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L’accordo sull’ambiente tra Cina e Stati Uniti: prove di un nuovo “bipolarismo regolato”?
Le relazioni diplomatiche vivono spesso di dinamiche discontinue e largamente segrete, o peggio ancora vincolate a formalismi specialistici che il pubblico più vasto considera alla stregua di riti esoterici, noiosi e privi di suspense, dato che raramente i loro risultati sembrano avere conseguenze dirette per l’esistenza quotidiana. Eppure una conoscenza minima delle relazioni internazionali lungo l’arco del Ventesimo secolo fornisce prove di quanto gli aspetti simbolici siano talvolta più rivelatori rispetto ai contenuti delle discussioni, e di come gli apparati scenici e coreografici che circondano la stipula di accordi e convenzioni siano persino più gravidi di conseguenze dei loro contenuti. Dato che, come ricorda un vecchio adagio, gli stessi accordi rimangono dei “pezzi di carta” se non sono supportati dalla volontà delle parti di tenere fede agli impegni sottoscritti.
Sono queste le ragioni che potrebbero conferire un surplus di significato storico all’accordo bilaterale sottoscritto dal Presidente statunitense Barack Obama e dal Presidente cinese Xi Jinping, che vincola i rispettivi paesi alla riduzione delle emissioni responsabili dell’effetto serra e dei mutamenti climatici. Un accordo che, vale la pena di sottolineare, può costituire “una pietra miliare” (secondo le parole dei protagonisti) ma che di certo rimane ben lontano dal fornire leggi tutto
Quel che resta del Muro, venticinque anni dopo.
Ad un quarto di secolo dalla caduta del Muro è forse arrivato il momento di redigere un primo, parziale bilancio degli anni che sono seguiti alla fine del comunismo. Tra il 1989 ed il 1991 finiva l’esperienza del socialismo reale – almeno in Europa – e per i paesi d’oltre cortina iniziava la cosiddetta transizione verso capitalismo e democrazia. In quei giorni, ed anche negli anni successivi, non sembravano esserci dubbi: il vecchio continente era finalmente riunito, il tempo delle guerre, fredde e calde, era finito. Addirittura era la fine della storia (copyright Francis Fukuyama).
Le cose sono andate diversamente: nonostante le grandi speranze del post-89, nonostante i tanti proclami trionfalistici degli anni ’90, nonostante tuttora ci si ostini a presentare la transizione come un successo, nella maggior parte dei casi la situazione è tutt’altro che rosea, se non proprio fallimentare.
Per molti paesi, la fine del comunismo è coincisa con lunghi periodi di guerra ed instabilità, dall’ex-Yugoslavia, al Caucaso all’Asia Centrale, fino, recentemente, all’Ucraina. Per quasi tutti, il decennio seguito alla caduta del muro è stato un periodo di povertà. Purtroppo, come evidenziato da Branko Milanovic in un recente post, le performance economiche di molti paesi continuano ad essere disastrose: per alcuni – prevalentemente in Asia Centrale, ma anche paesi a noi ben più vicini come Serbia e Ucraina – non si è ancora tornati ai redditi pro-capite del periodo socialista. Per quasi tutti gli altri, la distanza con il mondo occidentale si è ampliata (come in Russia, Croazia, Ungheria) o rimasta immutata (in Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Slovenia): altro che catching-up! E solo per pochi leggi tutto
L’eccezionalità o la normalità tunisina?
Il processo di nation building che la Tunisia ha avviato all’indomani della rivolta del 2011 è apparso più efficace e meno travagliato rispetto agli sviluppi, anche drammatici, verificatasi nell’area, in Libia come in Egitto. L’affermazione del partito islamico Ennadha, premiato dagli elettori tunisini nell’ottobre 2011 per l’estraneità e l’opposizione alla corruzione del passato regime, aveva indubbiamente prodotto un certo sconcerto nel paese da sempre considerato “culturalmente secolare” mettendo in allerta il fronte laico della società civile tunisina. Sembrava potesse essere compromesso quel percorso intrapreso fin dai giorni dell’indipendenza caratterizzato da un confronto costruttivo tra Islam e laicità. Tale confronto ha accompagnato la storia tunisina, tanto che si può parlare di un’eccezione della Tunisia come paese transculturale che ha sempre vissuto una dimensione multipla.
Un confronto costruttivo che si è manifestato anche negli ultimi anni in cui il paese ha vissuto una transizione non priva di tensioni politico-sociali e di difficoltà di mediazione che hanno attraversato il processo costituente. La promulgazione della Costituzione, avvenuta nel gennaio 2014, è stata, infatti, il frutto di una mediazione nell’Assemblea nazionale Costituente tra posizioni politiche distinte. Ma lo sforzo dei costituenti attraverso il dibattito, talvolta aspro che ha accompagnato la stesura della Costituzione, leggi tutto
Erdogan vs. Lawrence d’Arabia: la Turchia, l’ISIS e i confini mediorientali
Il 13 Ottobre 2014 il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in occasione dell’apertura dell’anno accademico presso la Marmara University di Istanbul, ha tenuto un discorso controverso, balzato rapidamente in primo piano sulla stampa internazionale.
Secondo Erdogan, per comprendere la profonda crisi dell’intera regione mediorientale, bisogna risalire alle azioni britanniche e francesi dopo la prima guerra mondiale e all’accordo segreto di Sykes-Picot.
“Ciascun conflitto in questa regione è stato disegnato un secolo fa”, afferma con forza Erdogan e arricchisce poi la sua invettiva, citando un celebre ufficiale e agente segreto dell’esercito britannico, Thomas Edward Lawrence, personaggio immortalato poi nel celebre film “Laurence d’Arabia”, diretto da David Lean nel 1962. T.E. Laurence, durante la prima guerra mondiale, dietro indicazione del governo britannico, sostenne e incoraggiò il nazionalismo arabo e la rivolta araba contro l’Impero Ottomano. Erdogan oggi inveisce contro i nuovi “Laurence d’Arabia”: “giornalisti, uomini religiosi, scrittori e terroristi”, che a suo parere sono i nuovi nemici dell’intera regione.
Ma cerchiamo di capire, anzitutto storicamente, di cosa stiamo parlando.
L’accordo di Sykes–Picot fu un accordo segreto, firmato nel maggio del 1916 fra l’Inghilterra, rappresentata da Sir Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da François Georges-Picot, per decidere quali sarebbero state le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo, ritenuto imminente, dell’Impero Ottomano. L’obiettivo era la suddivisione della cosiddetta “Mezzaluna fertile”, cioè l’intera area che va dal Mediterraneo orientale alla Mesopotamia, in due aree di influenza. All’Inghilterra fu riconosciuto il controllo di un’area leggi tutto
La riorganizzazione autoritaria dell’Egitto
Approfittare della mancanza del Parlamento per legiferare per decreto. È questa l’ultima ricetta egiziana per tornare a controllare la sfera pubblica che ha cercato di guadagnare voce dopo la rivoluzione di piazza Tahrir. È da più di un anno che l’Egitto non ha un parlamento. La camera bassa è stata sciolta nel giugno 2012 e quella alta ha smesso di lavorare dopo l’intervento militare del luglio 2013, prima di venir definitivamente abolita dalla Costituzione entrata in vigore lo scorso gennaio. Aspettando l’elezione di un nuovo legislativo – prevista entro fine anno, ma ancora in alto mare - il governo ha approfittato degli spazi lasciati dall’art.156 della Costituzione per rispondere con ampia discrezionalità a questioni ritenute urgenti. Attraverso un mix di misure di controllo dirette e indirette, il nuovo regime sta quindi restringendo nuovamente lo spazio pubblico egiziano.
Sfruttando le lacune istituzionali esistenti, già lo scorso novembre l’esecutivo ha promulgato una legge sulle manifestazioni che garantisce al Ministero dell'Interno ampi poteri discrezionali sulle proteste e individua diverse circostanze in cui i manifestanti violano la legge, dando alle forze di sicurezza briglia sciolta contro i manifestanti. A giugno, è stata poi presentata l’ultima bozza della legge sulle Organizzazioni non governative che imporrebbe una maggiore vigilanza da parte del governo, attraverso un Comitato di coordinamento con potere di veto sulle attività e sulle finanze delle Ong, nonché pene più severe per coloro che non sono conformi alle normative. Da quando, il 20 ottobre, sono state finalmente riaperte le università, le autorità hanno cercato di controllare anche il dibattito interno ai campus, storicamente terreni fertili a insurrezioni anti-governative, anche di colore islamista. leggi tutto
Il risveglio della Chiesa argentina. La ricerca dei “bambini scomparsi” nel periodo della dittatura.
Le nude cifre spesso sanno impressionare più di quanto non facciano pagine e pagine di commenti. In Argentina quattrocento famiglie ancora cercano i “bambini rubati”. Sono i figli delle donne in attesa sequestrati negli anni del terrorismo di Stato, quando le mamme venivano lasciate sopravvivere fino al termine della gravidanza, salvo poi vedere affidati i loro neonati a famiglie legate alla dittatura militare (1976-1983). Ai piccoli era cambiata l’identità, nascosta la verità, impedita la consapevolezza delle proprie origini. I genitori naturali, nella stragrande maggioranza dei casi, non restavano in vita. Sono state le nonne, le Abuelas de Plaza de Mayo ad attivarsi per cercare quei bambini, definiti da alcuni “bottino di guerra”. Di cinquecento che nacquero nelle prigioni clandestine, poco più di un centinaio hanno potuto sapere.
La voce dei vescovi
Nel fluire della storia ci sono ritardi che impressionano: è nell’ottobre 2014 che i vescovi argentini hanno preso decisamente la parola sul tema dei “bambini nascosti”. Lo hanno fatto attraverso uno spot registrato dal presidente della Conferenza Episcopale nazionale, José María Arancedo, e destinato ad andare in onda sulle reti televisive e radiofoniche nazionali. Il titolo è “La fede muove verso la verità”. Arancedo nel video appare a fianco di Estela de Carlotto e Rosa Roisinblit (presidentessa e vicepresidentessa delle Abuelas de Plaza de Mayo). Parla in nome dei vescovi argentini per chiedere a chiunque abbia notizie sui ricoveri in cui sono stati i bambini sequestrati, o sia a conoscenza dei luoghi i cui i loro genitori sono stati sepolti clandestinamente, di riconoscere il proprio obbligo morale: devono rivolgersi alle autorità competenti. Si spera che il mezzo televisivo e quello radiofonico abbiano la capacità di moltiplicare leggi tutto
La continuità, ovvero il cambiamento
Domenica scorsa, Dilma Rousseff ha vinto il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Brasile. Seppur di misura (Rousseff ha raccolto il 51,58% dei voti mentre il suo avversario, Aecio Neves, si è fermato al 48,42%) il risultato ha una portata storica. Per la prima volta, nella storia della Repubblica Brasiliana, uno stesso partito esprime il Presidente per il quarto mandato consecutivo: la prima presidenza di Dilma, infatti, che si avvia alla conclusione è stata preceduta da due periodi presidenziali di quello che può essere definito il suo mentore politico, Lula. Una vittoria di misura, dunque, che, per la verità, non ha sorpreso nessuno. E, questo, nonostante la lunghissima campagna elettorale abbia riservato moltissime sorprese: dall’alleanza tra i socialisti e gli ambientalisti alla morte di uno dei candidati, passando per il testa a testa tra Neves e Marina Silva nella lotta per il secondo posto al primo turno. Per non parlare, poi, delle proteste di piazza del giugno 2013, in concomitanza con la Confederation Cup.
“Cambiamento” e “Riforma”
Per certi versi, la vittoria di Dilma e del suo partito, il Partido dos Trabalhadores (Pt), sembra più un inizio che un consolidamento. E sono state proprio le parole del Presidente a rivelare questo tratto. Qualche ora dopo la chiusura dei seggi, festeggiando la vittoria, Dilma ha sostenuto che le due parole d’ordine di queste elezioni erano state “cambiamento” e “riforma”. Questa peculiarità è stata percepita anche dai mercati internazionali, che, forse per questo, hanno registrato reazioni incerte e schizofreniche. La giornata di lunedì scorso è stata complicata per l’economia brasiliana: l’indice della Borsa di San Paolo ha chiuso con un -3% (trascinata a picco da un -12% della Petrobras, azienda a partecipazione statale) e la moneta nazionale si è deprezzata rispetto al dollaro. Perdite, entrambe, parzialmente rientrate nella giornata di martedì. leggi tutto
Un ministro degli Esteri per l’Italia
Da quando esiste come Stato unitario, l’Italia ha sempre ambito ad avere una propria politica estera, tale da mettere in evidenza ruolo e ambizioni del nuovo soggetto internazionale e della sua centralità nel Mediterraneo. La realtà geopolitica, cioè il fatto che l’Italia doveva l’unificazione all’intervento di Napoleone III e che il Mediterraneo fosse dominato dall’egemonia navale britannica erano i due confini entro i quali muoversi. Perciò fino al 1871 l’Italia seguì la Francia e dopo si accostò alla Gran Bretagna. Con la nascita dell’Impero tedesco il duo egemone si trasformò in un trio e le possibilità di scelta dell’Italia crebbero, al punto che essa stipulò, nel 1882 la Triplice alleanza: con l’Austria e la Germania. Dopo la Prima guerra mondiale per qualche anno le cose parvero cambiare e nel 1922 Mussolini ritenne che fosse giunto il momento di sganciarsi dai condizionamenti esterni per agire come “cavaliere solo”. Si sbagliava perché la rinascita della Germania hitleriana e la sua alleanza di fatto (1933-39) con la Gran Bretagna lo mise fuori gioco, anche perché i francesi dal 1936 avevano in pratica rotto con il fascismo. Dopo la Seconda guerra mondiale e la fase di assoluto controllo americano, quando l’Europa incominciò a crearsi una propria immagine internazionale, l’Italia riprese il solito metodo. Ma questa volta aveva solo tre possibilità: avvicinarsi alla Francia o alla Germania o diventare il vero campione dell’europeismo. E dopo il 1990 le possibilità ritornavano a essere una sola, poiché la Germania unificata era troppo forte perché chiunque in Europa potesse opporsi alla sua volontà: come i fatti dimostrano ogni giorno. leggi tutto
Le sfide politiche poste da Kobane
Nonostante le attese della maggior parte degli osservatori internazionali, la città di Kobane (Ras al ‘Ayn in arabo) non è caduta nelle mani delle milizie dello Stato Islamico. La resistenza ad oltranza delle Unità di Protezione Popolare (YPG) sostenute dai bombardamenti aerei statunitensi ha dimostrato come l’avanzata delle truppe dell’autoproclamato Califfo al Baghdadi sia ben lungi dall’essere inarrestabile. Come visto anche recentemente in Iraq, dove le Iraqi Security Forces, le milizie sciite o i peshmerga curdi sono dapprima arretrate e poi hanno contenuto i miliziani islamisti, lo Stato Islamico non è in grado di vincere lo scontro militare ogni qualvolta si trova a combattere con un avversario ben addestrato, dunque disciplinato, equipaggiato a dovere, sostenuto dall’aviazione ma soprattutto motivato nella difesa del territorio e nell’opposizione ai progetti del cosiddetto Califfato.
Questi elementi portano dunque ad alcune riflessioni sul merito “militare” e “politico” degli eventi in corso, e delle loro implicazioni anche per le politiche di casa nostra. Anzitutto, l’esito degli interventi militari e politici esterni dipendono sempre e comunque in ultima analisi dalla forza dei partner locali, ossia di chi vive in quei territori. Gli interventi esterni possono certo influenzarne le direzioni e i caratteri ma difficilmente ne determinano le sorti. In questo caso, è stata la resistenza delle forze curde dell’YPG a spingere Washington a rivedere parzialmente i propri piani e ad intervenire a difesa di un teatro che fino a qualche settimana fa considerava “secondario”: come del resto considerava secondario anche Sinjar, dove le comunità crude yazide, cristiane e musulmane hanno rischiato il genocidio e si sono in parte salvate proprio per l’intervento militare delle YPG e del PKK. leggi tutto
La “linea di massa” di Xi Jinping: lotta alla corruzione e lotta per il potere nel Partito Comunista Cinese
A circa quindici mesi di distanza dalla sua inaugurazione il 18 giugno 2013, il Partito Comunista Cinese ha dichiarato conclusa alla fine dello scorso settembre la campagna politica di rettificazione della “linea di massa” (qunzhong luxian). L’obiettivo primario della campagna, dai toni e dagli slogan esplicitamente maoisti, è stato riavvicinare il Partito alle masse cinesi, eliminando in particolare i quattro “mali” che affliggono i suoi membri: formalismo, burocratismo, edonismo e stravaganza.
I risultati sono stati recentemente annunciati con i consueti toni trionfalisti da parte dell’agenzia di stampa cinese Xinhua: 586000 riunioni di partito in meno; la rimozione di più di 160000 “impiegati fantasma;” circa 300000 membri puniti per uso inappropriato di fondi pubblici e infrazioni nei codici di condotta; infine, una riduzione di nove miliardi di dollari americani nei fondi pubblici utilizzati per viaggi all’estero, “auto blu” e ricevimenti ufficiali. Si tratta di cifre enormi, che gettano indirettamente una luce inquietante sulla vastità degli sprechi e dei fenomeni di corruzione interni al Partito. Fatte le debite proporzioni demografiche, son cifre che farebbero impallidire perfino alcuni burocrati dell’amministrazione regionale siciliana.
Masse, tigri e mosche:
I numeri mirabolanti della campagna aggiungono quindi un nuovo capitolo alla lotta senza quartiere alla corruzione indetta da Xi Jinping sin dall’inizio del suo mandato, la cosiddetta “caccia alle tigri e alle mosche.” “Tigri” quali Bo Xilai e Zhou Yongkang, i due ex pesi massimi del Partito caduti in disgrazia, ma anche “mosche,” come le centinaia di migliaia di quadri, dal livello provinciale a quello di villaggio, che hanno approfittato della loro posizione per arricchirsi principalmente tramite il controllo dello sviluppo edilizio. leggi tutto