Ultimo Aggiornamento:
12 ottobre 2024
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Argomenti

Sulla questione delle statue e della necessità dell’ingiustizia

Lucrezia Ranieri * - 20.06.2020

“Il pensiero che vuol essere sempre giusto si paralizza.

Il pensiero progredisce quando cammina tra ingiustizie simmetriche,

come tra due file di impiccati.”

N. G. Dàvila, Escolios a un texto implìcito I


Che persone più o meno legittimamente arrabbiate possano prendersela, durante una dimostrazione o una rivolta, con un simbolo ad esse ostile, scegliendo di imbrattarlo, sradicarlo o distruggerlo non è un vero problema; o meglio, si tratta di un gesto che, considerato lecito o meno, è quello che è: un’azione dimostrativa, una manifestazione di liberatoria rivalsa contro la quale ci si potrà pure indignare, purché consapevoli di quanto ciò possa apparire vano.

Assume invece tratti sinceramente inquietanti il tentativo agito a mente fredda di elevare a sistema un atto dalla natura essenzialmente identitaria, e dunque di supporre una sorta di riproducibilità ideologica di qualcosa che ha senso ed è sostenibile soltanto se preso nella sua individualità, nella specificità della circostanza, nella dialettica esclusiva tra il soggetto e l'oggetto coinvolto; considerare cioè come perfettamente equivalente divellere la statua di Edward Colston durante un riot a Bristol nel quadro di una più generale rivendicazione antirazzista con il chiedere su facebook la rimozione leggi tutto

Il Castello di Zakula, sfogo dell’arte libera.

Daria Reggente * - 10.02.2018

Esistono posti, distrattamente sparsi nelle periferie delle grandi città,e lontano dai centri culturali più turistici, in grado di sorprendere persino gli occhi più disillusi. Spesso nascosti, come del resto i tesori più belli,sono patrimoni che si scoprono quasi per caso. Così il“Castello di Zakula”, il nome dato a una ex-fabbrica milanese, che sta iniziando a conquistare il suo spazio nel mosaico dell’arte urbana.

“Castello di Zakula” o più semplicemente casa di Zak: perché questo luogo- questo edificio-museo, se si potesse trovare un termine adatto a definirlo - è la casa di Zakaria Jemai, un po’ artista un po’ mecenate.

 

Entrare a casa di Zak, che tra queste pareti colorate, ormai, vive da parecchi anni, significa camminare tra ogni genere di opera che definisce la street art: non solo disegni a bomboletta, ma anche sculture, installazioni post moderne e dipinti a pennello. Alcuni immediatamente riconoscibili per chi mastica questa corrente (Tenia e il trio Cane Morto, tra i tanti), altri di ragazzi e ragazze meno noti, ma che tra queste mura trovano occhi disposti ad ammirarli.

Tante, tantissime le donne, sia quelle dipinte che quelle che dipingono.“Più della metà dei miei artisti (quasi il 70 %) sono femmine – racconta Zakaria; leggi tutto

Venice Beach, un museo a cielo aperto

Daria Reggente * - 13.09.2017

Visitando l’America si ha l’impressione che tutti i suoi stereotipi abbiano più o meno un fondo di verità. Strade immense, città colossali, grandi distanze, storia recente (cliché molto amato da noi antichi europei), molta immagine e poca sostanza. Certo, l’America rimane la terra degli americani: un popolo eccentrico, contraddittorio e chiassoso. Forse, persino un po’ kitsch. Eppure, a confutare questa teoria, esistono ancora certi luoghi capaci di sorprendere: così è Venice Beach.

Quartiere a ovest della città di Los Angeles, è forse l’angolo più bohémien  e folcloristico della California. Plasmato all’inizio del 900 dall’imprenditore e costruttore Abbot Kinney, non è difficile capire da dove derivi il suo nome: i vecchi canali (oramai per lo più chiusi da colate di asfalto) e i moderni murales sono modellati sulla Venezia rinascimentale.

Nonostante un breve periodo di degrado - dagli anni Venti agli anni Ottanta – fin dalla sua nascita Venice ha sempre avuto l’anima da avanguardista e tutt’oggi merita di essere considerata un piccolo avamposto della cultura e dell'arte di strada.

 

Passeggiando per la Ocean Front Walk, la stradina sul lungomare, una serie di negozi e minuscole boutique affollano la vista con i loro colori sgargianti e opere di ogni genere...statue, dipinti, vecchi dischi, poster d'epoca, serigrafie. leggi tutto

Racconto di una triste visita audioguidata

Fernando Algaba Calderón * - 09.07.2015

Non ci stancheremo mai di ripetere quanto sia importante conservare il patrimonio storico-artistico dell'Italia. Ma quel che conta, o che dovrebbe contare, non è solo tramandare ai nostri successori i tesori dei tempi passati; è anche necessario valorizzarli, per mettere in luce la loro importanza e il loro posto nella storia dell'umanità. Quindi non basta tenere in piedi i monumenti se poi non siamo in grado di raccontare agli altri (o a noi stessi) il valore di quelle opere. In questo senso, ho subito una grossa delusione lo scorso fine settimana durante la mia visita al Palazzo Piccolomini di Pienza, nel senese.

Erano anni che volevo varcare le sue porte, affascinato come tanti dalla figura di Enea Silvio Piccolomini, il dotto umanista più ricordato con il nome che scelse per salire al soglio pontificio, Pio II (1405-1464). Quando sono arrivato mi hanno informato che la prima visita disponibile era dopo un quarto d'ora, poiché l'accesso al palazzo non è libero e c'è una guida che conduce il gruppo. Nell'attesa, ci hanno invitato a visitare il cortile e i giardini, dai quali si può godere di una bellissima vista della Val d'Orcia, un panorama ineguagliabile e decisivo per papa Piccolomini nello scegliere il luogo dove erigere il palazzo.

Il primo impatto con la residenza papale, dunque, non delude, anzi, offre al visitatore un primo assaggio dell'esclusività del posto in cui ci si trova, che combina in un unico punto storia, arte, letteratura e natura. In più, in questo periodo, nelle diverse stanze intorno al chiostro c'è una piccola mostra dedicata all'ultimo conte Piccolomini, leggi tutto

Clet e la polemica intorno all'opera di Henry Moore a Prato

Fernando Algaba Calderón * - 18.06.2015

Chi abbia visitato Firenze negli ultimi anni avrà avuto occasione di osservare dei particolarissimi segnali stradali: segnali di strada senza uscita che diventano una croce per un Gesù stilizzato, altri di senso unico la cui freccia bianca attraversa un cuore rosso, come quelli che incidono gli innamorati sugli alberi, oppure divieti d’accesso in cui la striscia bianca si trasforma in decine di modi diversi per creare spiritose immagini. L'autore di tutte queste variazioni è Anacleto “Clet” Abraham, artista francese attivo in Toscana da circa dieci anni.

 

Le reazioni alle sue opere sono di ogni tipo e misura: da quelli che considerano queste opere di “street art” come semplici atti di vandalismo urbano fino a coloro che vedono della genialità nel modo in cui Clet riesce a reinterpretare la quotidianità, andando a modificare alcuni dei simboli più asettici delle nostre vite. Se in mezzo a questi due gruppi c'era un qualsiasi margine per l'indifferenza esso si è molto assottigliato dopo gli ultimi interventi dell'artista francese nella città di Prato.

 

Clet ha installato sulle diverse porte delle vecchie mura dei grandi occhi di metallo, che uniti all'apertura delle porte stesse hanno creato non solo diversi ritratti ma anche diverse sensazioni per chi varca le mura, che a questo punto viene praticamente “ingoiato” da questi personaggi dal volto più o meno amichevole. L'intervento si è completato con un'opera molto provocatoria sulla “porta” più recente della città, ovvero l'opera di Henry Moore “Forma squadrata con taglio”, risalente al 1974. leggi tutto

Dimentica il mio nome

Fernando Algaba Calderón * - 11.06.2015

Ieri sono stati resi noti i nomi dei cinque finalisti del Premio Strega 2015. Fra loro non c’è, nonostante il secondo posto ottenuto nella versione “primavera” del premio, Zerocalcare (al secolo Michele Rech), un fumettista o, se preferiamo, uno scrittore di graphic novel. L'irruzione di Calcare comunque nella preselezione dei dodici candidati non è solo un altro riconoscimento personale di un artista sempre più acclamato dal pubblico, e non dovrebbe essere considerato soltanto come un segno di apertura del premio letterario più importante d'Italia a un genere che ormai ha guadagnato il suo spazio proprio negli scaffali delle librerie. Se “Dimentica il mio nome” ha raccolto questi primi grandi successi allo Strega è soprattutto perché il linguaggio fumettistico di Calcare ha raggiunto un livello tale da mettere in luce le sue straordinarie capacità di narratore anche a chi non è abituato a leggere “libri con i disegni”. Sebbene la prima cosa che si apprezzi iniziando a leggere un'opera di Calcare sia la sua vis comica, quello che emerge con forza dopo qualche pagina sono invece le sue doti narrative, il ritmo del racconto, la capacità di dosare situazioni esilaranti e cariche di profondità in grado di strappare più di una lacrima. La predisposizione per la narrazione si trova già nelle caratteristiche dei suoi disegni, in uno stile che lui stesso ha definito recentemente come “stile per sottrazione”. leggi tutto