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12 febbraio 2025
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Argomenti

Da Losanna ad Aden: l’impatto immediato dell’accordo sul nucleare tra Iran e Stati Uniti

Massimiliano Trentin * - 14.04.2015

L’accordo siglato tra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania, il 2 Aprile 2015 costituisce un passaggio molto importante per la politica internazionale, tanto che le conseguenze non si sono fatte attendere nella forma di un’escalation della tensione in Medio Oriente. Difficilmente poteva essere altrimenti, visto la posta in gioco. A poco meno di una settimana dall’annuncio, le autorità iraniane rivendicano la fine immediata del regime di sanzioni economiche imposte anzitutto da USA e Unione Europea, pena la risoluzione dell’accordo, e attaccano duramente l’intervento militare saudita in Yemen in corso dal 25 marzo. Per bocca del Segretario di Stato USA, John Kerry, il 9 aprile Washington attacca Teheran per il suo ruolo “destabilizzante” in Medio Oriente e annuncia che gli Stati Uniti sosterranno i Paesi oggetto delle mire iraniane.

Da un alto, dunque, viene siglato un accordo-quadro il cui valore politico è il pieno rientro dell’Iran nel consesso della politica internazionale; dall’altro lato, si continua ad attaccare verbalmente l’Iran per le sue supposte mire espansionistiche nella regione e Teheran risponde accusando gli alleati di Washington e Bruxelles. Quello che sembra essere un paradosso rappresenta bene, invece, la natura dell’accordo concluso a Losanna. Questo è, infatti, un accordo che riguarda anzitutto i Paesi occidentali e la Repubblica islamica d’Iran: un accordo che apre alla possibilità di gestire le relazioni bilaterali secondo leggi tutto

Le fondamenta per una nuova Asia? Il caso della Asia Infrastructure International Bank

Aurelio Insisa * - 11.04.2015

È passato ormai quasi un decennio dall’inizio della charm offensive cinese che prese il via durante il secondo mandato dell’ex Presidente Hu Jintao, durante la quale la Repubblica Popolare aumentò esponenzialmente il proprio peso politico e culturale del paese all’estero. Fu l’inizio di una fascinazione, in parte tutt’ora in corso, di accademici e giornalisti europei e nordamericani per il nuovo soft power di Pechino. Il termine, coniato dal politologo americano Joseph Nye nei primi anni Novanta, indica la capacità di uno stato di esercitare il proprio potere politico principalmente tramite mezzi non coercitivi, in particolare tramite l’influenza culturale, il prestigio delle proprie istituzioni sociali e politiche, ed il controllo indiretto di istituzioni multilaterali.

Prendendo a pietra di paragone il soft power degli Stati Uniti, si può notare come al di là della capillarità dei prodotti della sua industria culturale, e della capacità delle università e delle sue aziende di attirare i migliori talenti mondali, Washington proietta il proprio potere a livello internazionale soprattutto tramite una serie istituzioni multilaterali, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o l’Organizzazione Mondiale per il Commercio nelle quali ha un enorme potere decisionale.

Da questo punto di vista si può capire perché il soft power cinese sia al momento sostanzialmente monco: Pechino è sì diventata nell’ultimo decennio un attore fondamentale nel panorama politico ed economico globale, ma continua comunque ad operare all’interno di istituzioni di matrice occidentale. L’ultimo anno però sembra aver aperto una nuova fase per la diplomazia economica cinese. leggi tutto

In Nigeria Buhari batte il presidente uscente: è la fine di Boko Haram?

Miriam Rossi * - 07.04.2015

Primo aprile 2015: Muhammadu Buhari è ufficialmente il nuovo presidente della Nigeria. Alla notizia qualche attento analista politico avrà senz’altro pensato a un pesce d’aprile. Che il 72nne ex generale Buhari abbia battuto per circa 2 milioni e mezzo di voti il presidente uscente Goodluck Jonathan appare davvero surreale. La ragione? È la prima volta dal 1960, ossia da quando la Nigeria ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna, che l’opposizione sconfigge il partito al potere nelle urne, e che un avvicendamento ha luogo senza un colpo di Stato. Lo stesso neo-presidente non è estraneo a precedenti inquietanti quanto a questa tipicità istituzionale della Nigeria che, ad oggi, ha “regalato” ai nigeriani ben 28 anni di regime militare (dal 1966 al 1979 e dal 1983 al 1998). Nel 1966 Buhari contribuì attivamente al colpo di Stato del colonnello Murtala Muhammed contro il regime di Aguiyi Ironsi e, a distanza di due decenni, presiedette il Consiglio Militare Supremo tra il 1983 e il 1985, giunta insediatasi al governo non di certo grazie a libere elezioni. Un’esperienza da lui difesa con un passaggio logico lapidario quanto disarmante: “Dipende dal popolo: se scegliesse i leader giusti non ci sarebbe bisogno di un regime militare”. Difficile d’altra parte dargli torto, dato che dal 1999 Buhari si è sempre candidato alle elezioni, nel 2003, 2007 e 2009, perdendo tutte e tre le volte: leggi tutto

Creatività e dissenso nel XXI secolo. L’arte violata della ribellione.

Carola Cerami * - 02.04.2015

Nel 1951 Albert Camus nel saggio “L’uomo in rivolta” scriveva: “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di essa”.

L’11 settembre del 2014 usciva negli schermi italiani, “Everyday rebellion” dei fratelli iraniani Arman e Aras Riahi: un documentario che celebra il potere e la ricchezza delle forme creative di protesta non violenta e di disobbedienza civile. I fratelli Riahi ci conducono tra gli indignados di Madrid; le Femen di Kiev, Parigi e Stoccolma; gli attivisti di Occupy Wall Street a New York; i giovani del movimento verde a Teheran; le prime manifestazioni di dissenso dei siriani contro il regime di Bashar Al-Assad; gli egiziani di Piazza Tahrir; le proteste di Gezi Park in Turchia e altri ancora. Il filo conduttore fra movimenti di protesta così eterogenei è la creatività, l’espressione artistica del dissenso, la libera rappresentazione estetica e visiva della ribellione. Essa può esprimersi in tecniche creative non violente, dalla marea di palline colorate fatte scivolare lungo le strade di Damasco, alle pentole rumorose di Istanbul, ai corpi nudi di Kiev, o più di recente, agli ombrelli colorati di Hong Kong, ma in senso più ampio queste manifestazioni di dissenso coinvolgono l’espressione artistica e creativa dell’essere umano. leggi tutto

Pirelli, Italia terra di oche molto attraenti

Gianpaolo Rossini - 24.03.2015

E’ ormai certo. Con una manciata di miliardi di euro il colosso chimico cinese Chem  si porterà a casa il quinto produttore di pneumatici del mondo, l’italiana Pirelli, all’avanguardia tecnologica, eccellenza della ricerca e sviluppo. Pirelli è una delle pochissime grandi imprese italiane rimasteci. Ha costruito la nostra storia tecnologica ed industriale. La sua vendita è un duro colpo che peserà sullo sviluppo e soprattutto sulle opportunità di lavoro di tanti giovani che spingiamo ad investire in istruzione, in ricerca e acquisizione di capacità scientifiche avanzate. Dopo la svendita delle Ansaldo ai giapponesi  da parte della azienda pubblica Finmeccanica, adesso si sale di livello. Se ne va un pezzo fondamentale della tecnologia italiana. Un’azienda sana e ricca. E non c’è la scusa di sinergie, come si poteva a torto accampare per le Ansaldo acquisite da Hitachi. Non ci sono di mezzo neppure “sane” forze di mercato. Solo qualche sprovveduto lo può credere o affermare. Chi compra è un colosso chimico senza un grande pedigree tecnologico. E’ impresa di stato, cresciuta in un capitalismo corrotto, disciplinato da una capillare presenza pubblica in un paese che non conosce democrazia né politica né economica anche se cresce a razzo. Pirelli è invece un’impresa presente nei settori più sofisticati degli pneumatici e nei mercati più esigenti  con una rete produttiva fortemente globalizzata e diversificata. leggi tutto

L'Italia e la Tunisia: vecchi legami e nuove convergenze

Massimo Bucarelli * - 24.03.2015

Il 12 maggio 1881 veniva firmato a Tunisi presso il Castello del Bardo – sede all'epoca del Bey di Tunisi e oggi del Museo Nazionale, teatro pochi giorni fa dell'ennesima strage rivendicata dall'Isis – il trattato istitutivo del protettorato francese sul paese nordafricano.

Il Trattato del Bardo non solo dava inizio al dominio coloniale francese in Tunisia, ma poneva bruscamente fine alle aspirazioni espansioniste italiane su quel tratto di territorio maghrebino, costringendo la classe dirigente del Regno d'Italia a indirizzare altrove, nella vicina Libia e nel Corno d'Africa, i propositi di ingrandimento coloniale. Vari motivi avevano spinto la politica italiana a progettare la possibile colonizzazione della costa e dell'entroterra tunisino: l'estrema prossimità geografica alle isole e alle coste siciliane; considerazioni d'ordine strategico, legate alla necessità di garantire un certo equilibrio nel Mediterraneo, nel tentativo di contenere la presenza francese e britannica; l'esistenza, infine, di una consistente comunità di italiani, che nei decenni precedenti avevano attraversato il Canale di Sicilia in cerca di miglior fortuna, percorrendo il tragitto inverso rispetto a quello compiuto dagli attuali migranti africani disposti a rischiare la propria vita pur di giungere sulle coste italiane.

Alla fine del XIX secolo, tra le comunità europee in territorio tunisino, quella italiana leggi tutto

L’attacco alla Tunisia

Leila El Houssi * - 21.03.2015

In questi giorni la Tunisia è prepotentemente rientrata sotto i riflettori internazionali a causa del vile attacco terroristico sferrato nei confronti di civili tunisini e stranieri. Il sanguinoso attacco al Museo del Bardo, simbolo di quella transculturalità che da sempre appartiene allo stato nordafricano, rivela il tentativo di destabilizzare il paese che più di altri rappresenta un’eccezione dell’area.

Definita come laboratorio politico, la Tunisia ha dimostrato, nonostante la complessità del processo di costruzione della democrazia intrapreso, di continuare ad essere quell’esempio di sintesi tra Islam e laicità che l’ha storicamente contraddistinta. Un’eccezionalità che trae le sue origini dal vasto consenso sociale della rivolta del 2011, dal pragmatismo di Ennadha che ha saputo ottenere fiducia a livello internazionale attraverso alcune concessioni e compromessi, come, ad esempio, non aver inserito la Shar’ia nella Costituzione emanata nel gennaio 2014, e dalla presenza di un solido fronte laico.

L’attacco al museo del Bardo -la cui paternità sembrerebbe attribuibile a Daesh- rivela la volontà di voler far naufragare la delicata transizione del paese attraverso una strategia ben definita.

Com’è noto il paese è soggetto ad una fragilità economica che ha indubbiamente provocato un corto circuito nella società e in particolar modo leggi tutto

Il negoziato, forse

Massimiliano Trentin * - 19.03.2015

A quattro anni e quattro giorni dall’inizio “ufficiale” delle rivolte e poi della guerra in Siria, il Segretario di stato USA, John Kerry, ha dichiarato alla CBS che “alla fine dobbiamo negoziare” con il Presidente siriano Bashar al Assad. Washington torna dunque sui suoi passi? Gli al Assad sono dunque riusciti a sopravvivere, per l’ennesima volta? E’ troppo presto per dirlo, anche perché alle dichiarazioni, spesso non seguono i fatti e le forze che si opporranno sono molte e ben determinate. Tuttavia, la notizia fa piacere a chi ha sempre sostenuto, come il sottoscritto, come fin dall’inizio non vi sia mai stata altra alternativa se non il negoziato politico tra tutte le forze in campo, pena la distruzione dell’intero Paese.

Per comprendere il significato della dichiarazione di John Kerry conviene collocarla nel suo tempo e nel suo spazio. Siamo appena entrati nel quinto anno di guerra in Siria. Le manifestazioni e poi rivolte a carattere non-violento, democratico e permeate da un forte senso civico si sono trasformate in un conflitto armato a seguito della repressione del regime, sempre più autoreferenziale e basato sui servizi di sicurezza più che strutture di rappresentanza e mobilitazione politica. L’ingerenza di Paesi e forze straniere ha trasformato un conflitto interno in una guerra regionale in cui si scontrano per procura i Paesi arabi del Golfo, la Turchia e i loro alleati occidentali contro il cosiddetto Asse della resistenza formato da Iran, Hizb’allah libanese e Siria, appunto.  leggi tutto

Lo Sri Lanka verso la riconciliazione nazionale?

Miriam Rossi * - 14.03.2015

Come tentare di assicurare la riconciliazione nazionale in un Paese dopo anni di violenza e guerra civile? Negli anni Novanta le sperimentazioni in tal senso hanno affiancato il sistema dei Tribunali internazionali ad hoc, istituiti nei casi della ex Jugoslavia e della Sierra Leone, ereditando, se così si può dire, il modello di Norimberga e anticipando la creazione della Corte Penale Internazionale, a inediti esperimenti di Commissioni nazionali per la verità e la riconciliazione, consacrati dal banco di prova del Sudafrica post-apartheid. Una cosa è certa: fare i conti col passato diventa una necessità a cui non ci si può sottrarre all’infinito. I fantasmi di un genocidio vecchio un secolo, quale quello armeno, riecheggiano ancora oggi in Europa, così come l’assenza di un processo condiviso di ricostruzione della storia e della giustizia nell’Italia repubblicana, nata dalle ceneri del fascismo e della seconda guerra mondiale, incide tuttora profondamente sulla cultura e sulla politica del Paese.

È per questa ragione che genera perplessità l’assenza di un qualsivoglia sistema di giustizia e di rielaborazione di quel conflitto, seppur silenzioso e a bassa intensità, che si è combattuto per venticinque anni fino al 2009 nella regione di Jaffna, situata nella parte settentrionale dello Sri Lanka, tra la popolazione cingalese e quella tamil. leggi tutto

Notizie da vedere, informazione da cercare

Patrizia Fariselli * - 12.03.2015

Quando nel 2011 in Libia veniva abbattuto il regime di Gheddafi le immagini che arrivavano sui nostri teleschermi erano sconcertanti per chi era ancora abituato ad associare la guerra a grandi eserciti, grandi mezzi, grandi manovre. Ricordo un commento di mia madre, che osservava esterrefatta l’erratico andirivieni di qualche pickup scassato lungo strade costiere deserte su uno fondo di distruzione fumante, a bordo ragazzi armati senza divisa che salutavano le cineprese con l’allegria dell’incoscienza: “non avevo mai visto andare a fare la guerra in macchina”. Non è che non aveva mai visto immagini di guerriglia, e anche nella sua esperienza personale la guerra era stata sia grappoli di bombe sganciate dagli aeroplani sui grandi obiettivi, sia attentati e rappresaglie nel microcosmo locale. Intendeva: ‘come in gita’. Era lo stessa incomprensione che provavo anch’io, e che la mia laurea in scienze politiche non serviva a colmare, anzi faceva tacere.

Si ripete questa sensazione di incomprensione, che è diversa da quella di inaccettabilità morale, quando ci passano davanti agli occhi le immagini dei barconi che affondano sui nostri schermi, quando vediamo morire affogate quote di umanità di cui ignoravamo l’esistenza che perdono la vita e la dignità in diretta mentre stiamo cenando. Qualcuno, al riparo da qualche parte, li sta riprendendo per noi. leggi tutto