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L’Italia e la lotta internazionale all’Isis a un mese dalle stragi di Parigi.
All’indomani dei tragici avvenimenti di Parigi del 13 novembre scorso, la maggior parte dei commenti di politici ed editorialisti si è concentrata su due aspetti della lotta che l’Italia e gli altri partner internazionali dovrebbero portare allo Stato islamico e alla sua strategia del terrore: 1) la creazione di una grande coalizione, composta dai paesi della UE, dagli USA e dalla Russia, insieme alle principali potenze regionali, come Iran, Arabia Saudita e Turchia, in grado di sconfiggere l’Isis sul piano militare; 2) isolare economicamente il Califfato, prendendo le distanze da quei paesi che si suppone stiano appoggiando l’Isis, attraverso traffici e affari di ogni genere con i suoi dirigenti.
Molti commentatori, inoltre, hanno censurato l’eccesso di prudenza del governo italiano, in particolare del presidente del Consiglio. Il premier Renzi, infatti, pur ribadendo con chiarezza la volontà di partecipare alla lotta contro il terrorismo islamista, ha allo stesso tempo invitato governi amici e alleati a inserire ogni eventuale intervento militare in un disegno strategico complessivo, volto a stabilizzare la regione e non semplicemente a eliminare un gruppo di potere per creare l’ennesimo vuoto politico, fonte di nuova anarchia e nuova conflittualità: in breve, non interventi affrettati, attuati soprattutto per dare una risposta all’opinione pubblica, giustamente spaventata e disorientata, leggi tutto
Dov'è finita la visione liberale delle relazioni internazionali?
A distanza di una generazione, di solito le cose tendono a tornare di moda. Per il revival della musica e dell'abbigliamento degli anni Novanta manca poco: ma c'è un aspetto di quegli anni che invece pare destinato a minore fortuna. Poco dopo la fine della guerra fredda, l'idea di costruire una polizia internazionale guadagnò rapidamente popolarità, assieme all'idea che la comunità internazionale dovesse farsi garante del rispetto dei diritti fondamentali di qualsiasi individuo. Si parlava di caschi blu e forze di interposizione, di cessate il fuoco e responsibility to protect, di corridoi umanitari e tribunali internazionali.
Crisi, guerre e pulizie etniche ci sono anche oggi, ma di quelle idee non si parla praticamente più. Le discussioni sulla Siria riguardano quasi solo le modalità e gli obiettivi dei bombardamenti; eppure la situazione nel paese non è meno grave di tante altre crisi che negli anni Novanta suscitarono discussioni molto più articolate – dalla Bosnia al Kosovo, dalla Somalia al Ruanda. Non è che in Siria non ci sia bisogno di corridoi umanitari, o che non si verifichino episodi di pulizia etnica. E non è che non venga violata la Convenzione di Ginevra, o che non ci siano criminali di guerra.
Così come non se ne parla per la Siria, non se ne parla nemmeno per le altre crisi in corso, come quelle dell'Iraq, della Libia, del Mali, del Burundi, dello Yemen, e così via. leggi tutto
La politica estera italiana e la questione islamica
Il premier Renzi ha seccamente affermato che l’Italia non può andare in giro a spargere bombe sull’Isis solo per far piacere a qualche commentatore. Ha perfettamente ragione, anche perché in questo momento ciò che manca non sono gli aerei da bombardamento: mancano gli obiettivi e soprattutto la strategia per capire dove si voglia andare a parare.
Sempre Renzi ha aggiunto che per ogni euro speso in contrasto all’Isis bisogna spenderne un altro in cultura per impedire la radicalizzazione dei mussulmani europei. Anche qui a ragione, ma la faccenda è meno semplice da trattare.
In termini di politica estera l’Italia ragiona tenendo conto, come è naturale, della sua posizione particolare. Con un problema come quello libico a poca distanza dalle nostre coste non è davvero sensato fornire scuse alle forze del radicalismo islamico presenti in quel paese per coprire le loro gesta con pretestuosi rinvii alla lotta contro l’ex potenza coloniale occupante, cioè noi. In più abbiamo davanti la delicata prova del Giubileo e anche qui bisogna evitare di fornire pretesti agli esaltati che non mancano. Quel che è successo di recente nel Metrò di Londra così come gli eventi di San Bernardino negli USA mostrano anche troppo bene cosa possa succedere in queste fasi di sovraeccitazione. Non che in nome della prudenza sia opportuno rinunciare al contrasto ad un fenomeno preoccupante: leggi tutto
Confusione globale
Grande è la confusione sopra – e sotto – il cielo mediorientale. I giochi di guerra tra Turchia e Russia sono solo l’ultimo esempio del caos globale, in cui ognuno va per se, le alleanze sono duplici e triplici, e tattica e strategia di lungo termine sono spesso in contraddizione.
Partiamo da una considerazione generale: il conflitto medio-orientale è soprattutto una guerra intra-musulmana i cui principali contendenti sono Arabia Saudita ed Iran. Si tratta di una contesa geopolitica ma anche religiosa: l’integralismo sunnita di Riad intende presentarsi come l’unico vero Islam ed ha quindi i suoi nemici più forti negli sciiti di Teheran. In Occidente questo aspetto è sempre stato sottovalutato con risultati disastrosi.
Gli interventi militari americani ed europei non solo hanno alimentato il terrorismo (le guerre occidentali sono, secondo gli studi di Robert Pape, la principale giustificazione dei terroristi e kamikze) ed il radicalismo islamico, ma hanno anche, e forse soprattutto, destabilizzato la regione, ottenendo nel medio periodo risultati opposti a quelli che inizialmente prefissi. L’intervento americano in Iraq – paese a maggioranza sciita che con Saddam era governato da un regime sunnita laico, ostile tanto all’Iran che all’Arabia – ha esacerbato il conflitto tra sunniti e sciiti. Non paghi del disastro iracheno, si è poi intervenuti in Libia e supportato l’opposizione siriana, aprendo una stagione di anarchia totale. leggi tutto
«Bastardi Islamici», il titolo di Libero e il limiti del giornalismo
«Bastardi Islamici». Non una chiacchiera da bar, e neppure la manifestazione di una ripulsa individuale, ma il titolo di apertura di un quotidiano nazionale con oltre 104mila copie di tiratura: Libero. La risposta, all’apparenza impulsiva, di certo smodata, all’orrore parigino del 13 Novembre. Forse non è opportuno indugiare su una scelta editoriale che è stata oggetto di una serie di denunce, nonché di una controversa proposta di radiazione dall’albo dei giornalisti professionisti per il direttore del giornale, Maurizio Belpietro. Ma occorre partire da questo episodio, per nulla isolato, ma indubbiamente eclatante, se si vuole affrontare una riflessione sulle libertà e sui limiti del giornalismo: tema delicato, poiché qui si intersecano (e come in questo caso si scontrano) la necessità di assicurare un ampio regime di autonomia all’informazione e quella di prevenire le conseguenze negative di un suo abuso. Partiamo da una premessa: chiunque conosca il mondo dei media sa che l’obiettività giornalistica è un mito che vive al di fuori dalla realtà, nell’empireo della narrazione anglosassone. Di fatto, non esiste. Non necessariamente per malizia, è nella natura delle cose: anche l’informazione più asettica presuppone una scelta di campo o quantomeno una visione specifica della realtà. La selezione delle notizie, la titolazione, il linguaggio: sono tutti aspetti che dipendono dal modo in cui si intende la società. leggi tutto
Clima: c'è qualcosa da aspettarsi da Parigi?
Un vero appuntamento con la Storia. È questa l'aspettativa nei confronti della Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima, la COP21, che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre prossimo. Prevista la partecipazione di 50mila persone e di 25mila delegati ufficiali in rappresentanza di 196 Paesi. Già confermata la presenza di 117 leader mondiali, dall'americano Barack Obama e il cinese Xi Jinping alla brasiliana Dilma Rousseff e all'indiano Narendra Modi.
A dimostrazione che i cambiamenti climatici rappresentano oggi la sfida scientifica, economica, politica e morale più importante che l’umanità si trova ad affrontare. E Parigi può rappresentare una svolta in questa sfida data l’urgenza di affrontare gli impatti che si stanno già manifestando con conseguenze gravi specie nei Paesi più vulnerabili dal punto di vista sociale ed economico.
Se è vero che il clima del nostro pianeta ha subito diverse modifiche nel corso della sua storia, ciò che rende inedita la fase che stiamo vivendo è la velocità con cui il pianeta si sta riscaldando e il contributo dato dall’uomo nell’emissione di gas serra che non ha precedenti nella storia.
L'importanza della COP21 è dovuta proprio al fatto che da Parigi ci si aspetta l'adozione di un nuovo accordo globale sul clima e vincolante per tutti i paesi della comunità internazionale, da quelli industrializzati (come Stati Uniti e Unione europea) e maggiormente responsabili delle concentrazioni attuali di gas serra in atmosfera, leggi tutto
Risposte globali ai cambiamenti climatici. Dagli insuccessi del protocollo di Kyoto alla nuova strategia di Parigi
Grazie al protocollo di Kyoto il tema dei cambiamenti climatici ha assunto rilevanza globale, tanto da essere sempre più presente negli scambi economici e nelle relazioni politiche tra paesi, così come nelle strategie di cooperazione internazionale finalizzate allo sviluppo.
Come ha ricordato Ban Ki-Moon, quella dei cambiamenti climatici è la grande sfida della nostra epoca, e noi tutti dobbiamo impegnarci a giocare un ruolo, per quanto piccolo, in questa lotta, divenendo parti attive nelle strategie di mitigazione e adattamento nazionali e locali. Su questi temi si sta concentrando buona parte dell’attenzione mediatica in questa fine di 2015. Il 30 novembre, infatti, aprirà a Parigi la ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, istituita nel 1992 durante la Conferenza di Rio de Janeiro su clima e ambiente - ed entrata in vigore due anni dopo – da cui nel 1997 è scaturito il Protocollo di Kyoto, il primo e più dibattuto accordo globale sul clima nella storia dell’umanità. Con stime allarmanti come quelle che prevedono un innalzamento delle temperature fino a 4 gradi centigradi entro il 2100, è chiaro che il tema riguarda tutti, dai paesi più industrializzati a quelli più poveri che, pur contribuendo in misura minore ai cambiamenti del clima globale, ne stanno comunque già sperimentando gli impatti ambientali ed economici. leggi tutto
Convergenze e resistenze
La guerra non è di per sé la "levatrice della storia" oppure un evento che trasforma in modo totale le società che ne sono coinvolte. Piuttosto la guerra e i conflitti armati sono dei potenti e drammatici acceleratori di processi di trasformazione già in corso. In Siria, la guerra ha accelerato i conflitti tra città e campagna, tra centri urbani e provinciali del Paese arabo; ha accelerato il disfacimento del vecchio regime ba'thista e riconfigurato le relazioni tra forze armate, stato e Partito, probabilmente a scapito di quest'ultimo; ha accelerato l'ascesa pubblica dell'Islam politico, dimostrando però la carica di divisione che questo porta nelle società secolarizzate o comunque plurali come quella siriana, irachena, tunisina o egiziana; ha accelerato la connessione politica tra due territori affini come Siria e Iraq; ha accelerato la politica di potenza tra Iran, Arabia Saudita, Turchia e Israele, offrendo un terreno di battaglia in cui scontrarsi "per procura"; ha accelerato la crisi delle politiche migratorie europee aggiungendo ai flussi "normali" quelli derivanti da conflitti armati; ha accelerato la crisi delle politiche migratorie europee, fomentando paure e xenofobie a favore di forze nazionaliste.
Ad oltre una settimana di distanza, possiamo chiederci se gli attacchi di Parigi hanno contribuito anche loro ad accelerare i processi in corso: la risposta sembra positiva. Le ripercussioni all’interno dell’Europa non sono qui oggetto di analisi, ma sembra che purtroppo aumenti il giro di vite sostanziale sulle libertà nello spazio pubblico e privato, se non addirittura tramite una modifica costituzionale come in Francia. leggi tutto
Parigi e la legge del terrorismo
Gli attentati di Parigi del 13 novembre seguono la medesima logica del massacro di Charlie Hebdo da parte dei fratelli Kouachi e degli omicidi commessi da Amedy Coulibaly (entrambi dello scorso gennaio). È la stessa logica degli attentati di Madrid 2004 e di Londra 2005 (e di una serie di tentativi di attentati in Europa e in Nord America cui abbiamo assistito negli ultimi anni). Nella complessa varietà delle cause di questi fatti, possiamo isolare la legge del terrorismo: colpire bersagli civili (dei Paesi nemici come la Francia) per compensare l’inferiorità militare che lo Stato Islamico (ISIS) si trova ad affrontare in Iraq e Siria. È in altre parole la legge infernale della guerra asimmetrica, nella quale sono da anni impantanati i Paesi occidentali in lotta contro al-Qaeda e i gruppi affiliati.
È il caso di Madrid 2004: un attacco con l’obiettivo (conseguito) di spingere la Spagna al ritiro del proprio esercito dall’Iraq. O il caso di Londra 2005: l’azione di quattro kamikaze con l’intento di contrastare l’intervento britannico anzitutto (ancora una volta) in Iraq. E lo stesso per Parigi nel gennaio scorso: almeno per l’attentato di Coulibaly, un video-testamento documenta la propria fedeltà all’ISIS e l’intenzione di reagire ai bombardamenti occidentali contro le sue milizie. E così anche per la strage del 13 novembre: varie rivendicazioni su Internet e alcune testimonianze leggi tutto
L’Isis e al-Qaeda: realtà di terrore a confronto
Dopo i fatti di Parigi, alcuni leader politici si sono espressi duramente in materia di lotta al terrorismo. Si è parlato di strategie, di guerra. Ma lo si è fatto senza conoscere a fondo il nemico contro il quale ci si appresta a combattere, per il momento, solo in senso figurato. E poi si è parlato di al-Qaeda, tentando di costruire un parallelo tra la rete di Osama Bin Laden e al-Zawahiri, e l’Isis o – nella sua versione araba – il Daesh. Entrambe, non c’è dubbio, sono le più spietate organizzazioni terroristiche dell’ultimo ventennio. Ma in quanto a strategie d’azione, sono più le differenze che le analogie.
L’Isis nasce dalla costola irachena di al-Qaeda – con il nome di al-Qaeda Iraq (AQI) – sotto la guida di al-Zarkawi. Il progressivo distaccamento si deve alle divergenze operative, oltre che all’incompatibilità tra i rispettivi leader. Mentre al-Qaeda ha rafforzato il suo potere nutrendo le cellule a sé affiliate nel resto del mondo - ramificando come metastasi la sua influenza -, l’Isis ha costruito uno stato solido, dal 2003 ad oggi, arrivando a dominare un’intera area geografica a metà tra Siria e Iraq. Da un lato il radicamento al territorio è per l’Isis un vantaggio, poiché ne fortifica la stabilità militare. Dall’altro rappresenta un limite: la riuscita di un attacco mirato allo stato potrebbe distruggerne il potere territoriale. leggi tutto