Ultimo Aggiornamento:
21 giugno 2025
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L’eredità di Gezi Park e il riscatto delle minoranze: l’altro volto della Turchia

Carola Cerami * - 27.06.2015

“Con questo voto hanno vinto coloro che stanno dalla parte della giustizia, della libertà, della pace e dell’indipendenza. Curdi, armeni, turchi, sunniti, cristiani, hanno vinto tutti coloro che si sono sentiti esclusi. Hanno vinto gli emarginati, i disoccupati, e tutti coloro che hanno dovuto soffrire per vivere. E’ anche una vittoria per le donne che hanno sostenuto il nostro partito. Oggi ha vinto la democrazia. Una nuova pagina si sta scrivendo nella Storia del nostro Paese”.

Con queste parole il giovane e carismatico leader del nuovo Partito Democratico dei Popoli (HPD), Selahattin Demirtaş, festeggia il successo del suo partito alle elezioni politiche del 7 giugno. L’HPD entra così in parlamento per la prima volta con il 13% dei voti, superando la soglia di sbarramento (10%) e guadagnando 80 seggi. La vera novità è che il Partito Democratico dei Popoli è un partito con una forte matrice curda, sebbene esso si presenti come un partito di sinistra turco, pluralista e aperto a tutte le minoranze etniche, religiose e civili. Demirtaş, 42 anni, avvocato per i diritti umani, fondatore di Amnesty International a Diyarbakir (città curda a sud-est della Turchia, diventata il simbolo della vittoria dell’HPD), ecologista, impegnato per i diritti civili degli omosessuali, ha saputo conciliare le esigenze del popolo curdo che chiede parità culturale, uguale cittadinanza e poteri di autogoverno con la necessità di mantenere salde le credenziali di un partito di cambiamento nazionale. leggi tutto

Il Sultano è in difficoltà

Massimiliano Trentin * - 16.06.2015

Le elezioni parlamentari del 7 giugno in Turchia hanno determinato due risultati principali: da un lato, la vittoria del Partito della democrazia del popolo (HDP), di sinistra e filo-curdo; dall’altro lato, e conseguente, la perdita della maggioranza parlamentare da parte del Partito della Giustizia e della Libertà (AKP) del Presidente della Repubblica, Erdoğan.

La maggior parte delle analisi post-voto confermano come oltra a quelli di sinistra, l’HDP sia stato in grado di attrarre su di sé i voti dei conservatori e devoti musulmani curdi, che invece avevano sostenuto il Partito islamista di Erdoğan nelle precedenti tre tornate elettorali, attribuendogli la maggioranza assoluta dal 2002. Al di là dei flussi elettorali, il dato politico è sicuramente quello più interessante: in primo luogo, il Presidente Erdoğan non ha convinto i propri elettori della bontà dei suoi progetti di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, tagliata a propria misura, favorendo invece la pluralità delle forze politiche presenti nelle istituzioni, anche se questo comporta tempi lunghi per i negoziati e i compromessi necessari alla formazione di un nuovo governo. La Turchia sconterà forse minore “efficienza” e rapidità nel processo decisionale, ma sicuramente ne guadagnerà in termini di trasparenza e discussione pubblica su temi che dal 2002 sono stati di appannaggio pressoché esclusivo dei vertici dell’AKP. leggi tutto

La “difesa attiva” di Pechino: discontinuità e continuità della politica estera cinese alla luce del recente libro bianco sulla strategia militare.

Aurelio Insisa * - 02.06.2015

L’Ufficio d’Informazione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha pubblicato martedì 26 maggio un nuovo libro bianco dal titolo “La strategia militare della Cina” (Zhongguo junshi zhanlüe). Si tratta del nono libro bianco riguardante le forze armate cinesi dal 1998, ma del primo esplicitamente dedicato alla strategia militare. Nel verboso documento, circa novemila caratteri nell'originale in mandarino, il governo cinese delinea uno scenario complesso e non privo di pericoli per il futuro del paese. Mentre da una parte vengono reiterati i benefici dei trend politici-economici che hanno investito l’Asia Orientale negli ultimi decenni, Pechino afferma che crescenti minacce esterne alla propria sovranità territoriale hanno spinto il paese ad una revisione della propria strategia militare riassunta nel nebuloso concetto di “difesa attiva”, riconducibile, citando il documento, alla massima “non attaccheremo a meno di non esser attaccati per primi, ma sicuramente contrattaccheremo se ci attaccheranno” (ren bufan wo, wo bufan ren; ren ruo fan wo, wo bi fanren).

Alcune delle cosiddette “minacce esterne” elencate nel libro bianco sono dei “classici” della comunicazione politica cinese, dal rischio leggi tutto

Strumento di pace? Il Vaticano tra Cuba e Colombia, un anno dopo

Claudio Ferlan - 28.05.2015

La presenza della Santa Sede nelle azioni diplomatiche dell’America Latina è uno degli elementi fondanti l’azione sociale e politica del papa argentino. Un anno fa avevamo scritto, su questa testata, della spinta alla pace promossa da Francesco in due paesi chiave dell’area: Cuba e Colombia. Gli esiti che possiamo vedere oggi sono tra loro molto diversi, probabilmente anche inattesi.

 

Apertura cubana

 

È ben nota al lettore italiano la recente svolta segnata nelle relazioni internazionali di Cuba, così come è palese il riconoscimento del fondamentale contributo Vaticano alla sterzata. Il cardinale cubano Jaime Ortega y Alamino, raggiunti gli Stati Uniti per ricevere un dottorato honoris causa presso l’università gesuitica di Fordham (New York), non ha mancato di ricordare il contributo di Francesco alla riapertura delle relazioni tra i due (ex?) grandi nemici. Il cardinale ha rilevato come il papa sia impegnato nella costruzione di nuovi rapporti tra i paesi attraverso la forza della parola. Il suo pontificato lo prova. Ortega ha aggiunto che Bergoglio nei suoi colloqui con Obama ha sottolineato la centralità della questione cubana per la politica di Washington. I rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina passano necessariamente attraverso Cuba, avrebbe detto Francesco. 

Nell’attenzione verso l’isola caraibica entra un elemento basilare del magistero del papa argentino: l’affermazione della dignità dell’uomo, un tema assai caro anche alla politica cubana. leggi tutto

Il bottino di Palmira

Massimiliano Trentin * - 26.05.2015

Palmira, Siria.

La conquista della città di Tadmur in Siria, meglio conosciuta nel mondo come Palmira per il suo incredibile sito archeologico protetto dall’UNESCO, rappresenta un altro passaggio importante nella fase attuale della Guerra di Siria. E’ la prima volta che l’organizzazione del sedicente Stato Islamico (IS) combatte e toglie all’esercito siriano un centro abitato di medie dimensioni. Prima è sempre intervenuto su territori già conquistati dai ribelli, approfittando della debolezza istituzionale, politica e militare di questi ultimi. La conquista di Palmira sembra essere motivata da ragioni anzitutto strategiche ed economiche. Situata nel centro del Paese, Palmira unisce la valle dell’Eufrate siriano e iracheno, sotto controllo dell’IS, con l’asse Damasco-Aleppo, la valle dell’Oronte e la costa del Mediterraneo, controllate da Damasco e da altri ribelli. In questo modo, lo Stato islamico può garantirsi il controllo di tutto l’est della Siria: prepararsi alla conquista delle ultime basi militari e dei pozzi di petrolio ancora in mano a Damasco, e unirsi ai suoi avamposti nel deserto che confina con Iraq e Giordania.  Da lì l’Arabia Saudita è vicina. Allo stesso modo, può minacciare ad ovest il “corridoio” Damasco-Homs-Hama-Aleppo caro al regime, e rivaleggiare con le altre formazioni ribelli su chi potrà controllare l’asse portante della Siria. Ma, forse, oggi, il valore strategico di Palmira per l’organizzazione dello Stato islamico è rappresentato dal suo tesoro archeologico. Sempre più le casse dell’autoproclamato califfo al Baghdadi sono finanziate dal contrabbando sia di petrolio sia di reperti archeologici.  Nazioni unite, Unesco e associazioni che monitorano il mercato illegale, stimano in miliardi di US$ i proventi di questi traffici. leggi tutto

L’Ucraina di Poroschenko ancora sospesa tra Ovest ed Est

Carlo Reggiani * e Yevgeniya Shevtsova ** - 26.05.2015

A poco più di un anno dall’inizio degli scontri nella parte orientale del paese e dall’elezione del Presidente Poroschenko, l’Ucraina si trova ancora incastrata tra il ferro dell’Unione Europea e l’incudine di Mosca. La già debole economia Ucraina ha vissuto un anno difficilissimo a seguito delle sanzioni imposte a uno dei suoi principali partner commerciali, la Russia, e la conseguente crisi del rublo. A febbraio, ad esempio, la Grivna aveva perso più di due terzi del suo valore rispetto al dollaro prima di una debole ripresa. Cosa è stato fatto e cosa si dovrà fare per cercare di uscire da questa lunga e logorante crisi?

 

Il nuovo governo e la difficile strada delle riforme

Durante la campagna elettorale e all’indomani della trionfale elezione, Poroschenko ha discusso un numero di progetti e delineato alcune priorità da realizzare a breve nel corso della sua presidenza. La stampa Occidentale è piuttosto positiva sull’operato del nuovo governo[1]a cui viene, in particolare, riconosciuto il merito di aver fatto fronte con velocità alla crisi del debito, tramite accordi con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Non tutte le promesse, tuttavia, sono state realizzate. In particolare, Poroschenko ha identificato il maggiore problema dell’economia Ucraina nella presenza di potenti oligarchi, che si sono impossessati delle risorse produttive del paese all’indomani dell’indipendenza del paese.

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Conflitto e armonia: il mondo visto da Pechino

Guido Samarani * - 19.05.2015

Nel momento in cui vengono sollevate da recenti pubblicazioni nuove riflessioni sul fatto se il mondo, alla fin fine, non era meglio (o meno peggio) durante la Guerra fredda, appare utile ricordare che per diverse aree del mondo, a cominciare dall’Asia, in realtà quei decenni furono molto “caldi” e poco “freddi”, segnati da guerre sanguinose in Corea, Vietnam, cambogia, Afghanistan (per citare solo alcuni esempi).

Per la Cina la Guerra fredda rappresentò un periodo di forte isolamento (diplomatico ma anche economico-commerciale, con l’embargo) verso molta parte del mondo: un isolamento che divenne di fatto marginalizzazione dopo la rottura con l’Urss ed il mondo socialista e che fu interrotto solo, nei primi anni Settanta, con la ripresa del dialogo con gli Stati Uniti e successivamente, alla fine degli anni Ottanta, con la visita di Gorbachev a Pechino.

La fine dell’Urss e il riconoscimento da parte cinese dell’esistenza di un’unica ‘superpotenza’ (gli Usa) nella nuova realtà globale hanno  introdotto negli ultimi anni significative modifiche ed innovazioni nella visione del mondo di Pechino, intrecciandosi con gli obiettivi e le priorità interne (stabilità ed unità, crescita, sicurezza nazionale, sovranità territoriale, ecc.).

I documenti disponibili, i discorsi e le interviste di Xi Jinping e dei maggiori attori della politica estera (innanzitutto il leading small group per gli affari esteri, guidato dallo stesso Xi; e il Ministro degli Esteri, Wang Yi, il Consigliere di stato, Yang Jiechi , Ministro degli esteri sino al 2013, oltre al Premier Li Keqiang) indicano che Pechino, pur essendo ferma nella denuncia dei pericoli per la stabilità e la pace mondiale rappresentati dall’’egemonismo’ (Washington) e dal ‘neo-interventismo’ (approcci aggressivi da parte statunitense ed occidentale alle crisi in africa e in medio oriente), leggi tutto

La Turchia e l’eredità controversa della “Grande Guerra”

Carola Cerami * - 12.05.2015

Lo storico britannico Eugene Rogan nel suo ultimo libro, “The Fall of the Ottomans. The Great War in the Middle East, 1914 – 1920”, pubblicato nel febbraio 2015, afferma che nel Medio Oriente, più che in ogni altra parte del mondo, l'eredità della grande guerra continua a farsi sentire fino ai nostri giorni. L’effetto della prima guerra mondiale in Medio Oriente è stato epocale. La caduta dell'Impero Ottomano, il crollo di un ordine che aveva definito gran parte della regione per secoli, la successiva spartizione dell’area mediorientale fra i vincitori della grande guerra, sono all’origine del Medio Oriente contemporaneo.

Rogan nell’introduzione del suo libro invita a riflettere sull’importanza di approfondire la comprensione della storia del “fronte ottomano”, per dare ad essa la giusta collocazione nella storia della grande guerra e del moderno Medio Oriente. Dopo un secolo di ricerche noi abbiamo una visione, più o meno completa, del lato occidentale della trincea, ma siamo soltanto agli inizi nella comprensione del lato ottomano. Negli ultimi tempi però una nuova storiografia sta emergendo: alcuni studiosi turchi e occidentali hanno avuto accesso a collezioni inedite di documenti e le prime pubblicazioni pongono maggiore attenzione sulla esperienza ottomana della grande guerra. Il lavoro di Rogan è attento a non trascurare tale dimensione storiografica. leggi tutto

Il convitato di giada alle nuove nozze nippo-americane

Giulio Pugliese * - 07.05.2015

Come accennato in un post precedente, la visita di stato del premier giapponese Abe Shinzō a Washington D.C. è stata foriera di iniziative di enorme rilevanza per il futuro dell’Asia-Pacifico. A 55 anni dal tortuoso processo di ratifica del Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza tra Stati Uniti e Giappone ad opera del primo ministro Nobusuke Kishi, il nipote Abe è convenuto con la controparte americana a nuovi vincoli matrimoniali in occasione delle nozze d’avorio del medesimo trattato. La sottoscrizione di nuovi principi guida (guidelines) delinea nuove responsabilità per i due alleati, aggirando il macchinoso iter legislativo atto a ratificare ciò che, di fatto, si avvicina ad un nuovo trattato di alleanza. Così le due parti hanno deciso di perseguire una maggiore cogestione, inter-operabilità e modernizzazione delle rispettive forze armate. Forte del recente cambio dell’interpretazione dell’Articolo IX della costituzione nipponica, in base al quale Tokyo si è dotata dell’esercizio (limitato) del diritto di legittima difesa collettivo, con i nuovi principi guida il Giappone giocherebbe un ruolo di prima linea nella difesa dell’arcipelago e si potrebbe incaricare di supporto logistico a forze americane e amiche quali l’Australia a livello globale. Un più attivo contributo giapponese alla sicurezza internazionale rendeva quindi la partnership nippo-americana più paritaria, adattandola alle nuove e future sfide di sicurezza, in primis la rapida ascesa della Cina sulla scacchiera asiatica.

Esigenze diplomatiche imponevano ai due governi di ripetere che le linee guida non prendessero di mira alcuno stato in particolare, ma va sicuramente riconosciuta nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra responsabile per l’affiatamento della strana coppia Abe-Obama. leggi tutto

Abecedario: introduzione al pensiero di Abe Shinzō

Giulio Pugliese * - 02.05.2015

La visita del primo ministro Abe Shinzō a Washington ha già prodotto risultati di portata storica per le relazioni nippo-americane e, più in generale, per la stabilità dell’Asia Pacifico. Visto il ruolo di spicco del primo ministro Abe nell’orientare la ricca agenda di politica estera e di sicurezza giapponese e in virtù della probabile longevità politica del premierato Abe, questo breve articolo intende delineare l’ideologia di riferimento e gli obiettivi del primo ministro. Interessato a lasciare una netta eredità politica nell’arcipelago, Abe presenta una personalità caratterizzata da forti valori di riferimento, da una visione del mondo e da interessi politici ben definiti. Il retaggio spiccatamente nazionalista e la formazione di Abe nel cuore dell’establishment di destra del Partito Liberal Democratico (PLD) non solo hanno favorito la sua rapida ascesa al centro della scena politica nazionale, ma ne hanno preservato l’idealismo di destra. Egli ha manifestato la chiara ambizione a riguadagnare una posizione di preminenza per il Giappone sulla scena internazionale, con un occhio di riguardo per questioni di sicurezza nazionale, prosperità e prestigio.

Abe ha ereditato tali ideali soprattutto dal controverso nonno materno, Kishi Nobusuke. Questi fu responsabile per le politiche industriali nello stato fantoccio del Manciukuò, verosimilmente con l’inclusione del lavoro forzato, quindi ministro delle Munizioni nel governo di Hideki Tōjō, responsabile dell’apertura delle ostilità contro gli Stati Uniti d’America nel dicembre del 1941. leggi tutto