Ultimo Aggiornamento:
11 dicembre 2024
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Orientarsi in Siria: alcuni suggerimenti

Gli eventi bellici in corso nel Nord della Siria, che vedono l’esercito turco bombardare e invadere i territori a ridosso del confine da mercoledì 9 ottobre sono purtroppo la nuova tappa della drammatica guerra in Siri: guerra che combina forze interne, regionali ed internazionali. Per orientarsi nel drammatico conflitto, che dura da oltre otto anni, risulta utile ricordare alcuni punti fermi, o processi di lungo respiro che possano dare un senso alla cronaca militare, umanitaria e politica di questi giorni.

 

In primo luogo, sia per motivi etici che politici bisogna ricordare le sofferenze umane patite dalla popolazione siriana, con quasi cinque milioni di rifugiati all’estero, sette milioni di rifugiati interni e una stima di quasi mezzo milione di morti su una popolazione di circa 23 milioni di persone nel 2011 e una generazione di bambini e ragazzi che ha perso anni scolarizzazione ed è cresciuta in contesti di deprivazione e violenza. Questa guerra è sì “stupida” ma non “ridicola” come sostiene il Presidente Usa Trump nella sua sincera e violenta discriminazione.

 

In secondo luogo, se l’esistenza individuale e collettiva dei siriani ha senso ovviamente per loro stessi, tutte le altre forze esterne hanno considerato la Siria come uno strumento per realizzare le proprie ambizioni politiche leggi tutto

La Siria, Trump e gli altri

La decisione presa dal Presidente Donald J. Trump il 18 dicembre 2018 di ritirare le 2000 truppe regolari statunitensi dal nord-est della Siria ha provocato una tempesta politica: negli USA, con le dimissioni del pluridecorato Segretario alla Difesa, James Mattis, e dell’inviato USA per la coalizione internazionale contro l’Organizzazione dello stato islamico (IS), Brett McGurk; in Europa, dove si critica l’unilateralismo di Washington e il Presidente francese Emmanuel Marcon deve gestire il contingente militare di circa un migliaio di uomini che diventa ora quello più numeroso, ma senza la copertura politica e logistica della superpotenza; in Medio Oriente, dove, eccezione fatta per la Turchia, gli alleati israeliani e sauditi pianificano nuovi interventi autonomi in Sira contro la presenza iraniana, mentre Teheran, Damasco e Mosca si dimostrano cautamente soddisfatti.

La decisione nasce anzitutto da ragioni di politica interna USA, che si traducono nell’ennesimo atto unilaterale di Washington: di fronte ai problemi politici che la Presidenza Trump deve affrontare da qui alle prossime elezioni, “riportare a casa” le truppe come promesso nella campagna del 2016 dovrebbe pagare. Con tempismo pari alla sua spregiudicatezza, nella telefonata del 14 dicembre, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan promette a Trump di assestare il colpo finale ad IS, quando in realtà leggi tutto

Da Kirkuk a Raqqa e ritorno.

Tra domenica 15 e lunedì 16 ottobre 2017 le forze armate del Governo di Baghdad sono rientrate nella città di Kirkuk dopo anni di assenza: meglio, dopo essersi disciolte o ritirate di fronte all’avanzate delle forze dell’Organizzazione dello stato islamico in Iraq e in Siria (ISIS) che erano già entrate senza colpo ferire nella grande città irachena di Mosul, nell’estate del 2014. Da lì, i miliziani di quella che diventerà poi Organizzazione dello stato islamico (IS)si diressero verso nord, a Kirkuk, incontrando però la resistenza armata delle forze curde, che in Irak prendono il nome di peshmerga. Queste entrarono in città, ne presero i punti strategici tra cui i grandi, e antichi, giacimenti petroliferi, contravvenendo ad un accordo politico con il Governo centrale di Baghdad per cui solo le forze di sicurezza irachene, nazionali, potevano entrare armate nella città multi-“etnica” e multi-confessionale. La minaccia contingente di IS era comunque prioritaria rispetto alle rivalità pre-esistenti, per il momento. Una volta sconfitta militarmente IS,tornano però allo scoperto le divisioni tra chi deve governare la città: qui vivono comunità curde, arabe e turcomanne la cui entità è sempre stata oggetto di dispute e spostamenti, volontari e forzati, di popolazione nel corso degli ultimi decenni, ossia da quando leggi tutto

Ritorno al futuro: Trump in Medio Oriente

Il viaggio del Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, in Arabia Saudita e in Israele ha avuto rilevanza nei limiti in cui segna il tentativo di riportare Washington al centro della politica medio orientale: al centro di una regione che sta attraversando le difficoltà legate alla lotta tra quelle forze che desiderano rendere la regione più autonoma dagli interventi politici esteri e guidarla tanto in nome dei diversi nazionalismi quando della cosiddetta “civiltà islamica”, e quelle forze ritengono essenziale il sostegno estero (leggi statunitense od europeo) sia per controbilanciare le supposte mire egemoniche altrui sia garantire le capacità di governo sulla propria popolazione.

 

Fin qui nulla di nuovo, nel senso che fin dalla costruzione del Medio Oriente post-Prima e Seconda Guerra Mondiale i gruppi dirigenti dei Paesi arabi si sono divisi e scontrati sul legame tra indipendenza, sovranità, integrazione regionale e relazioni con le ex-potenze coloniali o le superpotenze della Guerra Fredda. Il passaggio dal dominio franco-britannico a quello statunitense negli anni Cinquanta si intrecciava con l’indipendenza postcoloniale del nazionalismo arabo, a guida egiziana: la posta in gioco era l’allineamento della “giovane” repubblica di Siria alle monarchie hashemite di Iraq e Giordania oppure alla leadership egiziana di Nasser. leggi tutto

Prove di forza in Siria

Il 4 aprile nei pressi della cittadina di Khan Shaykhun venne sferrato un attacco con armi chimiche che causò almeno 84 morti e molti altri feriti. La località si trova nella provincia di Idlib nel nord-ovest della Siria, dove si concentra il grosso delle forze ribelli. L'attacco avvenne nel contesto di una dura campagna di bombardamenti in tutta la zona, compresa la distruzione di un ospedale a Ma'arrat al Nu'man, a una ventina di chilometri di distanza che avrebbe potuto salvare alcuni dei feriti.

Dopo la ri-conquista di Aleppo da parte delle forze lealiste a Damasco nel dicembre 2016, la provincia è sotto costante pressione militare, con l'aviazione siriana e russa che bombarda le roccaforti ribelli con l'obiettivo di minarne la coesione e indurli a negoziare degli accordi: questi comportano il ritiro dei ribelli armati, dei loro familiari e il controllo delle forze di sicurezza del governo, o dei suoi alleati. Nei fatti, è un ritiro quasi incondizionato che permette di evitare la sanguinosa battaglia finale, porta a porta, di dividere il fronte dei ribelli e della popolazione, il tutto in cambio della sopravvivenza di questi ultimi. Il risultato è la concentrazione senza precedenti di popolazione e ribelli armati nella provincia rurale e settentrionale del Paese, leggi tutto

Il futuro del presente, ed altre possibilità.

Sulla base delle notizie raccolte e diffuse finora, l'attentato del 22 marzo contro il Parlamento britannico a Londra sembra rientrare nella categoria degli attacchi "ispirati" ma non "organizzati" da organizzazioni internazionali terroristiche, come lo Stato islamico. Saremmo dunque di fronte ad un evento simile a quanto avvenuto nella strage a Nizza il 14 luglio oppure a quella del mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre 2016. Gli attacchi a Parigi del 13 novembre 2015 e quelli a Bruxelles del 22 marzo 2016, invece, erano caratterizzati da legami organizzativi più stretti con l'Organizzazione dello stato islamico (IS). La diversità dei collegamenti è proprio uno dei punti di forza dell'Organizzazione dello stato islamico che sfrutta modalità diverse di conflitto: dalla guerra convenzionale, alla guerriglia in terra di Iraq e di Siria, agli attentanti terroristici in Europa, Turchia, Tunisia ed Egitto, fino all'ispirazione di singoli individui a compiere atti terroristici con mezzi tanto semplici quanto letali, sempre in Europa o negli Stati Uniti d'America. Fino a questo punto, dunque, niente di nuovo. Purtroppo.

Molto, invece, si muove in Iraq e in Siria dove la principale organizzazione jihadista, l'Organizzazione dello stato islamico, sta subendo pesanti sconfitte militari sul campo. Nonostante la resistenza sempre più accanita delle truppe di al Baghdadi, le forze irachene leggi tutto

La battaglia di Aleppo, la guerra in Siria.

La battaglia per la conquista della città di Aleppo è ormai decisa. Da fine novembre, in poche settimane le forze armate siriane e i loro alleati libanesi, iraniani e russi hanno riconquistato quasi tutti i quartieri della cosiddetta "Aleppo Est". Un'offensiva militare che è frutto dei lunghi preparativi messi a punto dalla scorsa estate: rafforzamento dell'assedio ai quartieri "ribelli", i movimenti di truppe verso la seconda città della Siria e l'arrivo di nuove forze russe nel Mediterraneo orientale. I tentativi dei ribelli di rompere l'assedio durante l'estate del 2016 sono durati poco, dimostrando i limiti strategici che le opposizioni armate ormai scontano in Siria. In particolare, la diminuzione significativa del sostegno estero, tanto delle monarchie del Golfo quanto dei Paesi Nato e soprattutto della vicina Turchia. Di fronte all'offensiva congiunta di tutte le forze pro-Damasco, nemmeno i comandi e le truppe ben disciplinate ed armate dei radicali jihadisti di Fatah al-Sham (ex-Jabhat al-Nusra, al-Qaida in Siria) sono riusciti a tenere unito il fronte dei ribelli. In modo significativo, non appena i governativi hanno interrotto i legami tra i comandi centrali e le unità locali, queste ultime hanno deciso di arrendersi o ritirarsi: sintomo di fatica, sfaldamento dei ranghi e soprattutto sfiducia nelle possibilità di riscossa. leggi tutto

Aleppo e Mosul: Guerra Fredda e Proxy Wars

Giovedì 13 ottobre, il vice-Primo Ministro turco Numan Kurtulmuş ha dichiarato che le guerre per procura, o proxy wars, in Medio Oriente sono il segno del riemergere di un possibile scontro diretto tra le superpotenze della Guerra Fredda, cioè Stati Uniti d’America e l’odierna Russia. La guerra in Siria si sta trasformando in un conflitto regionale di più ampia portata, sempre a suo dire. Inoltre, alle tensioni relative alla sorte della città siriana di Aleppo si aggiungono ora quelle per Mosul in Iraq. Qui, da settimane il governo di Baghdad sta ammassando truppe dell’esercito regolare e delle milizie di “Mobilitazione popolare”, in larga parte sciite, in attesa dell’assalto finale alla roccaforte irachena dell’Organizzazione dello stato islamico (IS). Facendo eco alle monarchie del Golfo, il Premier turco Erdogan ha minacciato “fuoco e fiamme” se la città verrà occupata da truppe sciite e non da quelle sunnite, e intanto ha mobilitato l’esercito turco al confine con l’Iraq e alcune milizie irachene sunnite che sostiene da tempo. Il governo vacillante di Baghdad respinge le accuse al mittente e chiede il ritiro di alcuni contingenti turchi presenti nel nord dell’Iraq, ufficialmente a difesa delle comunità turcomanne. Per la precisione, queste ultime si sono divise tra il sostegno o meno alla stessa IS. leggi tutto

Per la storia di un’invasione, e di una catastrofe.

Londra, Baghdad

 

Dopo anni di ricerca d’archivio, interviste e di attesa il 6 luglio 2016 è stato finalmente pubblicato il cosiddetto Chicolt Report: un’inchiesta sul ruolo del Regno Unito nell’invasione ed occupazione dell’Iraq nel 2003. Il rapporto contribuisce a fare luce su un evento che segna in modo indelebile la storia internazionale dell’inizio del XXI secolo, e le cui conseguenze sono ben lungi dall’essere finite.

Come si ricorda nell’introduzione, il governo britannico decise di intervenire formalmente il 17 marzo 2003 e rimase una potenza occupante fino al 28 giugno 2004, per restare poi nel Sud-est del Paese come responsabile della sicurezza. I risultati principali a cui è giunta la commissione d’inchiesta riguardano il fatto che l’intervento armato non rappresentava lo strumento “di ultima istanza” (last resort) per impedire lo sviluppo delle armi di distruzione di massa da parte di Baghdad; queste ultime non esistevano o comunque il governo iracheno era lontano da poterle ricostruire dopo averle smantellate nel corso degli anni Novanta, come testimoniato dagli ispettori Onu guidati da Hans Blix. Le prove del possesso di armi di distruzione di massa erano false, costruite ad hoc, e il governo si affidò a queste ultime invece dei rapporti dell’Onu. Il Primo Ministro Tony Blair convinse il governo a seguire gli USA sempre e comunque, leggi tutto

Da Falluja a Baghdad, e ritorno

La riconquista di buona parte della città di Falluja costituisce una buona notizia per il Governo iracheno e per le forze che combattono l’Organizzazione dello stato islamico. L’utilizzo delle milizie arabe sciite per completare all’accerchiamento della città e l’entrata dei reparti speciali dell’esercito regolare iracheno nei quartieri centrali serviva ad evitare quanto successo prima a Tikrit e poi a Ramadi: cioè, le milizie sciite o pro-iraniane che riconquistavano i centri urbani e praticavano punizioni collettive contro la popolazione in maggioranza araba sunnita. A riconquista ormai ultimata, la strategia del Governo ha funzionato in parte, nel senso che le rappresaglie sembrano esserci state ma limitate rispetto ai precedenti. Ciononostante, un assedio durato mesi e l’ultimo assalto hanno colpito con violenza la popolazione civile: si stima fossero 90mila prima dell’assedio iniziato a Marzo 2016 di cui 20mila persone sono rimaste intrappolate nel centro città fino ad ora. Senza acqua, elettricità, cibo e medicine, le condizioni dei residenti o degli sfollati nei campi adiacenti sono terribili, tanto che le organizzazioni umanitarie presenti in zona parlano di vera e propria emergenza se non catastrofe umanitaria.

Qui inizia la sfida politica del Governo iracheno. Fintantoché prevarranno quelle forze politiche che ritengono lo stato e le sue istituzioni come “cosa propria” secondo una logica patrimoniale non ci saranno grandi prospettive di ricostruzione di una comunità politica nazionale che sia minimamente sostenibile. leggi tutto