo di Kyoto, il primo e più dibattuto accordo globale sul clima nella storia dell’umanità. Con stime allarmanti come quelle che prevedono un innalzamento delle temperature fino a 4 gradi centigradi entro il 2100, è chiaro che il tema riguarda tutti, dai paesi più industrializzati a quelli più poveri che, pur contribuendo in misura minore ai cambiamenti del clima globale, ne stanno comunque già sperimentando gli impatti ambientali ed economici. leggi tutto
Convergenze e resistenze
La guerra non è di per sé la "levatrice della storia" oppure un evento che trasforma in modo totale le società che ne sono coinvolte. Piuttosto la guerra e i conflitti armati sono dei potenti e drammatici acceleratori di processi di trasformazione già in corso. In Siria, la guerra ha accelerato i conflitti tra città e campagna, tra centri urbani e provinciali del Paese arabo; ha accelerato il disfacimento del vecchio regime ba'thista e riconfigurato le relazioni tra forze armate, stato e Partito, probabilmente a scapito di quest'ultimo; ha accelerato l'ascesa pubblica dell'Islam politico, dimostrando però la carica di divisione che questo porta nelle società secolarizzate o comunque plurali come quella siriana, irachena, tunisina o egiziana; ha accelerato la connessione politica tra due territori affini come Siria e Iraq; ha accelerato la politica di potenza tra Iran, Arabia Saudita, Turchia e Israele, offrendo un terreno di battaglia in cui scontrarsi "per procura"; ha accelerato la crisi delle politiche migratorie europee aggiungendo ai flussi "normali" quelli derivanti da conflitti armati; ha accelerato la crisi delle politiche migratorie europee, fomentando paure e xenofobie a favore di forze nazionaliste.
Ad oltre una settimana di distanza, possiamo chiederci se gli attacchi di Parigi hanno contribuito anche loro ad accelerare i processi in corso: la risposta sembra positiva. Le ripercussioni all’interno dell’Europa non sono qui oggetto di analisi, ma sembra che purtroppo aumenti il giro di vite sostanziale sulle libertà nello spazio pubblico e privato, se non addirittura tramite una modifica costituzionale come in Francia. leggi tutto
Parigi e la legge del terrorismo
Gli attentati di Parigi del 13 novembre seguono la medesima logica del massacro di Charlie Hebdo da parte dei fratelli Kouachi e degli omicidi commessi da Amedy Coulibaly (entrambi dello scorso gennaio). È la stessa logica degli attentati di Madrid 2004 e di Londra 2005 (e di una serie di tentativi di attentati in Europa e in Nord America cui abbiamo assistito negli ultimi anni). Nella complessa varietà delle cause di questi fatti, possiamo isolare la legge del terrorismo: colpire bersagli civili (dei Paesi nemici come la Francia) per compensare l’inferiorità militare che lo Stato Islamico (ISIS) si trova ad affrontare in Iraq e Siria. È in altre parole la legge infernale della guerra asimmetrica, nella quale sono da anni impantanati i Paesi occidentali in lotta contro al-Qaeda e i gruppi affiliati.
È il caso di Madrid 2004: un attacco con l’obiettivo (conseguito) di spingere la Spagna al ritiro del proprio esercito dall’Iraq. O il caso di Londra 2005: l’azione di quattro kamikaze con l’intento di contrastare l’intervento britannico anzitutto (ancora una volta) in Iraq. E lo stesso per Parigi nel gennaio scorso: almeno per l’attentato di Coulibaly, un video-testamento documenta la propria fedeltà all’ISIS e l’intenzione di reagire ai bombardamenti occidentali contro le sue milizie. E così anche per la strage del 13 novembre: varie rivendicazioni su Internet e alcune testimonianze leggi tutto
Il 13 novembre e le incognite sul “ritorno” della politica
Come accaduto dopo l’attacco dell’11 gennaio, François Hollande si sta mostrando in grado di gestire le emergenze. In condizioni ancora peggiori rispetto ad inizio anno il presidente ha, ancora una volta, trovato le parole giuste e l’approccio in grado di unire fermezza e compassione. Ha saputo sino ad oggi incarnare il ruolo di guida e di chef de guerre, ma allo stesso tempo ha mostrato compostezza ed empatia. Insomma, di fronte all’emergenza, ha archiviato l’idea, di inizio mandato, della “presidenza normale” (ben presto tramutatasi in “presidenza trasparente”) per trovare una posture indispensabile in un momento di drammaticità paragonabile soltanto a quelli vissuti da de Gaulle nei momenti più delicati della guerra d’Algeria.
Hollande, sin dalle prime ore, ha utilizzato la giusta tattica: fermezza (stato di urgenza, convocazione del Congresso e revisione della legge sullo stato d’assedio del 1955) e distacco dalle possibili polemiche a livello interno, lasciate da gestire al Primo ministro Valls. Ha poi proseguito con un richiamo, formale più che sostanziale, alle istituzioni internazionali (Onu ed Unione europea), garantendosi autonomia nel colpire l’Isis in Siraq, con l’obiettivo in realtà di coordinarsi principalmente con Usa e Russia. Sarà il tempo a dire se saprà trasformare questa tattica in una coerente strategia di medio termine e non poco conteranno anche i risultati a livello investigativo (in Francia e in Belgio) e militare (rispetto al Califfato). Quello che in questa fase ci interessa rilevare è che il presidente è tornato ad occupare completamente la scena a livello di politica interna e ciò implica che, se riuscisse a stabilizzare tale condizione, si garantirebbe la candidatura alla sua successione nel 2017. leggi tutto
Il tabù infranto
Nel 2015 si è registrato in Austria un piccolo ma significativo test elettorale: in quattro delle nove regioni federali si è votato per il rinnovo dei relativi consigli e i risultati erano attesi con molto interesse. In due regioni – Stiria e Burgenland – tale elezione per la prima volta non ha seguito il principio proporzionale; esso prevede che tutti i partiti che raggiungono un determinato numero di voti vengano coinvolti nel governo regionale in proporzione alla loro consistenza elettorale. Oltre a questo motivo di interesse, nelle elezioni in Alta Austria e a Vienna è stato possibile registrare gli effetti sul voto della questione dei profughi, che domina ormai da diversi mesi il dibattito politico. Essa ha giocato in primo luogo a favore della FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs).
Elezioni regionali 2015
|
SPÖ |
ÖVP |
FPÖ |
Verdi |
Neos |
Burgenland 2015 |
41,9% - 6,4% |
29,2% -5,5% |
15,0% +6,1% |
6,4% +2,3% |
2,3% non pres. |
Stiria 2015 |
29,3% -9,0% |
28,5% -8,8% |
26,7% +16,1% |
6,7% +1,1% |
2,6% non pres. |
Alta Austria 2015 |
18,4% -6,6% |
36,4% -10,4% |
30,4% +15,1% |
10,3% +1,1% |
3,5% non pres. |
Vienna 2015 |
39,6% - 4,7% |
9,2% - 4,8% |
30,8% + 5,0% |
11,8% - 0,8% |
6,2% non pres. |
I Verdi sono sostanzialmente rimasti sulle loro precedenti posizioni con una leggera perdita a Vienna e modesti avanzamenti nelle altre tre regioni. Per i popolari della ÖVP (Österreichische Volkspartei) e per i socialdemocratici dell’SPÖ (Sozialdemokratische Partei Österreichs) le elezioni hanno invece rappresentato una deprimente sconfitta, a fronte della clamorosa vittoria della FPÖ. La lista NEOS (Das Neue Österreich), un partito liberale fondato nel 2012, che aveva partecipato per la prima volta e con successo alle elezioni politiche del 2013, leggi tutto
Le parole e la politica, a una settimana dagli attentati di Parigi
Una settimana ci separa dagli eventi parigini. Una settimana febbrile, che ha segnato tutto fuorché l’improbabile ritorno alla normalità evocato da più parti. Una settimana in cui le conseguenze della notte di sangue hanno monopolizzato l’informazione sotto forma di raid e di arresti, di ritorsioni belliche più rabbiose che mirate, di provvedimenti d’emergenza invocati e discussi. Di falsi allarmi, che più di ogni altra cosa danno la misura delle ripercussioni sulla vita quotidiana dei cittadini europei, dall’annullamento di incontri di calcio fino alla miriade di segnalazioni di pacchi, automobili, individui “sospetti” che sarebbero passati inosservati solo pochi giorni fa. Un panorama sfavorevole a valutazioni che non cedano alla pur comprensibile emozione, e il profluvio di commenti espressi da ogni parte sembra innanzitutto denunciare la mancanza del lessico adeguato a rappresentare la novità di quanto accaduto, e delle categorie mentali necessarie a organizzare un pensiero propositivo per il futuro. Difficile considerare altrimenti l’approssimazione acritica con cui concetti come “guerra” e “terrorismo” vengono reiterati nel discorso politico, portandosi dietro connotazioni evidentemente appartenenti al passato che non rispecchiano più la nostra quotidianità. Ma l’anacronismo in frangenti simili è un peccato di pigrizia e un lusso che non ci si può concedere, come dimostrano tre lustri di opinabili iniziative belliche che hanno seguito l’11 settembre statunitense e che in parte sono alla radice dei problemi attuali. leggi tutto