Ultimo Aggiornamento:
03 giugno 2023
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Argomenti

“Il sole sorge come al solito”: perché Pechino non scenderà a compromessi con la Umbrella Revolution di Hong Kong

Aurelio Insisa * - 07.10.2014

Il primo ottobre di quest’anno, durante il sessantacinquesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il direttore dell’Ufficio per gli Affari di Hong Kong, Zhang Xiaoming, ha commentato le proteste di massa che stanno scuotendo l’ex colonia britannica nelle ultime due settimane con un freddo “il sole sorge come al solito.” Sebbene si tratti di un ovvio tentativo di minimizzare la portata della cosiddetta “Umbrella Revolution” che ha paralizzato la città per quasi due settmane, tale commento è anche il segnale della volontà di Pechino di non deviare dall’agenda politica in serbo per Hong Kong sin dal trasferimento di sovranità dal Regno Unito nel 1997.

 

1984-2014: Le promesse non mantenute


Il modus vivendi tra Pechino e Hong Kong, definito nella costituzione cinese come “una Cina, due sistemi,” ha subito negli ultimi diciassette anni un lungo processo di rinegoziazione che lo ha reso progressivamente più distante dallo spirito della Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984. Il documento firmato da Margaret Thatcher e Zhao Ziyang avrebbe dovuto infatti assicurare a Hong Kong la libertà di sviluppare senza intromissioni esterne le proprie istituzioni democratiche, tra le quali ovviamente una riforma elettorale che garantisse il suffragio universale. Pechino è stata tuttavia capace di contrastare le aspirazione democratiche hongkonghesi sin dall’inizio dell’handover tramite lo stesso strumento che avrebbe dovuto proteggerle: la Basic Law, ovvero la “costituzione” della ex colonia britannica. Il linguaggio vago e ambiguo del documento, in cui il governo cinese ebbe un ruolo centrale in fase di stesura, ha permesso infatti a Pechino un ampio spazio di manovra nella sua interpretazione a proprio favore. leggi tutto

Svolta o evoluzione? Le posizioni del Vaticano sulla guerra

Maurizio Cau - 04.10.2014

Il recente intervento del segretario di Stato vaticano all’ONU non è passato inosservato. Prendendo la parola davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il cardinal Parolin ha puntato il dito contro le responsabilità di una comunità internazionale incapace di fronteggiare con forza e coesione i conflitti che stanno infiammando Siria, Iraq e Ucraina: “E’ deludente – ha ammonito Parolin - che fino ad ora la comunità internazionale si sia caratterizzata per le sue voci contraddittorie se non per il silenzio. E’ fondamentale che ci sia una unità di azione per il bene comune, evitando il fuoco incrociato di  veti”. La rapida ascesa dell’ISIS e la minaccia di una guerra civile su larga scala alimentata da un terrorismo religioso in via di trasformazione hanno messo in evidenza lo stallo della comunità politica internazionale, a cui il Vaticano chiede di fornire “una risposta unitaria, basata su solidi criteri giuridici e su una volontà collettiva di cooperare per il bene comune”.

 

Dalla preghiera all’intervento armato


Se confrontata con gli interventi e le azioni che papa Bergoglio ha promosso al principio del suo pontificato, e che miravano a rilanciare il dialogo e la preghiera come strumenti validi ad evitare la guerra, si tratta di un’evoluzione di non poco momento. Le posizioni della Santa Sede in ordine alle complesse vicende internazionali hanno di recente subito un profondo mutamento, come suggerivano in agosto le dichiarazioni rilasciate da papa Francesco al ritorno dal viaggio in Corea del Sud: «È lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. leggi tutto

Obama, l’ISIS e i futuri “nemici giurati” dell’America

Giovanni Bernardini - 30.09.2014

La passione per la conoscenza storica spinge talvolta a riempire la propria libreria di vecchi arnesi con la segreta speranza che il tempo li trasformi in preziose testimonianze d’epoca. Non si vedono altre ragioni per conservare uno dei tanti volumi autobiografici che Richard Nixon, 37° Presidente degli Stati Uniti, produsse dopo le sue dimissioni in seguito allo scandalo “Watergate” nel 1974. Dato alle stampe nel 1980 con l’eloquente titolo “La vera guerra”, il libro s’inscrive in un filone fiorente all’epoca negli Stati Uniti: un avvertimento a non sopravvalutare la diplomazia con l’Unione Sovietica, che rimaneva un sistema di potere intrinsecamente pericoloso per il “Mondo libero”. L’appello proveniva dal Presidente che più di ogni altro aveva lavorato per ricondurre alla normalità i rapporti con Mosca; ma nel frattempo “Distensione” era diventata una parola impronunciabile negli Stati Uniti, equiparata al tristemente noto “Appeasement” che aveva consentito a Hitler di preparare indisturbato il proprio attacco all’Europa. leggi tutto

Nuova guerra, vecchia musica

Massimiliano Trentin * - 16.09.2014

Il Presidente statunitense Barack Obama ha annunciato il 10 settembre la strategia di attacco contro le forze dello Stato Islamico (IS), il movimento islamista radicale che ha conquistato ampi territori a cavallo tra Siria e Iraq e che ha proclamato il nuovo Califfato: attacchi aerei a sostegno delle offensive dei curdi a nord, e dell'esercito iracheno da sud ed est; invio di quasi 475 esperti USA per azioni di intelligence e sostegno tecnico, oltre ai 150 già presenti in loco; azioni di anti-terrorismo per minare le risorse umane e finanziarie dell'IS; aiuti umanitari alle popolazioni colpite. Le novità più importanti riguardano l'estensione degli attacchi aerei già in corso in Iraq anche alla Siria e la costruzione di una grande coalizione internazionale a guida Usa di cui i Paesi arabi conservatori costituiscono l'asse portante.

Questi sono i propositi di Washington che, nei fatti come nella retorica, ripropongono un modus operandi già conosciuto in passato, e soprattutto ben noto a chi in Medio Oriente ci vive. Peraltro, fu Bush jr. e il suo ideologico, bellicoso unilateralismo a costituire una breve discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera Usa, di cui la Presidenza Obama è custode. Dopo aver perso quella capacità di dominio e di leadership che Washington aveva conquistato in Medio Oriente tra il 1991 e il 2003, proprio a causa del fallimento dell'occupazione dell'Iraq gli Usa vogliono ribadire leggi tutto

La fragile indipendenza del Kosovo

Miriam Rossi * - 13.09.2014

Manca poco meno di una settimana al referendum indipendentista della Scozia, guardato con profonda attenzione dall’Europa intera e soprattutto da quelle minoranze che anelano ad analoghe forme di espressione della propria autodeterminazione. Intanto i riflettori hanno smesso di essere puntati sui Balcani, laddove continua la sua stentata esistenza come Stato indipendente quella regione principalmente di etnia albanese che anni fa ha invece optato per la soluzione armata. Auspicabilmente, nel prossimo decennio l’apertura delle carte d’archivio consentirà di ricostruire con maggiore chiarezza il conflitto che contrappose tra il 1996 e il 1999 le forze serbe e quelle kosovare albanesi, e di valutare la lungimiranza politica delle forze leggi tutto

Etica del fine vita. I casi di Gustavo Cerati e Hans Küng

Claudio Ferlan - 11.09.2014

Lo scorso 4 settembre è scomparso a Buenos Aires Gustavo Cerati, cinquantacinque anni, uno dei più celebri esponenti della storia della musica argentina. Era in coma dal 15 maggio 2010, quando era stato colpito da un ictus dopo un concerto tenuto in Venezuela con la sua band.  

 

Medicina e speranza

 

Per comprendere la rilevanza del musicista nella cultura argentina e latinoamericana in genere al lettore italiano può essere utile qualche rimando. La presidenta Cristina Kirchner ha decretato due giorni di lutto nazionale, i principali quotidiani sudamericani hanno riservato le prime pagine alla notizia della sua scomparsa. Nel periodo della malattia di Cerati si sono messe a confronto le opinioni di chi si chiedeva il senso del prolungamento di una vita vegetativa e chi invece si appellava alla speranza, prima tra tutte Lilian Clark, madre di Gustavo. Lo stesso direttore della clinica ALCLA, dove l’artista ha finito i suoi giorni, ha dichiarato che leggi tutto

Qatar annus horribilis

Azzurra Meringolo * - 09.09.2014

Un anno può stravolgere l’immagine di un Paese. Soprattutto se questo si trova in un Medio Oriente in continua fibrillazione. È quello che è successo al Qatar, stato del Golfo che nel giugno 2013 aveva attirato i riflettori del mondo in occasione del rarissimo cambio generazionale che stava compiendo. Con la regia della moglie,

l’emiro Sheik Hamad Bin Khalifa al Thani aveva infatti annunciato di abdicare a favore di suo figlio Sheikh Tamim. Quando è uscito di scena, Sheikh Hamad si è lasciato alle spalle un impero fondato sul soft power che aveva fatto sentire la sua influenza in tutta la regione.

A quindici mesi di distanza, Sheikh Tamim sembra però aver dilapidato quasi tutto l’appeal guadagnato dal padre negli ultimi decenni. leggi tutto

La violenza della politica identitaria in Medio Oriente

Massimiliano Trentin * - 06.09.2014

Nelle scorse settimane i Governi europei hanno deciso di inviare armi al Governo Regionale Curdo in Iraq e al Governo centrale a Baghdad per fermare l'avanzata delle milizie dello Stato Islamico (Islamic State, IS). Stati Uniti, Gran Bretagna e probabilmente anche Francia contribuiscono anche con attacchi aerei e la presenza di "consiglieri militari" sul campo, ossia forze speciali. La brutalità delle azioni dello Stato Islamico è ormai evidente a tutti gli osservatori. La decapitazione dei due giornalisti statunitensi non è che la punta mediatica delle pratiche di persecuzione e vessazione a cui i militanti dell'autoproclamato Califfo Abu Bakr al Baghdadi costringono le popolazioni sottomesse a cavallo tra Siria e Iraq. Se ne parla poco perché sono i "loro" morti, ma decine e decine di civili e soldati siriani, iracheni o curdi hanno fatto una fine simile.

Un aspetto tanto macroscopico quanto spesso dimenticato è rappresentato dal rischio che l'intera area dell'antica Mesopotamia, dal Golfo Persico alle coste orientali del Mediterraneo perda una delle sue grandi ricchezze: la presenza di innumerevoli comunità linguistiche e confessionali. La modernità ha spesso comportato una violenta omogeneizzazione delle identità, ad esempio sotto le bandiere del nazionalismo a base linguistica o confessionale. Il Medio Oriente non è esente da questo processo. leggi tutto

Quello che non si è chiesto a Lindau

Rudi Bogni * - 02.09.2014

Sono reduce da tre giorni passati a Lindau al convegno dei Nobel laureates in economia con studenti venuti da 80 paesi del mondo ad ascoltare i loro messia.

Gli interventi sono stati molto vari. Stieglitz naturalmente si e’ occupato della dirompente diseguaglianza fra redditi di lavoro e di capitale e dell’accentuata concentrazione della ricchezza. Alcuni teoretici dei giochi hanno presentato in grande dettaglio giochi astrusi, Merton ha riscoperto il credito e l’azzardo morale, altri hanno presentato dei modelli a fronte dei quali mi sono posto la domanda se l’output del modello non fosse gia’ pre-determinato dagli assiomi e dalle boundary conditions.

Ho avuto un senso di déjà vu. Nel 1995 mentre facevo un sabbatico ad Imperial College cercavo invano di convincere gli accademi a studiare i CDS (credit derivative swaps) prevedendo che lì si sarebbe svolta la prossima grande battaglia finanziaria. Gli accademici erano invece intenti a raffinare i loro modelli di opzioni sui tassi di interesse, cosa di valore aggiunto assai marginale per il buon operare dei mercati. leggi tutto

Verso la “nuova Turchia”: potere e dissenso

Carola Cerami * - 26.08.2014

Il 10 Agosto 2014, Recep Tayyip Erdogan, già Primo Ministro della Repubblica turca, vince al primo turno le elezioni presidenziali in Turchia. Primo presidente eletto direttamente dal popolo, diventa capo dello stato con il 51,8% dei voti. Nei giorni successivi indica come suo successore alla guida dell’esecutivo di Ankara e del partito della Giustizia e Sviluppo (AKP), il suo fedelissimo Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu. La coppia Erdogan - Davutoglu guiderà dunque la Turchia verso le elezioni parlamentari del 2015 e secondo le ambizioni di Erdogan verso il 2023, centenario della Repubblica turca.

 

La “nuova Turchia” di Erdogan

 

L’11 Agosto Erdogan, appena eletto, tiene ad Ankara, il suo “balcony speech”, dichiarando “l’inizio di una nuova era” e ponendo fra gli obiettivi prioritari della “nuova Turchia” una nuova costituzione. L’obiettivo prioritario di Erdogan è quello di sostituire la democrazia parlamentare con un sistema semipresidenziale. Obiettivo che spera di raggiungere con una vittoria del suo partito alle elezioni generali del prossimo anno e con un rafforzamento della maggioranza parlamentare. Nei discorsi di Erdogan è ricorrente il richiamo al “nuovo” e nell’ultima decade il “nuovo” in Turchia è stato un affare unidimensionale e quasi assoluto, legato esclusivamente alle scelte politiche offerte o imposte da Erdogan e dal suo partito. leggi tutto