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Il negoziato, forse
A quattro anni e quattro giorni dall’inizio “ufficiale” delle rivolte e poi della guerra in Siria, il Segretario di stato USA, John Kerry, ha dichiarato alla CBS che “alla fine dobbiamo negoziare” con il Presidente siriano Bashar al Assad. Washington torna dunque sui suoi passi? Gli al Assad sono dunque riusciti a sopravvivere, per l’ennesima volta? E’ troppo presto per dirlo, anche perché alle dichiarazioni, spesso non seguono i fatti e le forze che si opporranno sono molte e ben determinate. Tuttavia, la notizia fa piacere a chi ha sempre sostenuto, come il sottoscritto, come fin dall’inizio non vi sia mai stata altra alternativa se non il negoziato politico tra tutte le forze in campo, pena la distruzione dell’intero Paese.
Per comprendere il significato della dichiarazione di John Kerry conviene collocarla nel suo tempo e nel suo spazio. Siamo appena entrati nel quinto anno di guerra in Siria. Le manifestazioni e poi rivolte a carattere non-violento, democratico e permeate da un forte senso civico si sono trasformate in un conflitto armato a seguito della repressione del regime, sempre più autoreferenziale e basato sui servizi di sicurezza più che strutture di rappresentanza e mobilitazione politica. L’ingerenza di Paesi e forze straniere ha trasformato un conflitto interno in una guerra regionale in cui si scontrano per procura i Paesi arabi del Golfo, la Turchia e i loro alleati occidentali contro il cosiddetto Asse della resistenza formato da Iran, Hizb’allah libanese e Siria, appunto. leggi tutto
Lo Sri Lanka verso la riconciliazione nazionale?
Come tentare di assicurare la riconciliazione nazionale in un Paese dopo anni di violenza e guerra civile? Negli anni Novanta le sperimentazioni in tal senso hanno affiancato il sistema dei Tribunali internazionali ad hoc, istituiti nei casi della ex Jugoslavia e della Sierra Leone, ereditando, se così si può dire, il modello di Norimberga e anticipando la creazione della Corte Penale Internazionale, a inediti esperimenti di Commissioni nazionali per la verità e la riconciliazione, consacrati dal banco di prova del Sudafrica post-apartheid. Una cosa è certa: fare i conti col passato diventa una necessità a cui non ci si può sottrarre all’infinito. I fantasmi di un genocidio vecchio un secolo, quale quello armeno, riecheggiano ancora oggi in Europa, così come l’assenza di un processo condiviso di ricostruzione della storia e della giustizia nell’Italia repubblicana, nata dalle ceneri del fascismo e della seconda guerra mondiale, incide tuttora profondamente sulla cultura e sulla politica del Paese.
È per questa ragione che genera perplessità l’assenza di un qualsivoglia sistema di giustizia e di rielaborazione di quel conflitto, seppur silenzioso e a bassa intensità, che si è combattuto per venticinque anni fino al 2009 nella regione di Jaffna, situata nella parte settentrionale dello Sri Lanka, tra la popolazione cingalese e quella tamil. leggi tutto
Notizie da vedere, informazione da cercare
Quando nel 2011 in Libia veniva abbattuto il regime di Gheddafi le immagini che arrivavano sui nostri teleschermi erano sconcertanti per chi era ancora abituato ad associare la guerra a grandi eserciti, grandi mezzi, grandi manovre. Ricordo un commento di mia madre, che osservava esterrefatta l’erratico andirivieni di qualche pickup scassato lungo strade costiere deserte su uno fondo di distruzione fumante, a bordo ragazzi armati senza divisa che salutavano le cineprese con l’allegria dell’incoscienza: “non avevo mai visto andare a fare la guerra in macchina”. Non è che non aveva mai visto immagini di guerriglia, e anche nella sua esperienza personale la guerra era stata sia grappoli di bombe sganciate dagli aeroplani sui grandi obiettivi, sia attentati e rappresaglie nel microcosmo locale. Intendeva: ‘come in gita’. Era lo stessa incomprensione che provavo anch’io, e che la mia laurea in scienze politiche non serviva a colmare, anzi faceva tacere.
Si ripete questa sensazione di incomprensione, che è diversa da quella di inaccettabilità morale, quando ci passano davanti agli occhi le immagini dei barconi che affondano sui nostri schermi, quando vediamo morire affogate quote di umanità di cui ignoravamo l’esistenza che perdono la vita e la dignità in diretta mentre stiamo cenando. Qualcuno, al riparo da qualche parte, li sta riprendendo per noi. leggi tutto
Egitto, patria del legislativo fantasma
Da due anni privo di Parlamento, l’Egitto rischia di restare senza un potere legislativo ancora per un po’. Le elezioni previste per marzo che dovevano eleggere il Parlamento slitteranno a data da destinarsi. A imporre questa sterzata è stata la Corte Costituzionale egiziana che il 1 marzo ha bocciato il regolamento elettorale da utilizzare per il terzo e ultimo passaggio della road map presentata dai militari dopo la deposizione, nel luglio 2013, del presidente islamsita Mohammed Morsi.
Quando lo scorso anno la legge elettorale era stata approvata per decreto dopo la firma di Adly Al-Mansour -il presidente ad interim che ha traghettato l’Egitto nelle mani dell’attuale presidente Abdel Fattah Al-Sisi- numerose voci vi si erano opposte, puntando il dito soprattutto contro il sistema di ditribuzione dei seggi. Queste critiche erano convogliate in tre ricorsi presentati davanti alla Corte Costituzionale. Il primo metteva in dubbio la costituzionalità della legge sui diritti politici, il secondo quella del regolamento delle elezioni parlamentari e l’ultimo - l’unico acettato dalla Corte – si concentrava sulla legge di divisione delle circoscrizioni. Così come è scritta, la norma bocciata non garantirebbe infatti agli elettori delle diverse circoscrizioni un’equa rappresentazione. È questo l’aspetto che ha messo la legge in contraddizione con l’articolo 102 della Costituzione che protegge invece questo basilare principio. leggi tutto
Una Via della Seta islamista? La Cina, gli uiguri e lo Stato Islamico
Una nuova, inquietante “via della seta” è andata emergendo negli ultimi mesi, collegando idealmente l’Asia Orientale al Medio Oriente. Su questo percorso, uomini e idee viaggiano da Raqqa, la città siriana diventata la “capitale” dello Stato Islamico, per arrivare fino a Pechino, sostando inevitabilmente a Urumqi, la capitale della regione cinese dello Xinjiang.
Lo Xinjiang, “la nuova frontiera” in mandarino, è la patria degli uiguri, un gruppo etnico turcofono di circa 10 milioni di persone di religione musulmana che costituisce la quarta minoranza etnica in Cina. Rientrata all'interno dell’orbita politica di Pechino nel 1949, la regione, come nel caso del Tibet, ha subito negli ultimi decenni un complesso processo di integrazione coatta con il resto della Cina. Lo sviluppo economico, impetuoso negli anni più recenti, è infatti andato di pari passo con la repressione dell’identità nazionale del popolo uiguro e con un contestato programma di “sommersione etnica” tramite l’immigrazione di cinesi di etnia Han.
Le tensioni etniche e politiche della regione sono esplose definitivamente soltanto nella seconda metà dello scorso decennio, culminando nei disordini avvenuti tra il marzo 2008 ed il luglio 2009. La dura repressione condotta dall'imponente apparato di sicurezza cinese ha impedito il ripetersi di rivolte di quella portata negli ultimi anni, ma senza alcun reale sbocco nella vita politica del paese, il dissenso uiguro si è sempre più incanalato in sparuti quanto letali atti di terrorismo, generalmente imputati ai separatisti del Movimento leggi tutto
Vedere meno o vedere meglio? La propaganda dell’Isis e i crucci deontologici dell’informazione
La decisione della redazione di Rai News di interrompere la riproduzione dei video propagandistici di Isis, seguita a distanza di qualche ora da un analogo appello dell’Ordine dei Giornalisti e del Consiglio Nazionale degli Utenti, ha riproposto il tema dei limiti imposti all’informazione nell’uso delle immagini. Da un lato si rivendica la necessità da parte dei media di documentare, anche nei suoi risvolti più brutali, gli eventi che scuotono il panorama internazionale; dall’altro – è il caso della testata giornalistica diretta da Monica Maggioni - si sottolinea il pericolo che trasmettendo le immagini della barbarie alimentata dall’esercito jihadista ci si renda strumento della loro azione di propaganda.
Che fare, dunque? Mostrare tutto per denunciare il volto dell’inumano e, così, fornire alla coscienza dei cittadini e all’opinione pubblica internazionale gli strumenti per leggere la realtà circostante, o contrastare il nemmeno troppo velato valore propagandistico della campagna mediatica del Califfato per non amplificarne la portata? La risposta non è scontata, né univoca.
Un secolo di riflessione sui fondamenti della cultura fotografica non è del resto riuscito a risolvere la questione delle fragilità e delle contraddizioni legate al valore testimoniale delle immagini, siano esse prodotte dai fotografi delle agenzie di stampa o dalle mani dei protagonisti delle vicende di cui è resa testimonianza visiva. leggi tutto
La fine “della storia” e la fine di “una storia”
È sotto gli occhi di tutti che le crisi aperte in Ucraina, Grecia e Libia sono legate ed interconnesse. Si è riflettuto molto, in queste settimane, sui successi diplomatici della Germania di Angela Merkel, volata a Washington per convincere Obama a non avventurarsi nell’invio di armi in Ucraina, per poi correre a rappresentare la diplomazia europea al tavolo negoziale di Minsk e infine pronta a far pesare il prestigio acquisito a Minsk e a Washington nel braccio di ferro con Atene.
Allo stesso modo si sono sottolineate le tante divisioni che i tre focolai di crisi evidenziano all’interno del continente europeo. Il caso greco (euro) e quello libico (immigrazione e guerra civile) confermerebbero una sempre più profonda divaricazione tra un’Europa del nord ed un’Europa del sud. Virtuosa economicamente e sufficientemente lontana dalle tensioni provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo quella del nord. Cronicamente arretrata ed esposta ai marosi delle crisi successive alle primavere arabe quella del sud. Sempre seguendo questo ragionamento la crisi ucraina accentuerebbe un’altra frattura, quella sull’asse est/ovest, o per dirla con un’altra terminologia tra “nuova Europa” e “vecchia Europa”, con la prima timorosa dei tentativi egemonici di Putin (intrisi di zarismo e post-stalinismo) e la seconda ancora disposta a farsi cullare nell’illusione di una improbabile “fine della storia”.
Ma è proprio l’attenzione sulla dimensione “storica” che in questi giorni è forse mancata. leggi tutto
L'Italia e il caos libico: intervento diretto o guerra per procura?
La Libia, dopo la caduta del regime di Gheddafi, favorita soprattutto dall'intervento internazionale a sostegno delle rivolte interne, è ancora oggi, a quattro anni da quegli avvenimenti, un paese in preda all'anarchia politica e istituzionale. La fine del governo dittatoriale libico non è stata seguita dall'avvento del pluralismo politico e da pratiche di governo democratiche, ma ha determinato un vuoto di potere, in cui varie fazioni continuano ad affrontarsi. Al governo insediato a Tobruk e composto da forze politiche laiciste, unico attore in campo riconosciuto dalla comunità internazionale, si contrappongono il Congresso nazionale libico di Tripoli, a maggioranza islamista ma vicino ai Fratelli Mussulmani e non allo Stato islamico del Califfo Al Baghdadi, e altre forze fondamentaliste, jihadiste e salafite, affiliatesi all’Isis ed entrate in possesso della città di Sirte, nei cui pressi è avvenuta la drammatica esecuzione dei 21 egiziani copti, ripresa e diffusa dai siti internet e dalle televisioni di tutto il mondo.
Il risultato è una guerra di tutti contro tutti, che fa della Libia non solo un paese profondamente lacerato, teatro di violenze quotidiane, ma anche la principale fonte di instabilità e insicurezza per tutti i vicini, nordafricani, mediterranei ed europei. Tra i paesi minacciati, a vario titolo e a vario leggi tutto
Tutti a Tripoli?
Quello che si sperava non accadesse, si è infine materializzato: la Libia, e le sue ricchezze materiale e umane, non sono solo più oggetto di lotta all'ultimo sangue tra fazioni di ribelli e i loro sostenitori esteri, peraltro tutti facenti parte in diversi modi della grande "coalizione" anti-Stato Islamico. La Libia è oggetto di conquista anche dello Stato Islamico, cioè di una forza politica che si muove al di fuori delle "normali" dinamiche di politica di potenza a cui siamo abituati e che tanto spaventa Paesi vicini e lontani. In altre parole, parti importanti dell'ex Jamahirriya di Gheddafi rischiano di essere governate da una forza la cui ideologia e prassi politica sono difficilmente compatibili con le minime, ma proprio minime, norme di comportamento stabilite per consenso dal diritto e dalle relazioni internazionali: a cominciare dal desiderio "irredentista" di ricostruire l'unità del mondo islamico sotto la bandiera del Califfato.
Da qui l'allarme internazionale, l'intervento diretto dei Paesi vicini, Egitto in primis, e i negoziati dei Paesi occidentali per "contenere" la minaccia dello Stato Islamico in Libia. Le voci si levano alte per un intervento militare in combinazione con la costituzione di un governo di unità nazionale, cioè di un processo politico inclusivo di tutte le forze, tranne gli affiliati dello Stato Islamico. Voci e propositi tanto difficili da realizzare data la situazione sul campo quanto imprescindibili per trovare una soluzione al conflitto. leggi tutto
Cambia la situazione?
Sino a due giorni fa sembrava che la situazione politica italiana si andasse incancrenendo su uno scontro frontale fra PD e FI innescato dalle impuntature di un Berlusconi in cerca di affermazioni. Ovviamente in questo scontro si erano subito buttati tutti quelli che ambivano a far saltare la leadership renziana: la Lega, il M5S, i dissidenti PD e via dicendo. Come talora accade in politica, un evento inaspettato, almeno in queste proporzioni, ha al momento cambiato il quadro di riferimento.
Ci riferiamo ovviamente a quanto sta avvenendo in Libia. La minaccia di avere sulla famosa “quarta sponda” (un nome preso dalla storia coloniale italiana che alla maggior parte della gente non dice nulla, perché non lo studiano neppure più a scuola) una forza organizzata legata al cosiddetto califfato islamico è un dato preoccupante. Chiama in causa il ruolo dell’Italia ed ha una forte presa sull’opinione pubblica scossa da quanto avvenuto a Parigi e a Copenhagen.
Un mondo politico che sembrava tutto intento ad azzuffarsi in parlamento ha nella sua maggioranza capito che era suicida rompere la solidarietà nazionale su un tema che tocca facilmente le corde sensibili dell’opinione pubblica. Il più veloce a capire il cambio di clima è stato Berlusconi, che ha intuito che si presentava l’occasione per uscire dal vicolo cieco in cui era andato a cacciarsi. leggi tutto