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“What China’s gonna do?” Uno sguardo su propaganda e diplomazia cinese nelle ultime settimane
La Cina ha avuto ampio spazio sui mezzi di informazione e i social media italiani nelle ultime due settimane, soprattutto per via dell’ormai famoso video di propaganda riguardante il tredicesimo piano quinquennale - l’ormai noto shisanwu – caratterizzato dallo slogan “Wanna know what China’s gonna do? Best pay attention to the shisanwu” (“Se volete sapere cosa farà la Cina prestate attenzione al tredicesimo piano quinquennale”). La viralità del video certamente testimonia i progressi della cosiddetta “propaganda esterna” (duiwai xuanchuan) cinese nel rivolgersi all'opinione pubblica americana ed europea. D’altra parte però, essa rinforza i classici stereotipi occidentali su un Oriente irrimediabilmente “altro” e weird, paradossalmente proprio a causa della sua tanto sfavillante quanto straniante confezione “pop” corredata perfino dalla partecipazione di un simil-David Bowie in versione Aladdin Sane. Dai vuoti simulacri della pianificazione economica comunista al Gangnam Style il passo si è rivelato improvvisamente brevissimo e, pur al costo di inevitabili semplificazioni del suo pensiero, è difficile non citare una ben nota frase del filosofo canadese Marshall McLuhan: “the medium is the message”. L’obiettivo è far parlare del video in sé, e quindi del governo cinese, non informare l’opinione pubblica occidentale sul tredicesimo piano quinquennale di un paese abituato a truccare le statistiche delle proprie performance economiche. leggi tutto
Un salto di qualità
E’ difficile scrivere a meno di tre giorni da uno dei più terribili attacchi subiti da un Paese europeo dall’avvio della folle guerra lanciata dal fondamentalismo di matrice islamica nel triste giorno di fine estate del 2001.
È complicato provare a fare un minimo di chiarezza quando le indagini sono appena avviate, quando i servizi di vari Paesi parlano di altre minacce imminenti e quando non tutti i responsabili dell’immane carneficina di Parigi sono stati arrestati.
Eppure alcune considerazioni, seppur provvisorie, cominciano ad emergere e sembrano tutte legate a quel “salto di qualità” scelto come titolo.
Un “salto di qualità” lo hanno compiuto gli attentatori del 13 novembre. La modalità dell’attacco simultane, in luoghi differenti della città era stato, solo in parte, sperimentato a Londra nel 2005, ma non con questa intensità e questa capacità operativa dei gruppi di fuoco. I molteplici assalti di Parigi ricordano l’esempio extra-europeo degli attentati di Mumbai nel 2008, quando una decina di differenti gruppi di fuoco impegnò le forze di sicurezza indiane per 60 ore, provocando quasi duecento morti e circa 300 feriti. È più che legittimo, allora come oggi, parlare di guerra, prima di tutto perché di un’operazione di guerriglia in centro abitato si è trattato. Si può aggiungere poi un secondo, ancora più drammatico, “salto di qualità”: l’utilizzo di kamikaze. Da questo punto di vista le strade di Parigi si sono trasformate, si spera solo per una notte, in quelle che di solito ci appaiono così distanti, così altro da noi: Baghdad, Kabul o Tel Aviv. leggi tutto
Raqqa-Parigi-Raqqa
Le informazioni sulla dinamica degli attentati che hanno colpito Parigi ricostruiscono un’operazione tanto complessa nel suo coordinamento quanto semplice nella sua logica criminale: colpire tre spazi che contraddistinguono la socialità pubblica di Parigi, colpire tutte le persone che le frequentano, indipendentemente da religione, lingua o provenienza, perché “colpevoli” di partecipare ad una socialità che gli attentatori ritengono simbolizzi il nemico. Per l’organizzazione dello Stato islamico (Daesh, acronimo arabo) ora la Francia rappresenta un nemico, come altri Paesi europei.
Sebbene vi siano state delle incongruenze iniziali tra la rivendicazione di Daesh e altri sui canali “ufficiali” di comunicazione, non stupisce che sia l’organizzazione ad esserne il mandante. Dall’estate del 2015, infatti, Daesh è sotto pressione: quelle forze regionali ed internazionali che per anni hanno lasciato che l'organizzazione combattesse prima in Iraq e poi in Siria in funzione anti-iraniana non ne controllano più le azioni e le ambizioni; alcune decidono di "contenerla", e ne subiscono gli attacchi.
Nell’estate del 2015 Daesh ha conquistato Ramadi, il capoluogo della provincia irachena di al Anbar, fulcro e luogo originario dell’organizzazione; si volge poi ad ovest e conquista la città siriana di Tadmur, Palmira, fino a lambire la grande arteria che lega da nord a sud Damasco e Aleppo. In tutti questi casi, leggi tutto
Aung San Suu Kyi, l’ultima icona pop mette il regime alle corde
Con la vittoria alle urne, si realizza il sogno del premio Nobel per la Pace. Ma per il Myanmar ora viene il difficile
La vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni rappresenta una vera svolta per il Myanmar, o una concessione alle telecamere e ai media di tutto il mondo destinata a scomparire, una volta che l’attenzione sarà passata altrove? Sicuramente, quella di domenica è stata una giornata storica per il Paese asiatico e per la vita della famosa leader di opposizione. Nessuno quanto lei è riuscita a incarnare, negli ultimi 30 anni, il grido di libertà di un’intera popolazione, sottoposta a un regime tirannico, subdolo e liberticida.
Aung San Suu Kyi è riuscita a porre all’attenzione dell’intera comunità internazionale e dell’opinione pubblica mondiale la questione democratica in un poco conosciuto Paese asiatico, ben prima dell’avvento di internet, dei social network e del villaggio globale. Una leadership, quella della dissidente birmana, che nasce da aspre rinunce sulla vita personale – su tutte, la lontananza dal letto di morte del marito, per non rischiare l’estradizione forzata dal suo Paese – e da una proverbiale compostezza, ma da una titanica determinazione, tale da dilatarne in maniera esponenziale la esile fisicità.
Il suo sguardo fermo, che traspare da ogni manifesto o semplice fotografia, è la sintesi migliore della vita sacrificata alla causa di una intera nazione e alla lotta per la libertà. leggi tutto
La crisi dell’ONU a vent’anni dalla pace di Dayton
L’incapacità delle Nazioni Unite di intervenire nelle guerre interetniche, che hanno causato la dissoluzione della Jugoslavia, è stata definita dal diplomatico statunitense Richard Holbrooke, negoziatore degli accordi di pace in Bosnia, “il più grande fallimento della sicurezza collettiva occidentale dagli anni Trenta”. Altrettanto critico è stato lo stesso segretario dell'Organizzazione delle Nazioni Unite dell'epoca, il politico e diplomatico egiziano, Boutros Boutros-Ghali, secondo il quale l'intervento dei caschi blu nella ex Jugoslavia si è rivelato una vera e propria "missione frana", capace di condurre l'ONU "al disastro". In effetti, le numerose difficoltà del multilateralismo istituzionale nel gestire il conflitto armato esploso tra i popoli della ex Jugoslavia hanno fatto precipitare le Nazioni Unite in una crisi talmente profonda, da renderne l'Organizzazione, nata alla fine della seconda guerra mondiale per impedire il ripetersi delle tragedie che avevano devastato l’Europa per due volte nel giro di pochi decenni, del tutto marginale nella risoluzione delle principali crisi locali e internazionali degli ultimi vent’anni.
Il primo intervento dell'ONU nel caos jugoslavo è avvenuto nel settembre del 1991, con la decisione di decretare l'embargo generale sulle armi e sull'equipaggiamento militare contro l'intera Federazione Jugoslava. Si trattava di un'iniziativa presa nel pieno rispetto dell'imparzialità delle Nazioni Unite di fronte allo scontro in atto in Croazia, prima, e in Bosnia, poi, ma che di fatto favoriva l'esercito federale jugoslavo, leggi tutto
Le elezioni turche e il trionfo di Erdogan
I risultati delle elezioni del 1° in Turchia sono stati sorprendenti un po' per tutti. Nessuno si aspettava – né i sondaggisti, né forse gli stessi Erdoğan e Davutoğlu – una vittoria di tali proporzioni del Partito della giustizia e dello sviluppo: l'Akp ha infatti ottenuto il 49,5% dei consensi, recuperando 9 punti percentuali rispetto alla tornata del 7 giugno e portando 317 deputati all'Assemblea nazionale, che gli garantiscono di nuovo la maggioranza assoluta (il parlamento turco è monocamerale). Si chiude così, con una tripletta interrotta dall'esito interlocutorio di 5 mesi fa, il ciclo elettorale del 2014-2015, con in serie amministrative, presidenziali e politiche: si tornerà a votare solo nel 2019, questi 4 anni senza campagne elettorali potranno essere dedicati alle riforme istituzionali e strutturali di cui il Paese ha notoriamente bisogno.
L'Akp ha vinto – meglio: stravinto – grazie a una campagna elettorale intelligente. La sconfitta elettorale del 7 giugno è stata analizzata in modo corretto, sono state prese delle contromisure che si sono rivelate efficaci: ha rivisto delle candidature che non avevano funzionato, rimettendo in gioco alcuni big del partito; ha concentrato gli sforzi sul campo, tra comizi e visite porta a porta, in tutti quei collegi sfuggitigli per pochi voti (39 deputati, a giugno, erano stati assegnati con uno scarto di meno dello 0,2%); ha seguito leggi tutto
Le sfide dei negoziati sulla Siria.
Nella capitale austriaca, Vienna, si svolgono i nuovi incontri tra gli Stati che sono maggiormente coinvolti nella guerra di Siria. Negli scorsi anni, a Ginevra, si erano svolti incontri simili, con obiettivi simili: mettere fine al conflitti armato che da cinque anni dilania il Paese medio-orientale e che ha causato almeno 300mila morti, sette milioni di siriani costretti a lasciare la propria casa (uno su tre), e una serie di violenze individuali e collettive che hanno lacerato il tessuto sociale e politico del Paese. Se non irrimediabilmente, quantomeno in modo durevole.
Rispetto agli incontri passati, due sono le differenze: una presenza e un'assenza. La nuova presenza riguarda l'Iran, che dopo l'accordo sul nucleare dello scorso luglio, ritorna finalmente ad essere riconosciuto come interlocutore legittimo anche dai suoi rivali statunitensi e, obtorto collo, arabi. Del resto, chiunque abbia mai avuto minima consapevolezza dei rapporti di forza politici e militari in Siria sapeva che senza il coinvolgimento dell'Iran non si può giungere ad alcuna soluzione né militare né negoziata. In questo senso, la diplomazia italiana si era sempre espressa per l'inclusione di Teheran, dovendo però attendere l'esito della questione nucleare. Il coinvolgimento dell'Iran è espressione della situazione sul campo: l'iniziativa militare e diplomatica della Russia vuole accelerare leggi tutto
I 70 anni dell’ONU
70 anni e non sentirli? Non sembra il caso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che quest’oggi raggiunge tale veneranda età incurvata dal peso di problemi insoluti e mille preoccupazioni. Da quel 24 ottobre 1945 quando i 51 Stati fondatori decretarono l’entrata in vigore del suo Statuto, il mondo intero sembra cambiato: la fine del colonialismo con l’accesso all’indipendenza di numerosi Stati afro-asiatici, la divisione del mondo nei blocchi contrapposti della guerra fredda e la ricomposizione dello stesso con il passaggio all’era della “globalizzazione”, l’avvento della rivoluzione informatica, la creazione di organizzazioni regionali e l’impressionante sviluppo di diverse aree del “sud” del pianeta. E se l’Organizzazione è stata solo in parte artefice di questi cambiamenti, sicuramente nel tempo ha assurto il ruolo di attenta osservatrice, continuando a fungere da arbitro delle controversie, da incubatore e promotore di piani di sviluppo globale, e da codificatrice del diritto internazionale. Una funzione insostituibile, anche nell’immaginario dei suoi detrattori, come forum di dialogo globale e punto di riferimento perenne per i governi nella promozione della pace, delle libertà e della giustizia.
Tuttavia sono evidenti i limiti dell’ONU. Limiti determinati, piuttosto che da inefficienze gestionali, dalla scarsa propensione degli Stati membri, ad oggi 193, a cedere porzioni della propria sovranità all’Organizzazione multilaterale. leggi tutto
Il riscatto della Tunisia: Il Nobel per la pace al quartetto per il dialogo nazionale tunisino.
Sono trascorsi quasi cinque anni dal gesto del giovane Mohammed Tarek Bouazizi che, il 17 dicembre 2010, per reagire alla polizia che gli aveva confiscato un banchetto di frutta e verdura, unica sua fonte di sostentamento, si cospargeva di benzina e si dava fuoco. Per le ustioni riportate moriva pochi giorni dopo. Bouazizi, pur non avendo mai frequentato l’Università, venne presentato pubblicamente come un giovane laureato disoccupato, assurgendo così nell’immaginario collettivo a simbolo di una generazione. Con il suo atto dimostrativo ed estremo egli aveva voluto denunciare pubblicamente il sistema di potere corrotto e repressivo, ormai intollerabile per un paese dove circa il 50 per cento dei laureati era disoccupato e impossibilitato a “fuggire” verso un’Europa che aveva chiuso le frontiere. La corruzione endemica, il divario sempre più crescente tra ricchi e poveri, l’incapacità di controllare completamente la sfera pubblica aveva generato un deterioramento del regime stesso. Da quel giorno migliaia di giovani tunisini entrarono nella storia esprimendo con grande coraggio il loro dissenso, scendendo nelle strade e nelle piazze del paese.
Sono stati anni complessi dominati da un processo di transizione difficile in cui non sono mancati momenti di profonda crisi. Si è passati attraverso le forti tensioni che hanno animato i lavori della commissione costituente, gli attentati politici del 2013 in cui hanno perso la vita Choukri Belaid e Mohammed Brahmi. leggi tutto
Migrazioni, istituzioni e diritto: andare oltre i confini
Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato sull’edizione on line de Il Sole 24 Ore, Martin Wolf ha scritto che gli «ideali cosmopoliti» che animano chi guarda con favore alle grandi migrazioni «sono in contrasto con il fatto che la nostra vita politica è organizzata in giurisdizioni territoriali sovrane». L’osservazione è utile; consente di capire qual è il nodo strutturale che offre una perdurante legittimazione a chi, sia pur spinto dalle più diverse, e talvolta urticanti, motivazioni, ritiene doveroso che gli Stati erigano barriere ad hoc e diano comunque la piena precedenza ai cittadini.
Non si tratta di dare “sfogo” a presunzioni oggi poco sostenibili, come lo sono, ad esempio, quelle di chi ritiene che vi possa essere una comunità soltanto in presenza di un’omogeneità di caratteri valoriali o etnici. Il punto è quello che aveva evidenziato Proudhon già nella seconda metà del XIX Secolo, all’interno del celebre saggio sulla capacità politica della classe operaia.
In quel caso era in gioco l’opportunità che Francia e Inghilterra stipulassero un trattato commerciale di libero scambio. Proudhon notava che – pur non essendoci ragioni di principio per essere contrari alla libertà dei commerci – sarebbe stato senz’altro allentato il regime doganale e, con esso, l’implicito ma decisivo legame di garanzia che permetteva ai ceti produttivi di riconoscersi reciprocamente e di dare con ciò fiducia e stabilità alle istituzioni nazionali. leggi tutto