“What China’s gonna do?” Uno sguardo su propaganda e diplomazia cinese nelle ultime settimane
La Cina ha avuto ampio spazio sui mezzi di informazione e i social media italiani nelle ultime due settimane, soprattutto per via dell’ormai famoso video di propaganda riguardante il tredicesimo piano quinquennale - l’ormai noto shisanwu – caratterizzato dallo slogan “Wanna know what China’s gonna do? Best pay attention to the shisanwu” (“Se volete sapere cosa farà la Cina prestate attenzione al tredicesimo piano quinquennale”). La viralità del video certamente testimonia i progressi della cosiddetta “propaganda esterna” (duiwai xuanchuan) cinese nel rivolgersi all'opinione pubblica americana ed europea. D’altra parte però, essa rinforza i classici stereotipi occidentali su un Oriente irrimediabilmente “altro” e weird, paradossalmente proprio a causa della sua tanto sfavillante quanto straniante confezione “pop” corredata perfino dalla partecipazione di un simil-David Bowie in versione Aladdin Sane. Dai vuoti simulacri della pianificazione economica comunista al Gangnam Style il passo si è rivelato improvvisamente brevissimo e, pur al costo di inevitabili semplificazioni del suo pensiero, è difficile non citare una ben nota frase del filosofo canadese Marshall McLuhan: “the medium is the message”. L’obiettivo è far parlare del video in sé, e quindi del governo cinese, non informare l’opinione pubblica occidentale sul tredicesimo piano quinquennale di un paese abituato a truccare le statistiche delle proprie performance economiche.
Per inclinazione personale ed in linea con gli obiettivi e lo stile di questa pubblicazione, rifuggiamo da esercizi retorici su fantomatiche “armi di distrazione di massa”. Tuttavia è di notevole interesse il fatto che questo video abbia ottenuto una tale risonanza tra i mezzi di informazione italiani in un periodo pregno di avvenimenti per la diplomazia cinese. In ottica europea, la visita della cancelliere tedesca Angela Merkel a Pechino ad inizio mese si pone come la conferma del crescente impegno diplomatico ed economico cinese con i paesi della UE all’internod del progetto commerciale delle Vie della Seta economiche, meglio note come One Belt, One Road. La visita tedesca è di particolare interesse se messa in relazione a quella condotta da Xi Jinping nel Regno Unito nell'ultima settimana di ottobre, volta a coronare la nuova “età dell’oro” delle relazioni sino-britanniche, durante la quale George Osborne e David Cameron hanno ripetutamente dichiarato di voler fare del Regno Unito il primo partner economico di Pechino in Europa. Le affermazioni del governo Cameron non sono state certamente ignorate da Berlino, attualmente il primo partner commerciale della Cina nella UE. Dalla prospettiva cinese, i nuovi accordi commerciali stipulati col governo Merkel per circa 20 miliardi euro sono un’ulteriore prova di forza per l’amministrazione di Xi nei confronti delle ormai middle powers europee: a differenza di Londra, la Cina può permettersi di giocare su più tavoli contemporaneamente, senza la necessità di legarsi esclusivamente a partner preferenziali.
Nuove tensioni nel Mare della Cina Meridionale
Tuttavia la vera partita internazionale, di cruciale importanza, continua a giocarsi nel Mar della Cina Meridionale, anche se si tratta di quella meno seguita dai media italiani. La distanza geografica e la complessità giuridica della disputa sicuramente influiscono sull'interesse del pubblico italiano: d'altronde è difficile immaginare che i cavilli della UNCLOS, la convezione delle Nazioni Unite sul diretto del mare, possano ambire alla stessa popolarità del video sullo shisanwu. Tuttavia, parafrasando la propaganda di partito, se si vuole sapere “what China’s gonna do”, si suggerisce di prestare particolare attenzione a quel Mare della Cina Meridionale conteso con Taiwan, Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei. Nell'ultimo anno Pechino ha accelerato la costruzione e la militarizzazione di una serie di isolotti artificiali in quelli che erano originariamente “bassifondi emergenti a bassa marea”. Le costruzioni non sono illegali, ma una serie di dichiarazioni ufficiali cinesi a partire dal 2010 lascia intendere che Pechino ritiene di avere il diritto ad un’estensione di 12 miglia nautiche delle proprie acque territoriali a partire dalla linea di base delle isole artificiali. La UNCLOS, al contrario, stabilisce che la Cina ha esclusivamente diritto ad una safety zone di 500 metri circoscritta ai suoi bassifondi emergenti a bassa marea. L’operazione condotta dalla Marina Americana con la USS Lassen il 28 ottobre scorso ha avuto quindi il preciso obiettivo di penetrare all'interno dell’ipotetica zona economica speciale “proiettata” da uno degli isolotti artificiali cinesi, ma non oltre i 500 metri della safety zone, allo scopo di dimostrare che Pechino non ha intenzione di ricorrere alla forza per supportare le proprie pretese. In poche parole, Washington ha chiamato, con successo, il bluff di Pechino.
Complicando ulteriormente la posizione cinese, il giorno successivo all'operazione americana la Corte Permanente di Arbitrato a L’Aia ha stabilito di avere la necessaria competenza giuridica per esaminare le proteste del governo filippino sulle rivendicazioni territoriali cinesi nella zona. Nonostante Pechino si sia affrettata a dichiarare nullo qualsiasi futuro parere legale della Corte, nel caso di una decisione favorevole a Manila la pressione della comunità internazionale si farà sempre più difficile da sostenere, così come, allo stesso tempo, sarà difficile rispondere alle aspettative che sono state create tra i frangenti più nazionalisti dell’opinione pubblica domestica. Seppur indirettamente, l’incontro tenutosi a Seul il primo novembre tra i premier di Corea del Sud, Giappone e Cina (Park Geun-hye, Abe Shinzō e Li Keqiang) potrebbe essere interpretato come un segnale di un ammorbidimento della linea dura cinese in Asia-Pacifico. I tre premier hanno infatti comunicato la ripresa dei colloqui trilaterali naufragati nel 2012 dopo lo scoppio della crisi sino-giapponese sulle isole Senkaku-Diaoyu, ma un esame della stampa nazionale cinese nel giorno successivo all'incontro, caratterizzata da diversi editoriali dai toni marcatamente severi nei confronti di Tokyo, reputata come unico responsabile della crisi diplomatica, dimostra che le scorie delle dispute sollevate negli ultimi tre anni continuano a condizionare il clima dell’opinione pubblica cinese. Piuttosto che riguardare il tredicesimo piano quinquennale, la vera domanda da porsi sulla Cina del 2015 sembra quindi essere “cosa fare una volta perso un imponente chicken game di portata internazionale?”
* Dottorando presso il Dipartimento di Storia della University of Hong Kong
di Paolo Pombeni