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11 settembre 2024
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Argomenti

Pirelli, Italia terra di oche molto attraenti

Gianpaolo Rossini - 24.03.2015

E’ ormai certo. Con una manciata di miliardi di euro il colosso chimico cinese Chem  si porterà a casa il quinto produttore di pneumatici del mondo, l’italiana Pirelli, all’avanguardia tecnologica, eccellenza della ricerca e sviluppo. Pirelli è una delle pochissime grandi imprese italiane rimasteci. Ha costruito la nostra storia tecnologica ed industriale. La sua vendita è un duro colpo che peserà sullo sviluppo e soprattutto sulle opportunità di lavoro di tanti giovani che spingiamo ad investire in istruzione, in ricerca e acquisizione di capacità scientifiche avanzate. Dopo la svendita delle Ansaldo ai giapponesi  da parte della azienda pubblica Finmeccanica, adesso si sale di livello. Se ne va un pezzo fondamentale della tecnologia italiana. Un’azienda sana e ricca. E non c’è la scusa di sinergie, come si poteva a torto accampare per le Ansaldo acquisite da Hitachi. Non ci sono di mezzo neppure “sane” forze di mercato. Solo qualche sprovveduto lo può credere o affermare. Chi compra è un colosso chimico senza un grande pedigree tecnologico. E’ impresa di stato, cresciuta in un capitalismo corrotto, disciplinato da una capillare presenza pubblica in un paese che non conosce democrazia né politica né economica anche se cresce a razzo. Pirelli è invece un’impresa presente nei settori più sofisticati degli pneumatici e nei mercati più esigenti  con una rete produttiva fortemente globalizzata e diversificata. leggi tutto

L'Italia e la Tunisia: vecchi legami e nuove convergenze

Massimo Bucarelli * - 24.03.2015

Il 12 maggio 1881 veniva firmato a Tunisi presso il Castello del Bardo – sede all'epoca del Bey di Tunisi e oggi del Museo Nazionale, teatro pochi giorni fa dell'ennesima strage rivendicata dall'Isis – il trattato istitutivo del protettorato francese sul paese nordafricano.

Il Trattato del Bardo non solo dava inizio al dominio coloniale francese in Tunisia, ma poneva bruscamente fine alle aspirazioni espansioniste italiane su quel tratto di territorio maghrebino, costringendo la classe dirigente del Regno d'Italia a indirizzare altrove, nella vicina Libia e nel Corno d'Africa, i propositi di ingrandimento coloniale. Vari motivi avevano spinto la politica italiana a progettare la possibile colonizzazione della costa e dell'entroterra tunisino: l'estrema prossimità geografica alle isole e alle coste siciliane; considerazioni d'ordine strategico, legate alla necessità di garantire un certo equilibrio nel Mediterraneo, nel tentativo di contenere la presenza francese e britannica; l'esistenza, infine, di una consistente comunità di italiani, che nei decenni precedenti avevano attraversato il Canale di Sicilia in cerca di miglior fortuna, percorrendo il tragitto inverso rispetto a quello compiuto dagli attuali migranti africani disposti a rischiare la propria vita pur di giungere sulle coste italiane.

Alla fine del XIX secolo, tra le comunità europee in territorio tunisino, quella italiana leggi tutto

L’attacco alla Tunisia

Leila El Houssi * - 21.03.2015

In questi giorni la Tunisia è prepotentemente rientrata sotto i riflettori internazionali a causa del vile attacco terroristico sferrato nei confronti di civili tunisini e stranieri. Il sanguinoso attacco al Museo del Bardo, simbolo di quella transculturalità che da sempre appartiene allo stato nordafricano, rivela il tentativo di destabilizzare il paese che più di altri rappresenta un’eccezione dell’area.

Definita come laboratorio politico, la Tunisia ha dimostrato, nonostante la complessità del processo di costruzione della democrazia intrapreso, di continuare ad essere quell’esempio di sintesi tra Islam e laicità che l’ha storicamente contraddistinta. Un’eccezionalità che trae le sue origini dal vasto consenso sociale della rivolta del 2011, dal pragmatismo di Ennadha che ha saputo ottenere fiducia a livello internazionale attraverso alcune concessioni e compromessi, come, ad esempio, non aver inserito la Shar’ia nella Costituzione emanata nel gennaio 2014, e dalla presenza di un solido fronte laico.

L’attacco al museo del Bardo -la cui paternità sembrerebbe attribuibile a Daesh- rivela la volontà di voler far naufragare la delicata transizione del paese attraverso una strategia ben definita.

Com’è noto il paese è soggetto ad una fragilità economica che ha indubbiamente provocato un corto circuito nella società e in particolar modo leggi tutto

Il negoziato, forse

Massimiliano Trentin * - 19.03.2015

A quattro anni e quattro giorni dall’inizio “ufficiale” delle rivolte e poi della guerra in Siria, il Segretario di stato USA, John Kerry, ha dichiarato alla CBS che “alla fine dobbiamo negoziare” con il Presidente siriano Bashar al Assad. Washington torna dunque sui suoi passi? Gli al Assad sono dunque riusciti a sopravvivere, per l’ennesima volta? E’ troppo presto per dirlo, anche perché alle dichiarazioni, spesso non seguono i fatti e le forze che si opporranno sono molte e ben determinate. Tuttavia, la notizia fa piacere a chi ha sempre sostenuto, come il sottoscritto, come fin dall’inizio non vi sia mai stata altra alternativa se non il negoziato politico tra tutte le forze in campo, pena la distruzione dell’intero Paese.

Per comprendere il significato della dichiarazione di John Kerry conviene collocarla nel suo tempo e nel suo spazio. Siamo appena entrati nel quinto anno di guerra in Siria. Le manifestazioni e poi rivolte a carattere non-violento, democratico e permeate da un forte senso civico si sono trasformate in un conflitto armato a seguito della repressione del regime, sempre più autoreferenziale e basato sui servizi di sicurezza più che strutture di rappresentanza e mobilitazione politica. L’ingerenza di Paesi e forze straniere ha trasformato un conflitto interno in una guerra regionale in cui si scontrano per procura i Paesi arabi del Golfo, la Turchia e i loro alleati occidentali contro il cosiddetto Asse della resistenza formato da Iran, Hizb’allah libanese e Siria, appunto.  leggi tutto

Lo Sri Lanka verso la riconciliazione nazionale?

Miriam Rossi * - 14.03.2015

Come tentare di assicurare la riconciliazione nazionale in un Paese dopo anni di violenza e guerra civile? Negli anni Novanta le sperimentazioni in tal senso hanno affiancato il sistema dei Tribunali internazionali ad hoc, istituiti nei casi della ex Jugoslavia e della Sierra Leone, ereditando, se così si può dire, il modello di Norimberga e anticipando la creazione della Corte Penale Internazionale, a inediti esperimenti di Commissioni nazionali per la verità e la riconciliazione, consacrati dal banco di prova del Sudafrica post-apartheid. Una cosa è certa: fare i conti col passato diventa una necessità a cui non ci si può sottrarre all’infinito. I fantasmi di un genocidio vecchio un secolo, quale quello armeno, riecheggiano ancora oggi in Europa, così come l’assenza di un processo condiviso di ricostruzione della storia e della giustizia nell’Italia repubblicana, nata dalle ceneri del fascismo e della seconda guerra mondiale, incide tuttora profondamente sulla cultura e sulla politica del Paese.

È per questa ragione che genera perplessità l’assenza di un qualsivoglia sistema di giustizia e di rielaborazione di quel conflitto, seppur silenzioso e a bassa intensità, che si è combattuto per venticinque anni fino al 2009 nella regione di Jaffna, situata nella parte settentrionale dello Sri Lanka, tra la popolazione cingalese e quella tamil. leggi tutto

Notizie da vedere, informazione da cercare

Patrizia Fariselli * - 12.03.2015

Quando nel 2011 in Libia veniva abbattuto il regime di Gheddafi le immagini che arrivavano sui nostri teleschermi erano sconcertanti per chi era ancora abituato ad associare la guerra a grandi eserciti, grandi mezzi, grandi manovre. Ricordo un commento di mia madre, che osservava esterrefatta l’erratico andirivieni di qualche pickup scassato lungo strade costiere deserte su uno fondo di distruzione fumante, a bordo ragazzi armati senza divisa che salutavano le cineprese con l’allegria dell’incoscienza: “non avevo mai visto andare a fare la guerra in macchina”. Non è che non aveva mai visto immagini di guerriglia, e anche nella sua esperienza personale la guerra era stata sia grappoli di bombe sganciate dagli aeroplani sui grandi obiettivi, sia attentati e rappresaglie nel microcosmo locale. Intendeva: ‘come in gita’. Era lo stessa incomprensione che provavo anch’io, e che la mia laurea in scienze politiche non serviva a colmare, anzi faceva tacere.

Si ripete questa sensazione di incomprensione, che è diversa da quella di inaccettabilità morale, quando ci passano davanti agli occhi le immagini dei barconi che affondano sui nostri schermi, quando vediamo morire affogate quote di umanità di cui ignoravamo l’esistenza che perdono la vita e la dignità in diretta mentre stiamo cenando. Qualcuno, al riparo da qualche parte, li sta riprendendo per noi. leggi tutto

Egitto, patria del legislativo fantasma

Azzurra Meringolo * - 10.03.2015

Da due anni privo di Parlamento, l’Egitto rischia di restare senza un potere legislativo ancora per un po’. Le elezioni previste per marzo che dovevano eleggere il Parlamento slitteranno a data da destinarsi. A imporre questa sterzata è stata la Corte Costituzionale egiziana che il 1 marzo ha bocciato il regolamento elettorale da utilizzare per il terzo e ultimo passaggio della road map presentata dai militari dopo la deposizione, nel luglio 2013, del presidente islamsita Mohammed Morsi.

 

Quando lo scorso anno la legge elettorale era stata approvata per decreto dopo la firma di Adly Al-Mansour -il presidente ad interim che ha traghettato l’Egitto nelle mani dell’attuale presidente Abdel Fattah Al-Sisi- numerose voci vi si erano opposte, puntando il dito soprattutto contro il sistema di ditribuzione dei seggi. Queste critiche erano convogliate in tre ricorsi presentati davanti alla Corte Costituzionale.  Il primo metteva in dubbio la costituzionalità della legge sui diritti politici, il secondo quella del regolamento delle elezioni parlamentari e l’ultimo - l’unico acettato dalla Corte – si concentrava sulla legge di divisione delle circoscrizioni. Così come è scritta, la norma bocciata non garantirebbe infatti agli elettori delle diverse circoscrizioni un’equa rappresentazione. È questo l’aspetto che ha messo la legge in contraddizione con l’articolo 102 della Costituzione che protegge invece questo basilare principio. leggi tutto

Una Via della Seta islamista? La Cina, gli uiguri e lo Stato Islamico

Aurelio Insisa * - 07.03.2015

Una nuova, inquietante “via della seta” è andata emergendo negli ultimi mesi, collegando idealmente l’Asia Orientale al Medio Oriente. Su questo percorso, uomini e idee viaggiano da Raqqa, la città siriana diventata la “capitale” dello Stato Islamico, per arrivare fino a Pechino, sostando inevitabilmente a Urumqi, la capitale della regione cinese dello Xinjiang.

Lo Xinjiang, “la nuova frontiera” in mandarino, è la patria degli uiguri, un gruppo etnico turcofono di circa 10 milioni di persone di religione musulmana che costituisce la quarta minoranza etnica in Cina. Rientrata all'interno dell’orbita politica di Pechino nel 1949, la regione, come nel caso del Tibet, ha subito negli ultimi decenni un complesso processo di integrazione coatta con il resto della Cina. Lo sviluppo economico, impetuoso negli  anni più recenti, è infatti andato di pari passo con la repressione dell’identità nazionale del popolo uiguro e con un contestato programma di “sommersione etnica” tramite l’immigrazione di cinesi di etnia Han.

Le tensioni etniche e politiche della regione sono esplose definitivamente soltanto nella seconda metà dello scorso decennio, culminando nei disordini avvenuti tra il marzo 2008 ed il luglio 2009. La dura repressione condotta dall'imponente apparato di sicurezza cinese ha impedito il ripetersi di rivolte di quella portata negli ultimi anni, ma senza alcun reale sbocco nella vita politica del paese, il dissenso uiguro si è sempre più incanalato in sparuti quanto letali atti di terrorismo, generalmente imputati ai separatisti del Movimento leggi tutto

Vedere meno o vedere meglio? La propaganda dell’Isis e i crucci deontologici dell’informazione

Maurizio Cau - 05.03.2015

La decisione della redazione di Rai News di interrompere la riproduzione dei video propagandistici di Isis, seguita a distanza di qualche ora da un analogo appello dell’Ordine dei Giornalisti e del Consiglio Nazionale degli Utenti, ha riproposto il tema dei limiti imposti all’informazione nell’uso delle immagini. Da un lato si rivendica la necessità da parte dei media di documentare, anche nei suoi risvolti più brutali, gli eventi che scuotono il panorama internazionale; dall’altro – è il caso della testata giornalistica diretta da Monica Maggioni - si sottolinea il pericolo che trasmettendo le immagini della barbarie alimentata dall’esercito jihadista  ci si renda strumento della loro azione di propaganda.

Che fare, dunque? Mostrare tutto per denunciare il volto dell’inumano e, così, fornire alla coscienza dei cittadini e all’opinione pubblica internazionale gli strumenti per leggere la realtà circostante, o contrastare il nemmeno troppo velato valore propagandistico della campagna mediatica del Califfato per non amplificarne la portata? La risposta non è scontata, né univoca.

Un secolo di riflessione sui fondamenti della cultura fotografica non è del resto riuscito a risolvere la questione delle fragilità e delle contraddizioni legate al valore testimoniale delle immagini, siano esse prodotte dai fotografi delle agenzie di stampa o dalle mani dei protagonisti delle vicende di cui è resa testimonianza visiva. leggi tutto

La fine “della storia” e la fine di “una storia”

Michele Marchi - 24.02.2015

È sotto gli occhi di tutti che le crisi aperte in Ucraina, Grecia e Libia sono legate ed interconnesse. Si è riflettuto molto, in queste settimane, sui successi diplomatici della Germania di Angela Merkel, volata a Washington per convincere Obama a non avventurarsi nell’invio di armi in Ucraina, per poi correre a rappresentare la diplomazia europea al tavolo negoziale di Minsk e infine pronta a far pesare il prestigio acquisito a Minsk e a Washington nel braccio di ferro con Atene.

Allo stesso modo si sono sottolineate le tante divisioni che i tre focolai di crisi evidenziano all’interno del continente europeo. Il caso greco (euro) e quello libico (immigrazione e guerra civile) confermerebbero una sempre più profonda divaricazione tra un’Europa del nord ed un’Europa del sud. Virtuosa economicamente e sufficientemente lontana dalle tensioni provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo quella del nord. Cronicamente arretrata ed esposta ai marosi delle crisi successive alle primavere arabe quella del sud. Sempre seguendo questo ragionamento la  crisi ucraina accentuerebbe un’altra frattura, quella sull’asse est/ovest, o per dirla con un’altra terminologia tra “nuova Europa” e “vecchia Europa”, con la prima timorosa dei tentativi egemonici di Putin (intrisi di zarismo e post-stalinismo) e la seconda ancora disposta a farsi cullare nell’illusione di una improbabile “fine della storia”.

Ma è proprio l’attenzione sulla dimensione “storica” che in questi giorni è forse mancata. leggi tutto