Ultimo Aggiornamento:
30 novembre 2024
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Il welfare è la miglior risposta al terrorismo: il caso olandese.

Dario Fazzi * - 24.03.2016
Al-Nusra

Ad oggi, i cittadini belgi di religione islamica sono all’incirca settecento mila persone. In termini relativi si tratta grossomodo della stessa percentuale di musulmani che vivono nei Paesi Bassi, attorno al 6% dell’intera popolazione. A Bruxelles circa il 26% dei residenti si professa di fede musulmana, una proporzione non del tutto dissimile a quella presente in città quali Rotterdam (25%) e Amsterdam (24%). In entrambi i paesi, le principali componenti etniche all’interno della comunità islamica sono quelle turche e marocchine e, tanto in Belgio quanto in Olanda, tali comunità si concentrano maggiormente nei contesti urbani. Demograficamente, dunque, si tratta di due situazioni abbastanza omogenee e relativamente comparabili tra loro.

 

Sebbene i Paesi Bassi non siano stati attraversati, almeno finora, da attentati della portata di quelli occorsi di recente a Parigi e Bruxelles, il processo di radicalizzazione di alcune componenti della comunità islamica olandese è un fenomeno diffuso nel paese, ben noto alle autorità locali e legato a doppio filo a forti interessi criminali. Secondo le forze di polizia olandesi, infatti, nel paese opererebbero circa trecento gruppi criminali a connotazione islamica che sarebbero non soltanto molto ben armati e violenti ma anche molto ben strutturati e in grado di gestire attività che vanno dal traffico di stupefacenti all’organizzazione di furti e rapine fino al consolidamento di una fitta rete di estorsioni.

 

Alcune frange di questo complesso universo criminale hanno da qualche tempo cominciato a lucrare anche da quello che in questo paese è conosciuto come “pop jihad.” Il reclutamento di giovani jihadisti, operato principalmente tramite social media e blog dedicati, si è rivelato un ottimo business e ha contribuito ad allargare le fila dei combattenti olandesi in Sira, Iraq e Yemen. Negli ultimi anni circa duecentocinquanta foreign fighters hanno lasciato l’Olanda per unirsi, principalmente, alle brigate di Al-Nusra in Siria. Un certo sconcerto si è sollevato qualche anno fa alla notizia che uno dei principali reclutatori di tale manovalanza jihadista fosse in realtà una giovane diciannovenne dei sobborghi dell’Aja, conosciuta come “la madre di Osama.” L’emblema di tale radicalizzazione però è senz’altro rappresentato da Schilderswijk, letteralmente “il quartiere dei pittori”, una zona della capitale amministrativa del regno recentemente ribattezzata dai media locali come “il triangolo della Sharia”. In questa enclave, infatti, i circa cinquemila residenti prevalentemente sunniti hanno de facto imposto l’obbedienza ai precetti coranici, vietando tra le altre cose l’uso e il consumo di alcool, tabacco e carne suina in tutta l’area.

 

Ciononostante, le conseguenze della radicalizzazione di alcune frange della comunità islamica in Olanda non sono state paragonabili a quelle tragicamente sofferte dal Belgio. Vale la pena chiedersi il perché.

 

Un primo ordine di ragioni è indubbiamente di carattere politico. Vanno infatti sia riconosciute le evidenti carenze dei servizi di sicurezza belgi che evidenziati i meriti dell’intelligence olandese. Quest’ultima si è dimostrata in più occasioni in grado di raggiungere un livello di penetrazione e di controllo sul territorio di gran lunga piú elevato rispetto a quello offerto dalla controparte belga. Questo è stato frutto di una complessa riforma del sistema di sicurezza avviata nel 2004 a seguito dell’attentato al regista Theo van Gogh sostenuta trasversalmente da governi laburisti, cristiano-democratici e liberali.

 

Ma un secondo e forse ancora più rilevante ordine di ragioni è di matrice sociale. Come ben spiegato dall’esperto islamista olandese Martijn de Koning, la radicalizzazione dei gruppi musulmani in questo paese ha seguito dei modelli tutto sommato simili a quelli emersi in altri contesti nazionali: alienazione, frammentazione delle fonti di autorità, sovrapposizione di ideologia, religione e politica hanno favorito la proliferazione di sentimenti, discorsi e pratiche jihadiste. A questi elementi di carattere sistemico si sono quindi aggiunte dinamiche di tipo individuale, quali un progressivo isolamento dal resto della società e, per contro, una costante espansione del network di contatti radicali. Anche in Olanda dunque la radicalizzazione di molti giovani musulmani sarebbe legata tanto a processi di discriminazione, stigmatizzazione e crescente islamofobia quanto, e in massima parte, all’esclusione sociale, favorita da condizioni di disoccupazione, indebitamento e ricorrenti crisi familiari.

 

É proprio su questo secondo ordine di ragioni che le autorità politiche olandesi sono intervenute maggiormente e in maniera più efficace, al fine di minare le fondamenta stesse di tali fenomeni di radicalizzazione. Sebbene, infatti, il sistema di welfare olandese abbia conosciuto una trasformazione profonda negli ultimi anni con l’adozione di una serie di riforme di stampo “partecipatorio” sfociate nella privatizzazione di numerosi servizi sociali, l’Olanda continua a fornire un interessante e abbastanza funzionale esempio di sicurezza sociale flessibile (o, come viene spesso definita, flexicurity). All’interno di questo sistema, alla liberalizzazione del mercato del lavoro e alla progressiva riduzione dell’imposizione fiscale sono corrisposti dei robusti investimenti in sussidi alla disoccupazione e in programmi di reinserimento lavorativo e di istruzione, tesi appunto a minimizzare emarginazione e disagio sociale.

 

Secondo l’OCSE questo sistema ha non soltanto contribuito a garantire un salario a oltre il 74% della popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni (inclusi quindi quei giovani la cui rappresentanza fa di solito schizzare le cifre sulla disoccupazione in Italia ben oltre la soglia del 50%), ma ha soprattutto portato il livello generale di soddisfazione (il cosiddetto life satisfaction index) a oltre nove punti su dieci. Tale sistema non si è risolto in puro assistenzialismo e ha previsto sin dall’inizio un delicato bilanciamento tra garanzia di diritti e adempimento di doveri. La bontà del sistema è anche testimoniata dal fatto che, nonostante la perdurante crisi economica, negli ultimi anni l’aumento di richieste per l’accesso al sistema di sussidi non è stato significativo e il tasso di popolazione completamente dipendente da questa forma di reddito per la propria sussistenza è rimasto al di sotto del 2%. Quello che è interessante notare al fine di questa analisi, tuttavia, è che buona parte delle richieste di sussidi continuano a provenire da aree popolate dalle comunità islamiche, con punte di oltre cinquanta richieste per migliaio di abitanti a Rotterdam.

 

I sussidi, soprattutto in queste zone, hanno fornito una valida alternativa alla radicalizzazione e i programmi educativi hanno di sicuro rappresentato l’elemento di maggiore successo di tale politica. Negli ultimi anni, infatti, il tasso di conseguimento di diplomi sta crescendo in modo considerevolmente più alto nelle comunità islamiche del paese rispetto ai progressi compiuti da tutte le altre comunità etniche e religiose. Secondo numerosi studi internazionali, i musulmani in Olanda raggiungerebbero alti livelli di formazione nel 31% dei casi, mentre la popolazione non-islamica di questo paese si attesterebbe attorno al 20%. Il lento processo di community-building favorito dai governi olandesi ha mirato a rafforzare il senso di appartenenza a una società civile che si sforza di fornire ad ogni proprio membro un numero adeguato di opportunità, cercando di scongiurare per quanto possibile alienazione e marginalizzazione. Ma è anche servito a stimolare la prevenzione della radicalizzazione mediante una identificazione più celere delle componenti devianti presenti all’interno delle comunità islamiche.

 

Di certo, come nella maggior parte dei casi, l’integrazione olandese è lungi dal rappresentare un modello perfetto. Eppure il caso olandese dimostra come accorti investimenti in welfare siano in grado di produrre nel medio periodo dei vantaggi relativi di gran lunga superiori rispetto a quelli derivati da investimenti in warfare. Tali vantaggi si traducono non soltanto nello sviluppo di una società aperta, tollerante e integrata, in grado di non cedere alle pulsioni populiste e di isolare le componenti radicali, ma anche, e soprattutto, nel consolidamento della sicurezza nazionale. Un monito che dovrebbe riverberare a Bruxelles così come in molte altre capitali europee.





* Dario Fazzi, ricercatore di storia degli Stati Uniti presso il Roosevelt Study Center di Middelburg, Olanda. Si occupa di politica e società statunitensi e in particolare di guerra fredda e relazioni transatlantiche.