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Argomenti

Perché Juncker non può dimettersi

Lorenzo Ferrari * - 27.11.2014

Se non c'è due senza tre, i precedenti non sono di buon auspicio per il nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Il primo presidente lussemburghese della Commissione, Gaston Thorn (1981-85), guidò quella che è pressoché unanimemente ricordata come la Commissione più debole e scialba della storia europea. Il secondo, Jacques Santer (1995-99), guidò l'unica Commissione che fu costretta a dimettersi. Ora siamo al terzo presidente lussemburghese, e l'inizio del suo mandato non pare molto fortunato: da varie parti sono state chieste le sue dimissioni a seguito di un'inchiesta giornalistica sui favori fiscali concessi dal Lussemburgo alle società che vi si stabiliscono, decisi negli anni in cui il paese era governato da Juncker.

Le dimissioni di Juncker sono molto improbabili, dato che la politica fiscale dei suoi governi non violò le norme europee. Violò piuttosto lo spirito di cooperazione che dovrebbe governare i rapporti tra gli stati membri, ma sono assai rari i casi di dimissioni indotte da questioni morali. Inoltre, le rivelazioni giornalistiche sulla politica fiscale del Lussemburgo hanno presentato dei dettagli prima inediti, ma non hanno destato vera sorpresa: che il paese praticasse una politica fiscale di favore per le società che vi si stabilivano era un fatto ampiamente noto. Era noto al Partito Popolare Europeo che scelse Juncker come suo candidato alla presidenza della Commissione, lo era  (sebbene non nei dettagli) agli elettori che hanno votato per il Parlamento europeo, e lo era anche ai parlamentari europei che hanno approvato la nomina di Juncker e della sua Commissione. leggi tutto

La Germania e la crisi economica

Edmondo Montali * - 20.11.2014

La Germania è vittima di una sorta di maledizione sulla quale storici e pubblicisti discutono da decenni.

Se prova ad esercitare la propria influenza, traducendo la sua forza economica in scelte politiche, la cosa migliore che può capitare è l’evocazione di un famigerato quarto Reich. Se invece sceglie un atteggiamento di basso profilo ripiegando sulla difesa dei propri interessi che non appaia protagonismo internazionale allora il coro intona la grettezza teutonica incapace di vedere oltre la sua meschina convenienza.

Ne nasce un enigma irrisolvibile: è sempre colpa della Germania.

L’attuale crisi dell’eurozona non fa eccezione. La Germania è doppiamente colpevole: di cercare di instaurare un’egemonia tedesca sull’Europa con mezzi diversi dalle avventure militari dei precedenti tentativi; ma allo stesso tempo è colpevole di non esercitare una leadership sufficientemente forte e visibile per consentire a tutta la zona Euro di uscire dalle difficoltà.

In verità, il dibattito europeo, certamente esacerbato dalla crisi e alimentato da strumentalizzazioni politiche al servizio di interessi di parte, manca di chiarezza sia su cosa succede sulle sponde del Reno e dell’Oder sia dei motivi che spingono i tedeschi a una politica che in apparenza miope e senza prospettive.

La Germania ha avviato un processo di riforme per il quale paga un prezzo sociale alto. Certo, ha un grande surplus commerciale, imprese competitive, conti pubblici in ordine, un Welfare state ancora relativamente generoso leggi tutto

TTIP: di cosa diavolo (non) stiamo parlando?

Giovanni Bernardini - 18.11.2014

Soltanto dieci anni fa l’Unione Europea godeva presso i suoi cittadini di una popolarità certamente maggiore di quella odierna. A fronte del massiccio allargamento a est, molto si discusse all’epoca della necessità che un’entità di mezzo miliardo di persone definisse chiaramente la propria vocazione negli equilibri geopolitici. Si suggerì allora che l’Europa perseguisse l’obiettivo di imporsi come “potenza civile”: in altri termini, che essa si ponesse alla guida della creazione di un sistema internazionale fondato sulla forza di istituzioni e regole comuni, riproponendo su scala globale il proprio modello di integrazione nella diversità e di valorizzazione della pluralità. Tuttavia, negli anni successivi i dissidi tra governi hanno spinto molti osservatori ad assimilare l’Unione a un novello Tarzan: sana, forte e muscolosa ma incapace di esprimersi in modo chiaro e comprensibile. Se la corporatura dell’Europa appare oggi più gracile, provata da anni di lacerazioni intestine, di crisi economica e di confronto sempre meno favorevole con altri soggetti internazionali in ascesa, si può persino dire che quell’afasia abbia finito per estendersi gravemente anche alla comunicazione interna all’Unione.

Lo dimostra la vicenda del dossier TTIP, acronimo inglese di “Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti”. Un progetto ambizioso di cui sarebbe interessante discutere nel merito… se ce lo consentissero le informazioni a disposizione. La nostra ignoranza non è vinta dalle professioni di fede del Primo Ministro Renzi, leggi tutto

Mal comune ….. mezzo gaudio?

Michele Marchi - 15.11.2014

La metà del mandato ha spesso colto gli inquilini dell’Eliseo in difficoltà. Ma a due anni è mezzo dalla sua elezione, François Hollande si trova nel bel mezzo di un vero e proprio incubo politico.

De Gaulle, eletto a suffragio universale diretto nel 1965, ha vissuto il trauma di metà mandato nel maggio ’68. La riscossa del voto anticipato è durata meno di un anno e poi sono giunte le dimissioni dopo la bocciatura del referendum sulla riforma del Senato. Per Pompidou eletto nel 1969, la metà del settennato ha coinciso più o meno con il non esaltante (per partecipazione) referendum sull’ingresso di Londra nella Cee. Il suo successore Giscard ha iniziato un po’ prima della metà, dall’aprile 1977, ad incontrare problematiche, soprattutto economiche, di complicata risoluzione. Ma sono forse Mitterrand e Chirac, nei loro due rispettivi primi mandati, ad avere vissuto in maniera peggiore il passaggio di boa. Per Mitterrand l’autunno 1984 giunge dopo la traumatica svolta del rigore dell’anno precedente, ma soprattutto dopo la doppia debacle di giugno: manifestazioni oceaniche contro la legge Savary (insegnamento laico e repubblicano) e disastrose elezioni europee. Nemmeno il cambio a Matignon, con l’arrivo del giovane Fabius, impedì la prima coabitazione dopo la sconfitta alle legislative del 1986. Addirittura Chirac ha “festeggiato” la metà del suo mandato, nel 1998, nel bel mezzo di una coabitazione da lui stesso provocata con l’inutile scioglimento dell’anno precedente. Dunque si potrebbe concludere che l’attuale situazione di Hollande non sia poi così “speciale”. Attenzione però. Prima di tutto nei casi citati l’orizzonte potenziale dei presidenti in carica era di altri tre anni e mezzo e il tempo trascorso in carica era stato della stessa durata. Oggi a stupire è quindi, innanzitutto, quanto rapidamente sia crollato il livello di fiducia nei confronti dell’attuale presidente e allo stesso tempo quanto esiguo sia oramai quello a disposizione prima dell’avvio della nuova campagna elettorale. leggi tutto

La strada del dialogo ecumenico. Cinque secoli dopo Lutero (1517-2017)

Claudio Ferlan - 11.11.2014

Festeggiare le ricorrenze storiche può essere tanto una mera celebrazione senza conseguenze, quanto una feconda opportunità di costruire il futuro guardando al passato. A questa seconda categoria di possibilità appartiene la serie di lavori preparatori per la ricorrenza del quinto centenario dalla Riforma luterana.

 

Dal conflitto alla comunione


Il simbolico inizio della Riforma è datato 31 ottobre 1517, giorno in cui Martin Lutero affisse sulla porta della chiesa di Wittenberg le sue Novantacinque Tesi, lanciando una sfida epocale alla Chiesa di Roma. Per la prima volta nella storia luterani e cattolici commemoreranno insieme la ricorrenza, e lo faranno all’esito di un notevole percorso di riflessione. L’obiettivo del cammino è evidenziare i punti di comunione per superare quelli di divisione, mettere l’accento sul dialogo anziché sullo scontro. Il documento che ha avviato il ragionamento sul passato si intitola Dal conflitto alla comunione, il suo primo capitolo riflette sull’anniversario della Riforma in “un’era ecumenica e globale”. Si tratta di uno scritto licenziato dalla Commissione luterana-cattolica sull’unità e la commemorazione comune della Riforma, reso pubblico nel luglio dello scorso anno. L’importanza della storia è palese nel testo, sorta di approfondito inventario del dialogo tra le due Chiese, rassegna dei lunghi e difficili passi che hanno portato dalla condanna comune e dalle reciproche scomuniche alla ricerca della comprensione, del rispetto e della collaborazione, momento di progresso sulla via della concordia.  leggi tutto

Quel che resta del Muro, venticinque anni dopo.

Nicola Melloni * - 11.11.2014

Ad un quarto di secolo dalla caduta del Muro è forse arrivato il momento di redigere un primo, parziale bilancio degli anni che sono seguiti alla fine del comunismo. Tra il 1989 ed il 1991 finiva l’esperienza del socialismo reale – almeno in Europa – e per i paesi d’oltre cortina iniziava la cosiddetta transizione verso capitalismo e democrazia. In quei giorni, ed anche negli anni successivi, non sembravano esserci dubbi: il vecchio continente era finalmente riunito, il tempo delle guerre, fredde e calde, era finito. Addirittura era la fine della storia (copyright Francis Fukuyama).

Le cose sono andate diversamente: nonostante le grandi speranze del post-89, nonostante i tanti proclami trionfalistici degli anni ’90, nonostante tuttora ci si ostini a presentare la transizione come un successo, nella maggior parte dei casi la situazione è tutt’altro che rosea, se non proprio fallimentare.

Per molti paesi, la fine del comunismo è coincisa con lunghi periodi di guerra ed instabilità, dall’ex-Yugoslavia, al Caucaso all’Asia Centrale, fino, recentemente, all’Ucraina. Per quasi tutti, il decennio seguito alla caduta del muro è stato un periodo di povertà. Purtroppo, come evidenziato da Branko Milanovic in un recente post, le performance economiche di molti paesi continuano ad essere disastrose: per alcuni – prevalentemente in Asia Centrale, ma anche paesi a noi ben più vicini come Serbia e Ucraina – non si è ancora tornati ai redditi pro-capite del periodo socialista. Per quasi tutti gli altri, la distanza con il mondo occidentale si è ampliata (come in Russia, Croazia, Ungheria) o rimasta immutata (in Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Slovenia): altro che catching-up! E solo per pochi leggi tutto

Germania e Italia a 25 anni della caduta del muro: da storie parallele a divergenti?

Gabriele D'Ottavio - 08.11.2014

Il venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino può essere l’occasione per riflettere non solo sulla nuova Germania e sulla nuova Europa (mancata?), ma anche sulla vicenda italiana e sull’evoluzione delle relazioni italo-tedesche dalla fine della guerra fredda a oggi. Nella ricerca storica il paradigma a lungo dominante delle «storie parallele» sembra aver fatto il suo tempo. Tale paradigma si basava su alcuni fenomeni rilevanti che suggerivano l’idea di una sorta di rispecchiamento tra le vicende nazionali di Italia e Germania, principalmente dal punto di vista politico: la costruzione «tardiva» dei due Stati nazionali; i due modelli di regime totalitario; la fondazione «parallela» delle due repubbliche sotto la guida politica di due leader democratico-cristiani, come De Gasperi e Adenauer; la politica di ancoraggio all’Europa e all’Occidente. Dopo l’«Ottantanove», e in maniera più evidente con l’inizio del XXI secolo, la tesi del rispecchiamento tra le due vicende nazionali è stata prima messa in discussione e poi, di fatto, abbandonata. Soprattutto nell’ambito delle trattazioni generali sulla storia dell’Italia repubblicana e della Repubblica Federale Tedesca sono emerse nuove interpretazioni che sembrano recuperare, sia pure in modo diverso dal passato, l’idea dell’«anomalia italiana», da un lato, e dell’«eccezionalismo tedesco» (questa volta in positivo), dall’altro. Il compito dello storico interessato alle relazioni italo-tedesche potrebbe, dunque, essere quello di illustrare la trasformazione che dal 1945, e con più evidenza dal 1989, a oggi porta dall’apparente somiglianza alla crescente divergenza delle vicende di Germania e Italia. Uno dei fenomeni storico-politici più rilevanti, che forse meglio di altri consente di cogliere tale trasformazione, è il percorso comune dell’integrazione europea. leggi tutto

Valls il riformista: niente di nuovo sotto il sole?

Michele Marchi - 01.11.2014

La recente intervista al rinnovato “L’Obs” (“Le Nouvel Observateur”) del Primo ministro francese Manuel Valls è il “piatto forte” del dibattito politico francese. Valls è entrato con una certa decisione nella querelle che si è aperta dopo il rimpasto di governo di fine agosto e nel tentativo conseguente di strutturarsi di una vera e propria “opposizione interna” al PS, guidata dagli ex-ministri Filipetti, Hamon e Montebourg. A questi, peraltro, si è aggiunta dopo mesi di silenzio Martine Aubry, con una tagliente intervista il 19 ottobre scorso. Il tutto deve poi inserirsi nel quadro degli Stati Generali del PS, voluti dal segretario Cambadèlis, la cui conclusione è prevista per inizio dicembre.

Insomma i socialisti si dividono, litigano, meditano scissioni. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. La storia del socialismo francese è ricca di duelli, ideologici e personali. Senza rimontare alle differenze tra Guesde e Jaurès, si può ricordare lo scontro Blum-Mollet, all’indomani della Seconda guerra mondiale, passare a quelli tra Mitterrand e Rocard per giungere, naturalmente semplificando e sintetizzando, alla “rissa” tra Aubry e Segolène Royal nel 2008, dopo il congresso di Reims. In questo ennesimo scontro all’interno del PS alcune novità devono essere considerate.

Intanto bisogna partire dalle parole di Valls. Il Primo ministro in carica ha parlato di una sinistra “pragmatica, riformista e repubblicana”. Ha poi ribadito di non voler pronunciare il termine “socialista” e ha aggiunto di non escludere l’ipotesi di cambio del nome “parti socialiste”. leggi tutto

Le difficoltà interne di Cameron e le nuove tensioni con l'Europa

Giulia Guazzaloca - 28.10.2014

Cameron all’inizio di una lunga campagna elettorale     

 

È passato poco più di un mese dall’inaspettato successo ottenuto dal governo nel referendum per l’indipendenza della Scozia, ma il primo ministro David Cameron e il suo partito non navigano in buone acque. Che lo United Kingdom Independence Party dell’abile e carismatico Nigel Farage stia erodendo consensi al partito conservatore non lo dicono più solo i sondaggi: lo scorso 9 ottobre l’ex conservatore Douglas Carswell, passato nelle file dello UKIP, ha vinto con quasi il 60% delle preferenze le elezioni suppletive di Clacton, diventando così il primo esponente del partito di Farage a sedere alla Camera dei Comuni. Se si aggiunge che nelle suppletive di un collegio di Manchester, tradizionale bastione del Labour, il candidato indipendentista è arrivato secondo a soli 617 voti dal vincitore e che a fine novembre si voterà anche a Rochester, perché un altro deputato tory (Mark Reckless) è passato allo UKIP, si capisce come l’aritmetica parlamentare nel Regno Unito sia in rapida trasformazione, con segnali affatto incoraggianti per l’establishment politico tradizionale.

Le elezioni del maggio 2015 vedono dunque profilarsi un inconsueto, per gli standard d’oltremanica, quadro multipartitico: oltre ai tre partiti principali, ci saranno lo UKIP, che secondo gli analisti potrebbe essere competitivo in un numero di seggi compreso tra 13 e 35, i Verdi, dati intorno al 5-6%, e i partiti nazionalisti in Scozia e Galles. Se a confortare, almeno in parte, Cameron e il leader laburista Ed Miliband vi è il sistema elettorale maggioritario secco, che impedendo la rappresentanza proporzionale su base nazionale rende assai difficile per lo UKIP diventare forza di governo, leggi tutto

L’Europa e il monito di Napolitano

Paolo Pombeni - 25.10.2014

Non sappiamo se il contenzioso che sembra aprirsi fra Roma e Bruxelles sulla nostra legge di bilancio sarà proprio una tempesta in un bicchier d’acqua. Ieri sera sembrava già chiusa con un compromesso, ma vedremo.  Certamente è una mossa che mostra da un lato una struttura tecnocratica della UE piuttosto ottusa, e dall’altra un premier italiano abilissimo a cogliere in ogni occasione la palla al balzo per consolidare la sua presa sull’opinione pubblica.

Sul primo versante c’è da notare che, in un’Europa dove la stima verso la UE non è esattamente ai massimi, i suoi uffici e vertici dovrebbero andarci cauti nell’apparire ottusi censori delle sovranità nazionali. Non sappiamo se davvero Katainen e i suoi pensino di compiacere la Merkel con i loro rilievi, facciamo loro sommessamente notare che i più gelosi custodi delle esclusive sovranità nazionali perché derivanti da veri mandati “democratici” (che ai funzionari di Bruxelles mancano) sono i giudici della Corte Costituzionale tedesca. Ora è facile rilevare che sulla politica di bilancio nazionale le competenze dei parlamenti nazionali eletti sono più “esclusive” (se ci si passa il pasticcio linguistico) di quelle dei ragionieri della Commissione (chiedano parere a Karlsruhe se hanno dubbi …).

Certo ci sono i trattati, i vincoli accettati da tutti, ma ci sono anche le situazioni storiche concrete e la necessità di poter contare sulla legittimazione popolare. Il presidente Barroso conclude non brillantemente una presidenza che brillante non è mai stata e dunque era pretendere troppo che si accorgesse del mutato clima. Sembra che Junker ne sia consapevole e fra sei giorni vedremo se è vero. leggi tutto