La Cina e la pandemia: prove di soft power?
C’è molta Cina negli aggiornamenti di attualità che scandiscono queste inedite settimane di quarantena. Se da principio l’informazione sul paese estremorientale, forzatamente scarsa e frammentaria, ha riguardato soprattutto l’estensione del contagio da Covid-19 e le misure messe in atto per contrastarlo, lo spostamento del focus sull’emergenza di casa nostra ha comportato anche una nuova rappresentazione della Cina Popolare come interlocutore privilegiato, in virtù del suo manifesto desiderio di aiutare gli altri paesi sulla base della propria esperienza. Non è certamente sfuggito a nessuno che gli atti concreti di aiuto e i messaggi di incoraggiamento, per i quali è giusto essere grati, siano stati sostenuti da uno sforzo mirato e organizzato per dare loro la più ampia pubblicità possibile. Chi conosce gli equilibri interni alla Cina ben più del sottoscritto, sostiene che l’offensiva propagandistica abbia anche finalità domestiche: soprattutto le trovate più grossolane, come l’applauso collettivo rivolto al personale sanitario italiano dai balconi e trasformato dai media cinesi in un ringraziamento agli esperti inviati da Pechino, dovevano servire a distogliere l’attenzione pubblica dai ritardi e dagli errori del regime sul fronte domestico e a mostrare, per così dire, come la situazione all’estero fosse peggiore di quella leggi tutto
“Veloce la vita”, o dell’impossibilità di evitare la Storia
Stolpersteine, “pietre d’inciampo”. Così si chiamano i piccoli blocchi di pietra ricoperti d’ottone e disseminati tra i selciati di tante città europee. Il loro compito è quello di ricordare anche al passante più distratto che proprio lì, a pochi metri, hanno vissuto vittime di una violenza cieca e sistematica, che essi non erano una massa indistinta ma uomini e donne con dei nomi, delle date di nascita e soprattutto di uccisione o di deportazione verso luoghi da cui non hanno fatto ritorno. Louise, la protagonista del romanzo “Veloce la vita” dell’autrice francese Sylvie Schenk (Keller, 2018), vive in un’epoca precedente di decenni quella in cui, alla fine del Ventesimo Secolo, le pietre d’inciampo sono state inventate. Eppure la sua traiettoria esistenziale è destinata suo malgrado a inciampare continuamente nella Storia. Una storia recente e per molti versi ancora attuale, che però lei vorrebbe semplicemente continuare a schivare perché non intralci i suoi piani. Louise è giovane, lascia le montagne tra cui è cresciuta felicemente ma fin troppo costretta nelle dinamiche medioborghesi della famiglia, certamente più di quanto la sua febbre di vita le consenta di sopportare. L’università le fornisce la migliore occasione di fuga, verso una Lione che negli anni ’60 appare in pieno fermento leggi tutto
Una “rifondazione socialdemocratica” inizia da Bruxelles?
Una buona notizia, che dovrebbe far piacere a chiunque abbia a cuore le sorti pericolanti del sano confronto politico in Europa. Ma anche una notizia che da sola non ha avuto la forza di guadagnare le prime pagine dei giornali e gli spazi di maggior rilievo nella rete, e il fatto è già eloquente. Risale a qualche settimana fa la convocazione a Bruxelles di un incontro tra socialdemocratici europei, sotto l’egida del gruppo all’Europarlamento guidato da Gianni Pittella, che appare quanto di più simile al tentativo di una rifondazione politica. Già la scelta dell’insegna dell’incontro, “Together”, divenuta intanto anche una piattaforma online, sembrava invitare alla non più rinnovabile elaborazione di una linea comune e rinnovata tra le tante anime del socialismo europeo, di fronte a un declino che non ha precedenti nel dopoguerra tanto da spingere alcuni osservatori a postularne l’irreversibilità. Negli ultimi mesi, infatti, le urne europee hanno dato responsi drammatici, con la riduzione all’irrilevanza dei partiti socialisti in Olanda e in Grecia, il peggior risultato dal 1949 per la SPD tedesca, l’onta del rischio di un superamento da parte dell’estrema destra per gli austriaci, il disastro e le divisioni dei socialisti francesi (e l’elenco è tutt’altro che completo).
Ed è soprattutto rilevante leggi tutto
Merkel, gli Stati Uniti e una questione di fiducia
Chissà se, tra un decennio o due, il discorso tenuto da Angela Merkel di fronte a 2.500 militanti dell’Unione Cristiano Sociale a Monaco di Baviera verrà insignito dell’aggettivo “storico”, per essere ricordato come“il giorno in cui la Cancelliera ha esortato definitivamente gli europei a prendere il loro destino nelle loro mani”. Chissà se sotto alla consueta patina della retorica si nasconde già un messaggio destinato a testimoniare una svolta della politica tedesca e a incoraggiarne un’altra simile presso gli alleati. O al contrario, chissà se quegli accenti oggi rilanciati dai giornali di mezzo mondo verrannoridimensionati a una manifestazione contingente di insoddisfazione; o ancora a un artificio volto a toccare le corde giuste di un elettorato, quello bavarese, che ama poco i toni generalmente più misurati della Cancelliera. Arrischiarsi nel vaticinio è da sempre uno dei più grandi pericoli in cui incorrono gli analisti politici di ogni sorta, salvo poi confidare nella scarsità di memoria storica che affligge i nostri tempi.
Chi conosce la storia del tutto peculiare del legame che intercorre tra la Germania (prima Occidentale, poi unita) e gli Stati Uniti a partire dal 1945, sa bene come i cicli di disaccordo e incomprensione si siano alternati alla riconciliazione e alla collaborazione, leggi tutto
“Il simpatizzante”: storie da un altro Vietnam
Il Vietnam dellaguerra civile, dell’ultima resistenza imperiale francese e del disastrosointervento statunitense, della liberazione nazionale e dei sordidi giochi di Guerra Fredda, il Vietnam dell’“Agent Orange”, del sentiero di Ho Chi Minh tra giungle impenetrabili, dei boat people in fuga, vive ormai da decenni una vita autonoma in quanto luogodell’immaginario collettivo. In modo sempre più indipendente dalle reali dinamiche storiche, la vicenda vietnamita ha assunto i caratteri allegorici dello scontro tra Davide e Golia, o tra civiltà e barbarie, in una connessione sempre più labile con la realtà storica di uno degli scontri più anomali, lunghi e sanguinosi del XX secolo. L’evidenza che la principale fucina di tante raffigurazioni sia da sempre la bulimica e onnipotente Hollywood, con il suo inesauribile arsenale di dollari e fantasia, ha condotto al paradosso per cui il Vietnam del grande schermo coincide di volta in volta con la proiezione delle speranze, degli incubi, dell’eroismo e delle delusioni del “secolo americano”. Il risultato evidente è una colonizzazione (intenzionale o meno che sia) dell’immaginario collettivo a uso e consumo di un pubblico per sua natura globale. Il risultato paradossale è che, per la prima volta, a scrivere la storia di un conflitto sono stati e sono “gli sconfitti”: leggi tutto
La socialdemocrazia al capolinea?
Ha fatto bene Michele Salvati, nel suo pezzo uscito domenica 27 novembre per “La Lettura”, a esporre la questione nei termini franchi e comprensibili di una metafora sportiva: se la politica odierna fosse un campo di allenamento, assisteremmo all’umiliante spettacolo del più classico “torello” tra due o più destre, con al centro quanto resta della sinistra a rincorrere inutilmente una palla che non riesce nemmeno a toccare. In questa poco invidiabile condizione si trova soprattutto la sfiancata socialdemocrazia europea, che insieme al fiato sta perdendo anche la lucidità. Fuori di metafora, Salvati mostra come sia oggi in corso un “perverso gioco di squadra” tra due destre che si confrontano – ma non disdegnano di cooperare – sin dagli albori del capitalismo moderno: una liberista e liberale, favorevole a una diffusione senza limiti del mercato come unico principio regolatore e ostile all’interferenza dello stato; e una populista, tradizionalista e comunitaria, pronta a convogliare lo scontento e le paure generate dagli eccessi della prima verso la chiusura autoreferenziale, verso l’ostilità nei confronti dell’“altro” e del “diverso”, verso la leggi tutto
Dall’Ungheria alla Colombia, i rischi della logica referendaria
Due storie profondamente diverse, che arrivano da luoghi separati da poco meno di diecimila chilometri. Eppure, a ben guardare, due storie che presentano similitudini interessanti e preoccupanti da non sottovalutare per il bene di tutti, a qualunque latitudine.
L’inizio di ottobre è stato segnato dal più capzioso dei referendum, organizzato dal Primo Ministro ungherese Orban per consentire al suo popolo di esprimersi – ovviamente per rigettarlo – sul sistema delle quote stabilito in sede UE per la ricollocazione dei rifugiati nel continente. L’intera operazione si è risolta in un imprevisto e fragoroso fiasco: una partecipazione al voto ben al di sotto del 50% ha portato all’annullamento del risultato, seppure il 98% dei voti abbia espresso il consenso alle intenzioni del governo. Col consueto piglio autoritario, Orban si è affrettato a ridimensionare il significato dell’astensione, a dichiararsi vincitore, ad avvisare Bruxelles che dovrà comunque tenere in conto l’espressione della volontà del popolo ungherese, e ad annunciare che introdurrà comunque una riforma costituzionale per riaffermare l’esclusiva competenza statale sulle quote di accoglienza. Una riforma che un alto rappresentante del suo partito ha giustificato con la necessità di difendere anche i milioni di ungheresi che hanno disertato le urne perché, evidentemente, non hanno compreso la gravità della posta in gioco. leggi tutto
Il confine del Brennero e il futuro dell’Europa
I confini sono come le cicatrici: non ne esistono due uguali. Proprio come una cicatrice, ogni confine reca con sé un passato irripetibile di urti, lacerazioni, di guarigioni laboriose, di ricadute. Come a una cicatrice, a ogni confine corrisponde un decorso emozionale che può facilitare o più spesso complicare la guarigione. Farebbero bene a tenerlo presente coloro che oggi sono chiamati a gestire la vera o presunta “crisi” migratoria verso l’Europa. Al contrario, molti tra di loro giocano irresponsabilmente con stime e cifre, e sollecitano in questo modo i più bassi istinti dell’opinione pubblica del cui consenso poi vanno in cerca, fomentando così una spirale discendente che rischia di travolgere ogni sensibilità civile prima ancora del progetto europeo. Su questa strada sembrerebbe purtroppo incamminato il governo austriaco, almeno a giudicare dalle improvvide dichiarazioni del ministro Mikl Leitner sui presunti “trecentomila migranti” pronti a solcare il Mediterraneo, ad attraversare l’Italia e a devastare immancabilmente il piccolo paese alpino al loro passaggio. Tale costruzione è palesemente destituita di fondamento nei numeri, come dimostrano tutte le stime sui flussi attuali e futuri; eppure è sufficiente per minacciare l’Italia di non poter contare indefinitamente sull’apertura del confine del Brennero. La sua chiusura (temporanea? indefinita?), secondo Vienna, leggi tutto
I “paesaggi contaminati” di Martin Pollack e il salvataggio dall’oblio
“Un laboratorio su un immenso cimitero”: questa era l’Europa all’indomani del primo conflitto mondiale secondo Thomas Masaryk, primo Presidente della neonata Repubblica Cecoslovacca. È difficile immaginare un ossimoro che concili più efficacemente le attese di un dopoguerra di pace e di sviluppo sociale, e il monito dell’immensa carneficina appena conclusa. “L’esperimento” fu tutt’altro che un successo e le speranze di un pacifico progresso lasciarono presto il posto a incubi reali di moderna barbarie, in primis il nazionalsocialismo, e a nuovi massacri che avrebbero insanguinato a lungo l’intera Europa.
Massacri talmente diffusi che Martin Pollack, scrittore e giornalista austriaco e soprattutto profondo conoscitore dell’Europa centro-orientale, paragona quest’ultima a un’enorme fossa comune nella quale regimi contrapposti, passaggi di eserciti o deliberate operazioni di sterminio su base razziale o ideologica hanno precipitato avversari e nemici lungo tutto il Ventesimo secolo. Spesso i posteri hanno dedicato a quelle vittime un doveroso riconoscimento sotto forma di steli, monumenti, lapidi individuali e collettive. In molti altri casi, tuttavia, questo non è avvenuto per una precisa volontà politica, per il desiderio di rimuovere un passato ancora fresco dalla memoria collettiva, o di procedere sbrigativamente alla ricostruzione materiale e morale, o semplicemente perché la negazione del ricordo era l’ultimo, estremo affronto alle vittime. leggi tutto
La Cirinnà e qualche considerazione storica
Per chi prova a fare della storia il proprio mestiere, la comparazione tra eventi e processi distanti nel tempo è una deformazione professionale incurabile, al pari di chi lavora di martello tutto il giorno e finisce per vedere chiodi ovunque. Non si tratta però di un esercizio inutile, purché non si ricerchino le abusate “ripetizioni della storia” ma ci si dedichi a riscontrare mutamenti e permanenze di fronte a sfide e problemi complessi. Difficile dunque assistere alla controversia che dentro e fuori le istituzioni sta suscitando il decreto Cirinnà sulle unioni civili senza che sorgano spontanei dei paragoni con altre battaglie per i diritti civili nella storia della Repubblica.
Tra le più vecchie, quella assimilabile per estensione del coinvolgimento e per radicalità delle posizioni ebbe luogo nel 1974 in occasione del referendum abrogativo della legge Baslini Fortuna, che aveva introdotto il divorzio nell’ordinamento italiano. La vicenda fu il risultato di un compromesso: in parlamento la Democrazia Cristiana non ostacolò l’approvazione della legge, che pure rifiutava, per non produrre fratture nella coalizione di governo; essa però si riservava la possibilità di adire all’istituto referendario e lasciare così l’ultima parola al corpo elettorale. Appaiono già evidenti una differenza e una similitudine tra le due situazioni. In quel caso si trattò anche di una resa dei conti tra schieramenti abbastanza definiti e riconoscibili: leggi tutto