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Il movimentato ventennale di Srebrenica
Sabato 11 luglio la Bosnia ed Erzegovina, così come tutto il mondo, ha commemorato i vent’anni dall’uccisione a sangue freddo di almeno 8.372 uomini, vecchi e bambini bosniaco-musulmani a Srebrenica, da parte delle milizie serbobosniache di Ratko Mladic e Radovan Karadzic e dei loro sponsor della Serbia di Slobodan Milosevic. Corpi sepolti in fosse comuni e poi traslati in varie fosse secondarie, per nasconderne le tracce. Il più grave massacro avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, che due corti internazionali diverse (il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e la Corte Internazionale di Giustizia) hanno riconosciuto come atto di genocidio, per la sua scala e modalità.
E’ stato un ventennale movimentato, segnato da contrapposizioni e negazionismi. Tutto era iniziato con l’arresto in Svizzera di Naser Oric, ex combattente bosniaco considerato l’estremo difensore di Srebrenica durante l’assedio dell’enclave nel 1992-95, ma un criminale di guerra secondo i serbobosniaci. Oric, già assolto dal tribunale dell’Aja, è stato infine estradato nella sua Bosnia anziché in Serbia, da dove proveniva il mandato di cattura, ma il caso aveva fatto rimontare le tensioni. Il sindaco di Srebrenica, Camil Durakovic, aveva annunciato la sospensione della commemorazione del ventennale in caso di mancato rilascio di Oric, per impossibilità di garantirne la sicurezza. leggi tutto
Il tentativo di destabilizzazione della Tunisia
Venerdì 26 giugno, durante il Ramadan, sulla spiaggia di un noto hotel di Port El Kantaoui, a pochi chilometri dalla città di Sousse, un giovane di 23 anni, Seiffedine Rezgui ha assassinato 40 turisti che stavano trascorrendo le loro vacanze.
A pochi mesi dall’attentato del Bardo, la Tunisia viene nuovamente colpita, con un attacco ancora più cruento, con lo scopo di voler far naufragare la delicata transizione del paese.
Il nuovo attacco alla Tunisia, modello esemplare di quel laboratorio politico che è stato in grado di portare il paese a una transizione democratica dopo la rivolta del 2011, sembra rivelare una strategia ben definita. Il terrorismo che si muove nello spazio globale di un Islam mondializzato ( K. F. Allam, 2015) attraverso il meccanismo della paura, punta alla destabilizzazione della democrazia tunisina. Il progetto di destabilizzazione di Da’sh (Isis) ha avuto inizio tramite un reclutamento su larga scala di adepti, tanto che la Tunisia raggiunge il triste primato di “esportatore di jihadisti” verso la Siria e l’Iraq. Secondo le stime fornite dal ministero degli interni nel 2014 sarebbero stati arruolati circa 2400 giovani tunisini attraverso la rete costituita da social networks, le moschee, alcune associazioni culturali o le carceri.
In gran parte dei casi, si tratta dei rappresentanti di quella generazione del cambiamento, che all’indomani della rivolta del 2011, ha vissuto un profondo malessere, alle prese con la pesante situazione nel mercato del lavoro. La disoccupazione ha creato frustrazione e malcontento nella fascia giovanile della popolazione tunisina leggi tutto
L’ONU. 70 anni fa alla Conferenza di San Francisco si scrivevano i principi a tutela dell’individuo.
“L’Organizzazione delle Nazioni Unite, cos’è costei?” Non sconosciuta quanto il nome dell’antico filosofo greco Carneade su cui rimuginava Don Abbondio nelle pagine dei Promessi Sposi, l’Organizzazione, chiamata comunemente con l’acronimo ONU, appare però ignota ai più. Che sia invocata per operare con un intervento umanitario, denigrata per la scarsa incisività della sua azione a fronte di un ampio investimento di fondi, o più semplicemente ignorata, la rilevanza dell’ONU è ben maggiore delle mezze verità e delle finalità strumentali secondo cui spesso le politiche nazionali la modellano e ci hanno anche sovente abituati.
Nata sulle ceneri della seconda guerra mondiale e di una fallita Società delle Nazioni, furono proprio i 70 milioni di morti del conflitto a determinare una reazione più viva della politica e della società civile. L’appuntamento per tutti fu a San Francisco, dal 25 aprile al 26 giugno 1945, in occasione della redazione dello Statuto della nuova Organizzazione. Alle posizioni dei rappresentati dei futuri Stati membri, si unirono per settimane le richieste espresse animatamente fuori dai palazzi da gruppi pacifisti, antimperialisti, femministi, ecologisti, religiosi e tanti altri ancora, che contribuirono a modificare alcuni degli aspetti della futura Carta ONU, la cui bozza era già stata definita un anno prima a Dumbarton leggi tutto
L’eredità di Gezi Park e il riscatto delle minoranze: l’altro volto della Turchia
“Con questo voto hanno vinto coloro che stanno dalla parte della giustizia, della libertà, della pace e dell’indipendenza. Curdi, armeni, turchi, sunniti, cristiani, hanno vinto tutti coloro che si sono sentiti esclusi. Hanno vinto gli emarginati, i disoccupati, e tutti coloro che hanno dovuto soffrire per vivere. E’ anche una vittoria per le donne che hanno sostenuto il nostro partito. Oggi ha vinto la democrazia. Una nuova pagina si sta scrivendo nella Storia del nostro Paese”.
Con queste parole il giovane e carismatico leader del nuovo Partito Democratico dei Popoli (HPD), Selahattin Demirtaş, festeggia il successo del suo partito alle elezioni politiche del 7 giugno. L’HPD entra così in parlamento per la prima volta con il 13% dei voti, superando la soglia di sbarramento (10%) e guadagnando 80 seggi. La vera novità è che il Partito Democratico dei Popoli è un partito con una forte matrice curda, sebbene esso si presenti come un partito di sinistra turco, pluralista e aperto a tutte le minoranze etniche, religiose e civili. Demirtaş, 42 anni, avvocato per i diritti umani, fondatore di Amnesty International a Diyarbakir (città curda a sud-est della Turchia, diventata il simbolo della vittoria dell’HPD), ecologista, impegnato per i diritti civili degli omosessuali, ha saputo conciliare le esigenze del popolo curdo che chiede parità culturale, uguale cittadinanza e poteri di autogoverno con la necessità di mantenere salde le credenziali di un partito di cambiamento nazionale. leggi tutto
Il Sultano è in difficoltà
Le elezioni parlamentari del 7 giugno in Turchia hanno determinato due risultati principali: da un lato, la vittoria del Partito della democrazia del popolo (HDP), di sinistra e filo-curdo; dall’altro lato, e conseguente, la perdita della maggioranza parlamentare da parte del Partito della Giustizia e della Libertà (AKP) del Presidente della Repubblica, Erdoğan.
La maggior parte delle analisi post-voto confermano come oltra a quelli di sinistra, l’HDP sia stato in grado di attrarre su di sé i voti dei conservatori e devoti musulmani curdi, che invece avevano sostenuto il Partito islamista di Erdoğan nelle precedenti tre tornate elettorali, attribuendogli la maggioranza assoluta dal 2002. Al di là dei flussi elettorali, il dato politico è sicuramente quello più interessante: in primo luogo, il Presidente Erdoğan non ha convinto i propri elettori della bontà dei suoi progetti di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, tagliata a propria misura, favorendo invece la pluralità delle forze politiche presenti nelle istituzioni, anche se questo comporta tempi lunghi per i negoziati e i compromessi necessari alla formazione di un nuovo governo. La Turchia sconterà forse minore “efficienza” e rapidità nel processo decisionale, ma sicuramente ne guadagnerà in termini di trasparenza e discussione pubblica su temi che dal 2002 sono stati di appannaggio pressoché esclusivo dei vertici dell’AKP. leggi tutto
La “difesa attiva” di Pechino: discontinuità e continuità della politica estera cinese alla luce del recente libro bianco sulla strategia militare.
L’Ufficio d’Informazione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha pubblicato martedì 26 maggio un nuovo libro bianco dal titolo “La strategia militare della Cina” (Zhongguo junshi zhanlüe). Si tratta del nono libro bianco riguardante le forze armate cinesi dal 1998, ma del primo esplicitamente dedicato alla strategia militare. Nel verboso documento, circa novemila caratteri nell'originale in mandarino, il governo cinese delinea uno scenario complesso e non privo di pericoli per il futuro del paese. Mentre da una parte vengono reiterati i benefici dei trend politici-economici che hanno investito l’Asia Orientale negli ultimi decenni, Pechino afferma che crescenti minacce esterne alla propria sovranità territoriale hanno spinto il paese ad una revisione della propria strategia militare riassunta nel nebuloso concetto di “difesa attiva”, riconducibile, citando il documento, alla massima “non attaccheremo a meno di non esser attaccati per primi, ma sicuramente contrattaccheremo se ci attaccheranno” (ren bufan wo, wo bufan ren; ren ruo fan wo, wo bi fanren).
Alcune delle cosiddette “minacce esterne” elencate nel libro bianco sono dei “classici” della comunicazione politica cinese, dal rischio leggi tutto
Strumento di pace? Il Vaticano tra Cuba e Colombia, un anno dopo
La presenza della Santa Sede nelle azioni diplomatiche dell’America Latina è uno degli elementi fondanti l’azione sociale e politica del papa argentino. Un anno fa avevamo scritto, su questa testata, della spinta alla pace promossa da Francesco in due paesi chiave dell’area: Cuba e Colombia. Gli esiti che possiamo vedere oggi sono tra loro molto diversi, probabilmente anche inattesi.
Apertura cubana
È ben nota al lettore italiano la recente svolta segnata nelle relazioni internazionali di Cuba, così come è palese il riconoscimento del fondamentale contributo Vaticano alla sterzata. Il cardinale cubano Jaime Ortega y Alamino, raggiunti gli Stati Uniti per ricevere un dottorato honoris causa presso l’università gesuitica di Fordham (New York), non ha mancato di ricordare il contributo di Francesco alla riapertura delle relazioni tra i due (ex?) grandi nemici. Il cardinale ha rilevato come il papa sia impegnato nella costruzione di nuovi rapporti tra i paesi attraverso la forza della parola. Il suo pontificato lo prova. Ortega ha aggiunto che Bergoglio nei suoi colloqui con Obama ha sottolineato la centralità della questione cubana per la politica di Washington. I rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina passano necessariamente attraverso Cuba, avrebbe detto Francesco.
Nell’attenzione verso l’isola caraibica entra un elemento basilare del magistero del papa argentino: l’affermazione della dignità dell’uomo, un tema assai caro anche alla politica cubana. leggi tutto
Il bottino di Palmira
Palmira, Siria.
La conquista della città di Tadmur in Siria, meglio conosciuta nel mondo come Palmira per il suo incredibile sito archeologico protetto dall’UNESCO, rappresenta un altro passaggio importante nella fase attuale della Guerra di Siria. E’ la prima volta che l’organizzazione del sedicente Stato Islamico (IS) combatte e toglie all’esercito siriano un centro abitato di medie dimensioni. Prima è sempre intervenuto su territori già conquistati dai ribelli, approfittando della debolezza istituzionale, politica e militare di questi ultimi. La conquista di Palmira sembra essere motivata da ragioni anzitutto strategiche ed economiche. Situata nel centro del Paese, Palmira unisce la valle dell’Eufrate siriano e iracheno, sotto controllo dell’IS, con l’asse Damasco-Aleppo, la valle dell’Oronte e la costa del Mediterraneo, controllate da Damasco e da altri ribelli. In questo modo, lo Stato islamico può garantirsi il controllo di tutto l’est della Siria: prepararsi alla conquista delle ultime basi militari e dei pozzi di petrolio ancora in mano a Damasco, e unirsi ai suoi avamposti nel deserto che confina con Iraq e Giordania. Da lì l’Arabia Saudita è vicina. Allo stesso modo, può minacciare ad ovest il “corridoio” Damasco-Homs-Hama-Aleppo caro al regime, e rivaleggiare con le altre formazioni ribelli su chi potrà controllare l’asse portante della Siria. Ma, forse, oggi, il valore strategico di Palmira per l’organizzazione dello Stato islamico è rappresentato dal suo tesoro archeologico. Sempre più le casse dell’autoproclamato califfo al Baghdadi sono finanziate dal contrabbando sia di petrolio sia di reperti archeologici. Nazioni unite, Unesco e associazioni che monitorano il mercato illegale, stimano in miliardi di US$ i proventi di questi traffici. leggi tutto
L’Ucraina di Poroschenko ancora sospesa tra Ovest ed Est
A poco più di un anno dall’inizio degli scontri nella parte orientale del paese e dall’elezione del Presidente Poroschenko, l’Ucraina si trova ancora incastrata tra il ferro dell’Unione Europea e l’incudine di Mosca. La già debole economia Ucraina ha vissuto un anno difficilissimo a seguito delle sanzioni imposte a uno dei suoi principali partner commerciali, la Russia, e la conseguente crisi del rublo. A febbraio, ad esempio, la Grivna aveva perso più di due terzi del suo valore rispetto al dollaro prima di una debole ripresa. Cosa è stato fatto e cosa si dovrà fare per cercare di uscire da questa lunga e logorante crisi?
Il nuovo governo e la difficile strada delle riforme
Durante la campagna elettorale e all’indomani della trionfale elezione, Poroschenko ha discusso un numero di progetti e delineato alcune priorità da realizzare a breve nel corso della sua presidenza. La stampa Occidentale è piuttosto positiva sull’operato del nuovo governo[1]a cui viene, in particolare, riconosciuto il merito di aver fatto fronte con velocità alla crisi del debito, tramite accordi con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Non tutte le promesse, tuttavia, sono state realizzate. In particolare, Poroschenko ha identificato il maggiore problema dell’economia Ucraina nella presenza di potenti oligarchi, che si sono impossessati delle risorse produttive del paese all’indomani dell’indipendenza del paese.
[1] Per esempio, il Financial Times: http://www.ft.com/intl/cms/s/0/60f441e8-ed9d-11e4-987e-00144feab7de.html#axzz3aQ2kYqVe.
Conflitto e armonia: il mondo visto da Pechino
Nel momento in cui vengono sollevate da recenti pubblicazioni nuove riflessioni sul fatto se il mondo, alla fin fine, non era meglio (o meno peggio) durante la Guerra fredda, appare utile ricordare che per diverse aree del mondo, a cominciare dall’Asia, in realtà quei decenni furono molto “caldi” e poco “freddi”, segnati da guerre sanguinose in Corea, Vietnam, cambogia, Afghanistan (per citare solo alcuni esempi).
Per la Cina la Guerra fredda rappresentò un periodo di forte isolamento (diplomatico ma anche economico-commerciale, con l’embargo) verso molta parte del mondo: un isolamento che divenne di fatto marginalizzazione dopo la rottura con l’Urss ed il mondo socialista e che fu interrotto solo, nei primi anni Settanta, con la ripresa del dialogo con gli Stati Uniti e successivamente, alla fine degli anni Ottanta, con la visita di Gorbachev a Pechino.
La fine dell’Urss e il riconoscimento da parte cinese dell’esistenza di un’unica ‘superpotenza’ (gli Usa) nella nuova realtà globale hanno introdotto negli ultimi anni significative modifiche ed innovazioni nella visione del mondo di Pechino, intrecciandosi con gli obiettivi e le priorità interne (stabilità ed unità, crescita, sicurezza nazionale, sovranità territoriale, ecc.).
I documenti disponibili, i discorsi e le interviste di Xi Jinping e dei maggiori attori della politica estera (innanzitutto il leading small group per gli affari esteri, guidato dallo stesso Xi; e il Ministro degli Esteri, Wang Yi, il Consigliere di stato, Yang Jiechi , Ministro degli esteri sino al 2013, oltre al Premier Li Keqiang) indicano che Pechino, pur essendo ferma nella denuncia dei pericoli per la stabilità e la pace mondiale rappresentati dall’’egemonismo’ (Washington) e dal ‘neo-interventismo’ (approcci aggressivi da parte statunitense ed occidentale alle crisi in africa e in medio oriente), leggi tutto