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12 febbraio 2025
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L’Ucraina di Poroschenko ancora sospesa tra Ovest ed Est

Carlo Reggiani * e Yevgeniya Shevtsova ** - 26.05.2015

A poco più di un anno dall’inizio degli scontri nella parte orientale del paese e dall’elezione del Presidente Poroschenko, l’Ucraina si trova ancora incastrata tra il ferro dell’Unione Europea e l’incudine di Mosca. La già debole economia Ucraina ha vissuto un anno difficilissimo a seguito delle sanzioni imposte a uno dei suoi principali partner commerciali, la Russia, e la conseguente crisi del rublo. A febbraio, ad esempio, la Grivna aveva perso più di due terzi del suo valore rispetto al dollaro prima di una debole ripresa. Cosa è stato fatto e cosa si dovrà fare per cercare di uscire da questa lunga e logorante crisi?

 

Il nuovo governo e la difficile strada delle riforme

Durante la campagna elettorale e all’indomani della trionfale elezione, Poroschenko ha discusso un numero di progetti e delineato alcune priorità da realizzare a breve nel corso della sua presidenza. La stampa Occidentale è piuttosto positiva sull’operato del nuovo governo[1]a cui viene, in particolare, riconosciuto il merito di aver fatto fronte con velocità alla crisi del debito, tramite accordi con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Non tutte le promesse, tuttavia, sono state realizzate. In particolare, Poroschenko ha identificato il maggiore problema dell’economia Ucraina nella presenza di potenti oligarchi, che si sono impossessati delle risorse produttive del paese all’indomani dell’indipendenza del paese.

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Conflitto e armonia: il mondo visto da Pechino

Guido Samarani * - 19.05.2015

Nel momento in cui vengono sollevate da recenti pubblicazioni nuove riflessioni sul fatto se il mondo, alla fin fine, non era meglio (o meno peggio) durante la Guerra fredda, appare utile ricordare che per diverse aree del mondo, a cominciare dall’Asia, in realtà quei decenni furono molto “caldi” e poco “freddi”, segnati da guerre sanguinose in Corea, Vietnam, cambogia, Afghanistan (per citare solo alcuni esempi).

Per la Cina la Guerra fredda rappresentò un periodo di forte isolamento (diplomatico ma anche economico-commerciale, con l’embargo) verso molta parte del mondo: un isolamento che divenne di fatto marginalizzazione dopo la rottura con l’Urss ed il mondo socialista e che fu interrotto solo, nei primi anni Settanta, con la ripresa del dialogo con gli Stati Uniti e successivamente, alla fine degli anni Ottanta, con la visita di Gorbachev a Pechino.

La fine dell’Urss e il riconoscimento da parte cinese dell’esistenza di un’unica ‘superpotenza’ (gli Usa) nella nuova realtà globale hanno  introdotto negli ultimi anni significative modifiche ed innovazioni nella visione del mondo di Pechino, intrecciandosi con gli obiettivi e le priorità interne (stabilità ed unità, crescita, sicurezza nazionale, sovranità territoriale, ecc.).

I documenti disponibili, i discorsi e le interviste di Xi Jinping e dei maggiori attori della politica estera (innanzitutto il leading small group per gli affari esteri, guidato dallo stesso Xi; e il Ministro degli Esteri, Wang Yi, il Consigliere di stato, Yang Jiechi , Ministro degli esteri sino al 2013, oltre al Premier Li Keqiang) indicano che Pechino, pur essendo ferma nella denuncia dei pericoli per la stabilità e la pace mondiale rappresentati dall’’egemonismo’ (Washington) e dal ‘neo-interventismo’ (approcci aggressivi da parte statunitense ed occidentale alle crisi in africa e in medio oriente), leggi tutto

La Turchia e l’eredità controversa della “Grande Guerra”

Carola Cerami * - 12.05.2015

Lo storico britannico Eugene Rogan nel suo ultimo libro, “The Fall of the Ottomans. The Great War in the Middle East, 1914 – 1920”, pubblicato nel febbraio 2015, afferma che nel Medio Oriente, più che in ogni altra parte del mondo, l'eredità della grande guerra continua a farsi sentire fino ai nostri giorni. L’effetto della prima guerra mondiale in Medio Oriente è stato epocale. La caduta dell'Impero Ottomano, il crollo di un ordine che aveva definito gran parte della regione per secoli, la successiva spartizione dell’area mediorientale fra i vincitori della grande guerra, sono all’origine del Medio Oriente contemporaneo.

Rogan nell’introduzione del suo libro invita a riflettere sull’importanza di approfondire la comprensione della storia del “fronte ottomano”, per dare ad essa la giusta collocazione nella storia della grande guerra e del moderno Medio Oriente. Dopo un secolo di ricerche noi abbiamo una visione, più o meno completa, del lato occidentale della trincea, ma siamo soltanto agli inizi nella comprensione del lato ottomano. Negli ultimi tempi però una nuova storiografia sta emergendo: alcuni studiosi turchi e occidentali hanno avuto accesso a collezioni inedite di documenti e le prime pubblicazioni pongono maggiore attenzione sulla esperienza ottomana della grande guerra. Il lavoro di Rogan è attento a non trascurare tale dimensione storiografica. leggi tutto

Il convitato di giada alle nuove nozze nippo-americane

Giulio Pugliese * - 07.05.2015

Come accennato in un post precedente, la visita di stato del premier giapponese Abe Shinzō a Washington D.C. è stata foriera di iniziative di enorme rilevanza per il futuro dell’Asia-Pacifico. A 55 anni dal tortuoso processo di ratifica del Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza tra Stati Uniti e Giappone ad opera del primo ministro Nobusuke Kishi, il nipote Abe è convenuto con la controparte americana a nuovi vincoli matrimoniali in occasione delle nozze d’avorio del medesimo trattato. La sottoscrizione di nuovi principi guida (guidelines) delinea nuove responsabilità per i due alleati, aggirando il macchinoso iter legislativo atto a ratificare ciò che, di fatto, si avvicina ad un nuovo trattato di alleanza. Così le due parti hanno deciso di perseguire una maggiore cogestione, inter-operabilità e modernizzazione delle rispettive forze armate. Forte del recente cambio dell’interpretazione dell’Articolo IX della costituzione nipponica, in base al quale Tokyo si è dotata dell’esercizio (limitato) del diritto di legittima difesa collettivo, con i nuovi principi guida il Giappone giocherebbe un ruolo di prima linea nella difesa dell’arcipelago e si potrebbe incaricare di supporto logistico a forze americane e amiche quali l’Australia a livello globale. Un più attivo contributo giapponese alla sicurezza internazionale rendeva quindi la partnership nippo-americana più paritaria, adattandola alle nuove e future sfide di sicurezza, in primis la rapida ascesa della Cina sulla scacchiera asiatica.

Esigenze diplomatiche imponevano ai due governi di ripetere che le linee guida non prendessero di mira alcuno stato in particolare, ma va sicuramente riconosciuta nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra responsabile per l’affiatamento della strana coppia Abe-Obama. leggi tutto

Abecedario: introduzione al pensiero di Abe Shinzō

Giulio Pugliese * - 02.05.2015

La visita del primo ministro Abe Shinzō a Washington ha già prodotto risultati di portata storica per le relazioni nippo-americane e, più in generale, per la stabilità dell’Asia Pacifico. Visto il ruolo di spicco del primo ministro Abe nell’orientare la ricca agenda di politica estera e di sicurezza giapponese e in virtù della probabile longevità politica del premierato Abe, questo breve articolo intende delineare l’ideologia di riferimento e gli obiettivi del primo ministro. Interessato a lasciare una netta eredità politica nell’arcipelago, Abe presenta una personalità caratterizzata da forti valori di riferimento, da una visione del mondo e da interessi politici ben definiti. Il retaggio spiccatamente nazionalista e la formazione di Abe nel cuore dell’establishment di destra del Partito Liberal Democratico (PLD) non solo hanno favorito la sua rapida ascesa al centro della scena politica nazionale, ma ne hanno preservato l’idealismo di destra. Egli ha manifestato la chiara ambizione a riguadagnare una posizione di preminenza per il Giappone sulla scena internazionale, con un occhio di riguardo per questioni di sicurezza nazionale, prosperità e prestigio.

Abe ha ereditato tali ideali soprattutto dal controverso nonno materno, Kishi Nobusuke. Questi fu responsabile per le politiche industriali nello stato fantoccio del Manciukuò, verosimilmente con l’inclusione del lavoro forzato, quindi ministro delle Munizioni nel governo di Hideki Tōjō, responsabile dell’apertura delle ostilità contro gli Stati Uniti d’America nel dicembre del 1941. leggi tutto

L’offensiva islamista in Siria

Massimiliano Trentin * - 30.04.2015

Il 28 Marzo le forze ribelli siriane hanno conquistato la città di Idlib, capoluogo della provincia rurale del Nord ovest siriano. Il 25 Aprile uno schieramento di forze simili ha conquistato la città di Jisr al-Shughour, situata in posizione strategica in quanto connette l’entroterra di Idlib con la Turchia e la costa siriana. Entrambe le città erano ormai gli ultimi avamposti dell’esercito siriano e delle sue milizie nella provincia nel Nord-Ovest, una volta famosa per la produzione agricola e per essere stata una delle prime a ribellarsi contro il regime di Bashar al Assad nel 2011 e 2012, e ad offrire una delle principali base per le forze di opposizione.

Idlib è il secondo capoluogo di provincia a cadere nelle mani dei ribelli dopo la città di Raqqa. E in entrambi i casi i due capoluoghi sono ora governati da un fronte di forze islamiste. Se dal 2013 a Raqqa governano i salafiti-jihadisti dell’organizzazione dello Stato Islamico, ora a Idlib governa il Jaysh al Fatah, ossia un coordinamento di forze islamiste più o meno radicali di cui Jabhat al Nusra sembra avere la leadership. Jabhat al Nusra è l’organizzazione legata ad al Qaida in Siria, ed è ben conosciuta tra i ribelli per essere particolarmente efficace ed efficiente nei suoi metodi di lotta armata e di governo dei territori. Nel corso degli ultimi due anni al Nusra ha rappresentato la forza d’urto e poi di resistenza ad Aleppo, Damasco e nel Sud della Siria sia contro l’Esercito siriano sia contro i “cugini” concorrenti dello Stato islamico. leggi tutto

“Questione tedesca” 2.0?

Giovanni Bernardini - 28.04.2015

Gli stereotipi sui caratteri nazionali, si sa, sono duri a morire. Secondo un vecchio adagio, se si chiedesse a persone di diversa nazionalità di scrivere un libro sugli elefanti, si otterrebbe da un francese il trattato “Mille modi di cucinare l’elefante”, mentre un inglese racconterebbe “La volta che ho sparato a quell’enorme elefante”; la versione statunitense spiegherebbe “Come fare elefanti migliori e più grandi”, e quella giapponese “Come costruire elefanti piccoli ed economici”. Quanto a un tedesco, egli non si metterebbe all’opera per meno di “L’elefante e la “questione tedesca” in VI volumi”. È pur vero che di questione tedesca si ragiona sia fuori che dentro i confini nazionali almeno dal 1871, quando l’unificazione della Germania trasformò profondamente l’Europa e i suoi equilibri di potenza. Le conseguenze di allora non hanno cessato di proiettare un’ombra lunga e tragica sui decenni a venire. Se sia il caso di ragionare ancora oggi in termini di “questione tedesca” è l’interrogativo che Hans Kundnani pone al centro del suo libro “The Paradox of German Power”. Il volume, sintetico e di facile lettura, costituisce tanto un rapido excursus storiografico quanto uno stimolo al dibattito sulla crisi attuale dell’Europa e sul ruolo giocato da Berlino. Dopo che la Guerra Fredda aveva risolto il problema in modo brutale con la divisione della Germania in due stati, dopo che l’indomani della riunificazione aveva fatto parlare di una definitiva “europeizzazione della Germania” in virtù del Trattato di Maastricht, ha ragione chi oggi grida leggi tutto

La politica estera di Renzi ovvero il “rottamatore pragmatico”

Michele Marchi - 23.04.2015

In politica estera non si inventa nulla. E nemmeno un funambolo come il nostro Presidente del Consiglio può contravvenire a questa regola ferrea. Senza dubbio i nuovi media influenzano i vecchi riti che dominano la politica internazionale. E’ allo stesso modo evidente che la fine della contrapposizione tra i due blocchi, l’accelerazione impressa allo sviluppo storico dalla globalizzazione dei mercati e le nuove minacce legate alle guerre asimmetriche e al terrorismo hanno reso il quadro internazionale più caotico ed anarchico. Nonostante tutto ciò, con le dovute compensazioni e i necessari adattamenti, la politica estera della “media potenza” Italia continua a muoversi lungo le sue direttrici classiche. Matteo Renzi, dopo un anno abbondante a Palazzo Chigi, ha mostrato di avere il quadro chiaro e di essere in grado di adattarsi in maniera pragmatica a questi “fondamentali”. Insomma più che a “rottamare”, si è impegnato a sfruttare vecchie rendite di posizione e a riadattare direttrici fondanti, il tutto con quella dose di volontarismo comunicativo così caratteristica del suo marchio di fabbrica.

Innanzitutto Renzi si è applicato nel rinverdire i fasti dell’europeismo italiano e lo ha fatto, se è consentito un paragone ardito, alla “maniera di De Gasperi”. Nel senso che, forte del travolgente successo alle elezioni europee del maggio scorso, si è rivolto direttamente alla fonte della nuova leadership europea. E’ andato diretto a Berlino, senza passare da Parigi. O meglio, ha fatto salire sul “bus della crescita” Hollande, dopo aver puntualizzato che il vero leader dei “progressisti” europei sta di casa a Roma.  leggi tutto

Obama e Cuba: ben più di una “Guerra Fredda” da seppellire

Giovanni Bernardini - 16.04.2015

Dean Rusk è stato il secondo più longevo Segretario di Stato (“ministro degli esteri”, per così dire) della storia statunitense, servendo sotto i due Presidenti Kennedy e Johnson per quasi tutti gli anni ’60 del secolo scorso. Le sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni ’90, racchiudono il resoconto personale di quella fase di escalation globale della “Guerra Fredda” culminata nel disastro della guerra del Vietnam, per la quale egli non è esente da gravi responsabilità. Tra gli episodi più drammatici del suo lungo mandato, Rusk ricorda nei dettagli il summit tra Kennedy e la sua controparte sovietica Krusciov tenuto a Vienna del 1961. Molte, troppe speranze aveva suscitato la possibilità che una stretta di mano di fronte agli occhi del mondo inaugurasse un nuovo clima di fiducia reciproca e contribuisse a chiudere i tanti rischiosi dossier sul tavolo del confronto bipolare, dalla competizione nucleare alla divisione di Berlino, alla questione di Cuba. Due mesi prima, il tentativo di uno sbarco controrivoluzionario di esuli cubani era fallito nella Baia dei Porci, rivelando l’evidente coinvolgimento statunitense e favorendo di fatto l’avvicinamento a Mosca del governo dell’isola. Il vertice di Vienna si risolse in un fiasco clamoroso tra pesanti accuse e minacce reciproche, dovute secondo Rusk proprio all’illusione che entrambi i protagonisti nutrivano sulle potenzialità di una diplomazia personale improvvisata e mediatica. Il braccio di ferro globale leggi tutto

Un contrappunto disinibito ad Eugenio Scalfari

Pasquale Pasquino * - 16.04.2015

“Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l’abolizione della democrazia parlamentare.”

Con queste parole Eugenio Scalfari conclude la prima parte del suo articolo di domenica 12 aprile, quella relativa alle riforme istituzionali in corso volute dal governo. Ed approvate a larga maggioranza dal PD e, fino alla elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, anche da FI. Che Silvio Berlusconi sia stato convinto a propositi più democratici da Scalfari è una favola bella alla quale crede solo lui. O nemmeno lui! E’ bene che le leggi elettorali siano approvate da larghe maggioranze, ma “la più bella costituzione del mondo” le considera leggi ordinarie. Ora queste sono approvate in base ai regolamenti parlamentari dalle maggioranze che questi prevedono. Saranno pessimi, ma Scalfari opportunisticamente tace sul punto. Salta di palo in frasca. E ci dice che in Italia la maggioranza parlamentare non esprime la maggioranza popolare perché il numero degli astenuti è in crescita. Scalfari cita in francese Jacques Julliard, chic alors, ma sembra uno che non ha mai messo la testa fuori di casa. L’Italia è un paese in cui il tasso di partecipazione alle elezioni è fra i più alti fra quelli delle democrazie consolidate. Certo per Scalfari gli Stati Uniti a vista della partecipazione alle elezioni deve essere classificato fra gli stati a-democratici o autoritari. leggi tutto