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Le elezioni turche e il trionfo di Erdogan
I risultati delle elezioni del 1° in Turchia sono stati sorprendenti un po' per tutti. Nessuno si aspettava – né i sondaggisti, né forse gli stessi Erdoğan e Davutoğlu – una vittoria di tali proporzioni del Partito della giustizia e dello sviluppo: l'Akp ha infatti ottenuto il 49,5% dei consensi, recuperando 9 punti percentuali rispetto alla tornata del 7 giugno e portando 317 deputati all'Assemblea nazionale, che gli garantiscono di nuovo la maggioranza assoluta (il parlamento turco è monocamerale). Si chiude così, con una tripletta interrotta dall'esito interlocutorio di 5 mesi fa, il ciclo elettorale del 2014-2015, con in serie amministrative, presidenziali e politiche: si tornerà a votare solo nel 2019, questi 4 anni senza campagne elettorali potranno essere dedicati alle riforme istituzionali e strutturali di cui il Paese ha notoriamente bisogno.
L'Akp ha vinto – meglio: stravinto – grazie a una campagna elettorale intelligente. La sconfitta elettorale del 7 giugno è stata analizzata in modo corretto, sono state prese delle contromisure che si sono rivelate efficaci: ha rivisto delle candidature che non avevano funzionato, rimettendo in gioco alcuni big del partito; ha concentrato gli sforzi sul campo, tra comizi e visite porta a porta, in tutti quei collegi sfuggitigli per pochi voti (39 deputati, a giugno, erano stati assegnati con uno scarto di meno dello 0,2%); ha seguito leggi tutto
Le sfide dei negoziati sulla Siria.
Nella capitale austriaca, Vienna, si svolgono i nuovi incontri tra gli Stati che sono maggiormente coinvolti nella guerra di Siria. Negli scorsi anni, a Ginevra, si erano svolti incontri simili, con obiettivi simili: mettere fine al conflitti armato che da cinque anni dilania il Paese medio-orientale e che ha causato almeno 300mila morti, sette milioni di siriani costretti a lasciare la propria casa (uno su tre), e una serie di violenze individuali e collettive che hanno lacerato il tessuto sociale e politico del Paese. Se non irrimediabilmente, quantomeno in modo durevole.
Rispetto agli incontri passati, due sono le differenze: una presenza e un'assenza. La nuova presenza riguarda l'Iran, che dopo l'accordo sul nucleare dello scorso luglio, ritorna finalmente ad essere riconosciuto come interlocutore legittimo anche dai suoi rivali statunitensi e, obtorto collo, arabi. Del resto, chiunque abbia mai avuto minima consapevolezza dei rapporti di forza politici e militari in Siria sapeva che senza il coinvolgimento dell'Iran non si può giungere ad alcuna soluzione né militare né negoziata. In questo senso, la diplomazia italiana si era sempre espressa per l'inclusione di Teheran, dovendo però attendere l'esito della questione nucleare. Il coinvolgimento dell'Iran è espressione della situazione sul campo: l'iniziativa militare e diplomatica della Russia vuole accelerare leggi tutto
I 70 anni dell’ONU
70 anni e non sentirli? Non sembra il caso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che quest’oggi raggiunge tale veneranda età incurvata dal peso di problemi insoluti e mille preoccupazioni. Da quel 24 ottobre 1945 quando i 51 Stati fondatori decretarono l’entrata in vigore del suo Statuto, il mondo intero sembra cambiato: la fine del colonialismo con l’accesso all’indipendenza di numerosi Stati afro-asiatici, la divisione del mondo nei blocchi contrapposti della guerra fredda e la ricomposizione dello stesso con il passaggio all’era della “globalizzazione”, l’avvento della rivoluzione informatica, la creazione di organizzazioni regionali e l’impressionante sviluppo di diverse aree del “sud” del pianeta. E se l’Organizzazione è stata solo in parte artefice di questi cambiamenti, sicuramente nel tempo ha assurto il ruolo di attenta osservatrice, continuando a fungere da arbitro delle controversie, da incubatore e promotore di piani di sviluppo globale, e da codificatrice del diritto internazionale. Una funzione insostituibile, anche nell’immaginario dei suoi detrattori, come forum di dialogo globale e punto di riferimento perenne per i governi nella promozione della pace, delle libertà e della giustizia.
Tuttavia sono evidenti i limiti dell’ONU. Limiti determinati, piuttosto che da inefficienze gestionali, dalla scarsa propensione degli Stati membri, ad oggi 193, a cedere porzioni della propria sovranità all’Organizzazione multilaterale. leggi tutto
Il riscatto della Tunisia: Il Nobel per la pace al quartetto per il dialogo nazionale tunisino.
Sono trascorsi quasi cinque anni dal gesto del giovane Mohammed Tarek Bouazizi che, il 17 dicembre 2010, per reagire alla polizia che gli aveva confiscato un banchetto di frutta e verdura, unica sua fonte di sostentamento, si cospargeva di benzina e si dava fuoco. Per le ustioni riportate moriva pochi giorni dopo. Bouazizi, pur non avendo mai frequentato l’Università, venne presentato pubblicamente come un giovane laureato disoccupato, assurgendo così nell’immaginario collettivo a simbolo di una generazione. Con il suo atto dimostrativo ed estremo egli aveva voluto denunciare pubblicamente il sistema di potere corrotto e repressivo, ormai intollerabile per un paese dove circa il 50 per cento dei laureati era disoccupato e impossibilitato a “fuggire” verso un’Europa che aveva chiuso le frontiere. La corruzione endemica, il divario sempre più crescente tra ricchi e poveri, l’incapacità di controllare completamente la sfera pubblica aveva generato un deterioramento del regime stesso. Da quel giorno migliaia di giovani tunisini entrarono nella storia esprimendo con grande coraggio il loro dissenso, scendendo nelle strade e nelle piazze del paese.
Sono stati anni complessi dominati da un processo di transizione difficile in cui non sono mancati momenti di profonda crisi. Si è passati attraverso le forti tensioni che hanno animato i lavori della commissione costituente, gli attentati politici del 2013 in cui hanno perso la vita Choukri Belaid e Mohammed Brahmi. leggi tutto
Migrazioni, istituzioni e diritto: andare oltre i confini
Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato sull’edizione on line de Il Sole 24 Ore, Martin Wolf ha scritto che gli «ideali cosmopoliti» che animano chi guarda con favore alle grandi migrazioni «sono in contrasto con il fatto che la nostra vita politica è organizzata in giurisdizioni territoriali sovrane». L’osservazione è utile; consente di capire qual è il nodo strutturale che offre una perdurante legittimazione a chi, sia pur spinto dalle più diverse, e talvolta urticanti, motivazioni, ritiene doveroso che gli Stati erigano barriere ad hoc e diano comunque la piena precedenza ai cittadini.
Non si tratta di dare “sfogo” a presunzioni oggi poco sostenibili, come lo sono, ad esempio, quelle di chi ritiene che vi possa essere una comunità soltanto in presenza di un’omogeneità di caratteri valoriali o etnici. Il punto è quello che aveva evidenziato Proudhon già nella seconda metà del XIX Secolo, all’interno del celebre saggio sulla capacità politica della classe operaia.
In quel caso era in gioco l’opportunità che Francia e Inghilterra stipulassero un trattato commerciale di libero scambio. Proudhon notava che – pur non essendoci ragioni di principio per essere contrari alla libertà dei commerci – sarebbe stato senz’altro allentato il regime doganale e, con esso, l’implicito ma decisivo legame di garanzia che permetteva ai ceti produttivi di riconoscersi reciprocamente e di dare con ciò fiducia e stabilità alle istituzioni nazionali. leggi tutto
Fatti compiuti, e buon viso a cattivo gioco. Russia e Nato in Siria.
Le ultime settimane hanno visto l’escalation dell’intervento russo in Siria. Un intervento che in precedenza riguardava il sostegno logistico-militare, diplomatico e finanziario al Governo siriano. L’interesse di Mosca per la Siria e il regime ba’thista risiede nella sopravvivenza di una alleato di lunga durata che garantisce alla diplomazia russa e alle forze armate russe una presenza limitata ma cospicua nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente. Vi sono anche forti legami sociali, data la presenza di molti cittadini siriani e russi sposati assieme o con lunghe esperienze di formazione e lavoro nell’uno come nell’altro Paese. Per non dimenticare la secolare politica di sostegno di Mosca alle chiese cristiane ortodosse in Siria. Infine, e non da sottovalutare, Mosca e Damasco condividono una lunga avversione nei confronti delle forze del cosiddetto Islam politico, brandito come “terrorista” tout court: tanto in Cecenia come nella guerra in Siria non hanno avuto problemi nel radicalizzare il conflitto in modo tale da favorire le frange estremiste e radicali, peraltro comunque presenti, e poi muover loro la “guerra al terrorismo”. Del resto, queste sono strategie impiegate da altri Stati.
L’intervento militare diretto della Russia in Siria nasce dalla consapevolezza che dall’inizio del 2015 le sorti del conflitto volgevano leggi tutto
Fase di stallo: la prima visita ufficiale di Xi Jinping in America
Nel giugno 2013, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping compì una visita di carattere “informale” negli Stati Uniti, durante la quale incontrò il Presidente Obama a Sunnylands, in California, tra voci di un nuovo de facto G2 a capo degli equilbri internazionali ed un’atmosfera amichevole simbolizzata dalle foto ritraenti i due leader a passeggio per la campagna californiana in maniche di camicia. Dissapori ed incomprensioni tra Washington e Pechino erano ovviamente presenti sullo sfondo, dalla questione delle Isole Senkaku/Diaoyu nel Mare della Cina Orientale, alla mancata svalutazione dello yuan, dallo spinoso problema dello spionaggio informatico alla perenne questione della diversa interpretazione dei diritti umani e delle libertà civili tra i due paesi. Tuttavia, vi era anche genuino interesse da parte dell’amministrazione americana nel conoscere meglio il nuovo conquilinio di Zhongnanhai, e forse perfino la speranza di creare una relazione di carattere personale tra Xi e Obama che avrebbe potuto facilitare le relazioni tra i due paesi.
Prendendo Sunnylands come termine di paragone per la nuova visita, stavolta di carattere ufficiale, intrapresa da Xi tra il 22 ed il 28 settembre e conclusasi con un discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite, è innegabile che la “relazione bilaterale più importante nella storia” stai attraversando una fase di stallo. leggi tutto
God bless America, e viceversa. Le visite pastorali e il soft power statunitense
Quella di papa Francesco è l’ultima di una lunga serie di visite pastorali negli Stati Uniti. Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, questi incontri hanno spesso segnato e scandito dei passaggi importanti nella politica estera statunitense. E la riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba, che quest’ultimo viaggio in qualche modo suggella, si colloca pienamente nel solco di una simile tradizione. Da Paolo VI in poi, in particolare, il Vaticano ha rappresentato per gli Stati Uniti un’eccellente risorsa di soft power: il papa ha difeso interessi e valori vitali per Washington, ha contribuito a dirimere questioni internazionali spinose, a rovesciare regimi autoritari e, in ultima analisi, a rafforzare l’immagine internazionale degli USA.
Nei primi anni Sessanta, ad esempio, Kennedy aveva provato, senza successo, a convincere Kruscev della necessità di limitare i test nucleari. Fu però grazie all’interposizione dei buoni uffici di Giovanni XXIII che le due superpotenze raggiunsero il primo accordo in materia nel 1963. Due anni più tardi, Paolo VI rese omaggio alla lungimiranza del presidente statunitense condannando, con le parole usate dallo stesso Kennedy, la proliferazione nucleare dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’enfasi posta dal papa sul disarmo rispecchiava la volontà di Washington di limitare l’aumento del numero di potenze nucleari e di bollare come moralmente – e cristianamente – inaccettabile qualsiasi passo compiuto in tale direzione. Quando di fronte a 8o.000 fedeli riuniti allo Yankee Stadium Paolo VI leggi tutto
Tiene banco l’emergenza sbarchi, ma a preoccupare è la nuova emigrazione italiana
Discutere di emigrazione italiana, negli anni del dibattito sulla sostenibilità dell’accoglienza, pare quasi una provocazione. Eppure è necessario, a fronte dei numeri. I dati non hanno remore etiche, interessi elettorali o dubbi programmatici: parlano la lingua asettica delle evidenze. E per la prima volta, da 20 anni a questa parte, i cittadini italiani residenti all’estero sono cresciuti più degli immigrati residenti in Italia. A rivelarlo è il “Dossier Statistico sull’Immigrazione 2015”, realizzato dal centro studi IDOS. Le anticipazioni dell’indagine, che verrà pubblicata integralmente in l’autunno, fotografano un aumento degli italiani residenti all’estero di 155mila unità, contro i 92mila nuovi residenti stranieri. Una sproporzione sensibile, che si riferisce al 2014: anno oggetto dell’analisi. Ma la tendenza sembra essere tracciata. Già nel 2012 un rapporto più circoscritto, pubblicato dalla Fondazione Migrantes, sotto l’egida della Conferenza Episcopale Italiana, segnalava che il numero delle partenze dall'Italia era ormai superiore a quello degli arrivi di lavoratori stranieri: con un +16,1% rispetto all’anno precedente. A favorire le partenze la recessione economica e la conseguente disoccupazione. Così, un passo dopo l’altro, il numero degli italiani che vivono fuori dal territorio nazionale (4.637.000) si sta avvicinando a quello degli stranieri presenti in Italia (5.014.000). E non si tratta di un fenomeno transitorio: nel 2014 ben 89.000 nostri connazionali si sono cancellati dall’anagrafe del loro comune di residenza, leggi tutto
Damasco, Istanbul, Berlino
"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.
La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. leggi tutto