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I grandi dell’Africa ad Addis Abeba per il Vertice dell’Unione Africana
Diritti umani, sicurezza, migrazioni, contrasto al radicalismo e situazione in Libia: questi i principali temi inseriti nell’agenda del 26° Vertice dell’Unione Africana che si è tenuto a fine gennaio ad Addis Abeba, in Etiopia. Tante le aspettative e altrettanti i problemi scottanti in discussione, dalla crisi del Burundi al terrorismo della nigeriana Boko Haram e della somala Al Shabaab. Poche purtroppo le decisioni e quasi tutte nella direzione di uno scostamento rispetto al percorso di depotenziamento delle violenze e del rafforzamento diffuso dei diritti umani.
È stato il presidente del Ciad, Idriss Déby Itno, designato nuovo presidente dell’Organizzazione regionale africana in sostituzione dell’anziano Capo di Stato dello Zimbabwe, Robert Mugabe, a far risuonare nella sala la profonda apprensione per la situazione in Burundi, un potenziale disastro di portata ben più vasta dei confini del piccolo Stato centroafricano. Già in dicembre le centinaia di migliaia di profughi, le sparizioni forzate e le uccisioni sommarie di oppositori del governo, giornalisti o attivisti, nonché la creazione di milizie armate, avevano indotto il Consiglio per la pace e la sicurezza (CPS) dell’Unione Africana a sancire l’invio in Burundi di una missione di peacekeeping di 5.000 unità per stabilizzare la situazione e proteggere i civili. Tuttavia, il mancato assenso del presidente burundese Pierre Nkurunziza aveva bloccato il dispiegamento e, alla vigilia del Summit, sembrava possibile che il consesso di alto livello dell’UA avrebbe tentato di imporre la decisione al Burundi. Tutt’altro ciò che si è verificato. leggi tutto
Ancora una volta.
Aleppo. Le notizie che giungono dalla Siria nelle ultime settimane mostrano un quadro militare in veloce trasformazione a fronte dell'immobilità sostanziale del quadro politico. Il governo di Damasco sta cercando di cingere d'assedio Aleppo, la seconda città della Siria e una volta centro economico e produttivo del Paese. I soldati dell'esercito siriano, assieme alle truppe iraniane e altre formazioni paramilitari alleate, sfruttano la potenza di fuoco dell'aviazione russa che da settembre attacca senza sosta principalmente le forze di opposizione armate: laici, islamisti. Ovviamente, a farne le spese sono principalmente i civili. Negli ultimi mesi sono riusciti a riconquistare e "mettere in sicurezza" le roccaforti governative sulla costa mediterranea. Successivamente, negli ultimi dieci giorni sono riusciti ad avanzare nelle campagne a ovest, sud ed est della città di Aleppo, riconquistando terreno tanto alle opposizioni armate quanto all'Organizzazione dello stato islamico. In questo modo, hanno tagliato una delle due linee di comunicazione e rifornimento della città di Aleppo con il confine turco. I portavoce del governo di Damasco tornano a parlare di vittoria, militare.
Il successo della controffensiva del fronte Damasco-Mosca-Teheran mostra la potenza, e finora l'efficacia, dell'integrazione tra aviazione e intelligence russa e truppe iraniane e siriane. Da un punto di visto organizzativo, e politico, riporta in auge il primato delle forze armate regolari rispetto alle milizie paramilitari, qui spesso comunitarie e confessionali, che dal 2014 all'autunno leggi tutto
Nessuna guerra è giusta, tranne… Star Wars, o le difficili parole delle nuove guerre (1).
«Siamo isolati, siamo disarmati»
«Non è come se stessimo per riaprire i rifugi antiaerei», ha dichiarato Henry Rousso in un articolo pubblicato da Le Monde all’indomani degli attentati di Parigi «ma gli europei si devono interrogare sulla loro capacità di organizzarsi per la nuova guerra e di viverla», anche a costo di richiamare dal passato esperienze che si pensavano seppellite, come l’idea del sacrificio di sé e la necessità di saper ricorrere alla violenza delle armi. Quella di Rousso, uno dei maestri riconosciuti tra gli storici dei conflitti novecenteschi e del totalitarismo, è stata una delle voci più lucide e incisive che si è levata nel disorientamento generale seguito alle stragi del 13 novembre. Mentre François Hollande proclamava ad una nazione spaventata che ci si trovava di fronte ad una nuova guerra, lo storico si interrogava su quali strumenti culturali avessero i francesi per affrontare la nuova prova. «Di fronte alla minaccia siamo isolati, siamo disarmati». E’ difficile dargli torto. Gli europei di oggi sono gli eredi della demilitarizzazione seguita all’apocalisse del 1945, quell’età post-eroica, per usare un’espressione di James Shehaan un po’ grossolana ma indubbiamente efficace, durante la quale armi e armati sono stati rimossi dalla quotidianità e dall’immaginario, anche se non dalla politica reale. leggi tutto
Prezzi del petrolio in discesa: opportunità e rischi
Un piccolo rimbalzo del prezzo del petrolio da 27 a 32 dollari tra venerdì 22 gennaio e inizio settimana non altera molto la condizione dei mercati dell’oro nero che hanno visto le quotazioni scendere dai quasi 110 dollari a barile toccati nel 2012-4 ai livelli del 1979. Come cambiano le prospettive dell’economia mondiale con un prezzo del petrolio tornato ai livelli di quasi 40 anni fa? Chi ci guadagna? Chi ci perde? E come saranno i prezzi nel futuro prossimo?
Iniziamo dall’ultima questione osservando che dal 2008 il consumo di petrolio nel mondo è cresciuto ad un misero tasso annuo dello 0.5%. Dal 2000 l’energia prodotta con le rinnovabili è cresciuta circa 15-16 volte e quella idroelettrica dal 2010 ha compensato con la sua salita la lenta discesa di quella nucleare. Le proiezioni dei consumi per i prossimi 15 anni, per quanto veritiere, ci danno tassi di crescita annuali del consumo di petrolio attorno allo 0.4%. A fronte di nuovi giacimenti scoperti soprattutto in Africa, produzione Usa di shale oil e ripresa estrazione in Iran le previsione di prezzi, a meno di conflitti di larghe proporzioni, sono piatte se non cedenti.
Per capire invece gli effetti del basso prezzo dell’energia, occorre muoversi per grandi aree. Nei paesi produttori del golfo persico le entrate fiscali provengono in gran parte dalle royalty su petrolio e gas esportati. Ad esempio, nel sultanato dell’Oman, petrolio e gas fanno il 72% del bilancio pubblico. leggi tutto
L’Africa centrale che sogna la pace
Pochi giorni fa il Programma Alimentare Mondiale (PAM/WFP) ha lanciato l’allarme attraverso le parole del vice direttore dell’Agenzia Specializzata dell’ONU, Guy Adoua. Nella conferenza stampa è echeggiata la stima secondo cui 2,5 milioni di persone nella Repubblica Centrafricana (RCA) si troverebbero in una “situazione di scarsa o grave insicurezza alimentare”. Poco più di un individuo su due tenendo conto che la popolazione del Paese sub-sahariano conta meno di 5 milioni di abitanti. Non si tratta di un allarme che sorprende il mondo della cooperazione: lo scorso anno una analoga verifica di emergenza sulla sicurezza alimentare in RCA aveva indicato un rischio per “appena” 1,5 milioni di persone, il 30% della popolazione. “Tre anni di crisi hanno stremato la popolazione della Repubblica Centrafricana, facendole pagare un tributo enorme” ha dichiarato Guy Adoua che ha portato doverosamente l’attenzione sulla ragione principale di tale disastro umanitario, ossia l’insicurezza diffusa. Secondo il rapporto, il raccolto del 2015 è stato povero dal momento che gli agricoltori non hanno potuto coltivare i campi, con centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire, abbandonando abitazioni, terre e mezzi di sostentamento.
Dal dicembre del 2012 nel Paese imperversa una guerra civile tra la fazione musulmana Séléka e i guerriglieri cristiani anti-Balaka. Un conflitto a lungo restato senza vie di uscita se non la fuga leggi tutto
Empowerment femminile, sviluppo e tutela dell’ambiente nel continente africano
Secondo le stime della Banca Mondiale, l’Africa ha conosciuto un’incredibile crescita economica nel corso dell’ultimo decennio (per quanto al momento si prevede che nel 2015 le performances del continente abbiano rallentato), con una crescita media del Pil che si protrarrà anche nei prossimi anni. Le cause di questa crescita sono da attribuire all’aumento della domanda interna ed estera, agli investimenti nelle infrastrutture e ai consumi privati, sostenuti dal basso prezzo del petrolio. Esistono comunque alcuni aspetti critici: anzitutto s è registrato un calo degli investimenti diretti esteri cinesi, inoltre si stima che le rimesse estere siano diminuite nel corso del 2015, probabilmente come conseguenza dell’apprezzamento del dollaro, e infine persistono situazioni di crisi politica e sanitaria nella regione che mettono a rischio non solo l’andamento dell’economia ma anche la pace e il benessere della popolazione.
Nonostante miglioramenti in alcuni paesi e in alcuni ambiti specifici, il continente africano continua a rimanere il fanalino di coda nelle statistiche del Rapporto sullo sviluppo umano ed è particolarmente vulnerabile alla sicurezza alimentare, come evidenziato nel Rapporto 2012 dell’UNEP dedicato allo sviluppo umano in Africa, dal titolo “Africa Human Development Report: Towards a Food Secure Future”. Lo studio evidenziava che la fame continua ad essere pervasiva in questa regione del mondo, nonostante un’abbondanza di risorse agricole, un clima favorevole leggi tutto
Se l’islamismo è una nevrosi. Per una terapia psicanalitica del fenomeno ISIS
La sconfitta del fondamentalismo di matrice islamista potrebbe non dipendere dall’azione degli eserciti o dalle mediazioni di qualche diplomatico, ma dalle considerazioni di un analista svizzero di inizio Novecento. Più precisamente, di Carl Gustav Jung: allievo di Freud e padre di una delle teorie psicanalitiche più ricche e fortunate. La tesi può sembrare provocatoria, ma merita attenzione. Il principio di partenza è piuttosto lineare: le società sono composte da persone; ergo: i disturbi che affliggono gli individui, se particolarmente diffusi, possono trasferirsi alla società nel suo complesso. L’assunto non appare rassicurante, ma ci sono implicazioni positive. La prima: se davvero il “male sociale” corrisponde a quello individuale, il metodo più efficace per sanarlo può essere lo stesso che viene impiegato per vincerlo nella loro dimensione soggettiva. Il che è già di per sé sorprendente. Lo è ancor di più se ci si focalizza su un aspetto piuttosto trascurato: a ben guardare, l’integralismo è una forma di nevrosi. Com’è ovvio, non lo si vuol ridurre a una mera devianza psicologica. È evidente che i fenomeni di massa siano determinati da un concorso di fattori, anzitutto storici ed economici. Tuttavia, è indubbio che il radicalismo islamico, nelle sue manifestazioni private come in quelle collettive, ricalchi molte delle intuizioni di Jung. La chiave è spinosa, poiché si presta meno di altre interpretazioni alle semplificazioni giornalistiche e alle strumentalizzazioni politiche cui siamo, nostro malgrado, abituati. leggi tutto
Yemen, un conflitto all'ombra dei media
Le cose si intrecciano, quasi sempre. Così capita che la guerra che nello Yemen si combatte ormai da più di un anno sia l’intreccio di realtà differenti. Da un lato ha la faccia della guerra interna – civile l’avremmo chiamata qualche anno fa – tutta puntata al controllo e al governo del Paese. Dall’altro ha l’aspetto dell’ingerenza di una potenza media straniera – l’Arabia Saudita – nei fatti di uno stato indipendente.
Si parla meno, molto meno di quanto si dovrebbe di questa guerra. Prima cosa, giusto per non sbagliarci: è guerra vera, i morti ormai sono migliaia e sono quotidiani. Prendete un giorno a caso, il 18 gennaio 2016: 26 persone morte e 15 ferite per gli effetti di un bombardamento aereo da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Le bombe sono cadute sulla capitale, Sanaa, controllata dalle milizie sciite Houthi. Dal settembre del 2014 questa popolazione ha cacciato il presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, sunnita, scatenando la guerra interna. L’Arabia Saudita, paese sunnita e integralista, non poteva accettare che degli sciiti governassero nella Penisola Arabica e ha scatenato la razione, cioè la guerra.
Ora: lo Yemen non è mai stato un paese tranquillo. Fino al 1990 era diviso in due, Yemen del Nord e Yemen del Sud, con i governi spesso in conflitto fra loro. L’unificazione non ha trovato nuovi equilibri, anzi. Le tensioni interne, fra Governo centrale e Clan, sono sempre state fortissime. leggi tutto
Ashraf Fayadh, l’Arabia Saudita e la libertà di stampa
Secondo Albert Camus “La stampa libera può essere buona o cattiva, ma è certo che senza libertà non può essere altro che cattiva”. È evidente che il regime saudita non la pensi allo stesso modo: condanne a morte per apostasia, esecuzioni pubbliche e frustate per i prigionieri. Un numero sempre crescente di vittime sacrificali dell’assolutismo ideologico di Riad. L’uccisione dello sceicco Nimr al-Nimr, insieme a quella di altre 47 persone, – dello scorso 2 gennaio - è solo l’ultima sulla linea cronologica.
E poi c’è Ashraf Fayadh, poeta, 35 anni e origini palestinesi. Fayadh è stato arrestato per la prima volta il 6 agosto 2013, in seguito alle rimostranze di un cittadino saudita secondo cui l’autore avrebbe promosso l’ateismo e diffuso idee blasfeme tra i giovani con la sua antologia poetica, Instructions within (2008). Il giorno successivo, il rilascio su cauzione. Ma la sua libertà è stata altrettanto breve: il 1 gennaio 2014 viene nuovamente incarcerato con l’accusa di apostasia. A questo primo capo d’imputazione se ne aggiunge un secondo: la violazione dell’articolo 6 della legge saudita contro il cybercrimine, per aver scattato fotografie a donne con il proprio cellulare e averle conservate. Risultato: una condanna a quattro anni di detenzione e 800 frustate. Successivamente il suo caso viene giudicato da una seconda corte che, il 17 novembre scorso, lo condanna a morte. leggi tutto
Un test per tutti: la bomba nordcoreana, la fine della deterrenza e la mancata leadership statunitense.
Il recente annuncio secondo il quale la Corea del Nord avrebbe sperimentato con successo armi termonucleari, le cosiddette bombe all’idrogeno o bombe-H, ha scosso l’opinione pubblica mondiale, confermando, almeno in parte, la stratificazione e il consolidamento di una coscienza assolutamente contraria alla proliferazione degli ordigni atomici. Nonostante i proclami, però, la detonazione avvenuta nelle prossimità della capitale nordcoreana parrebbe non esser stata provocata da una bomba-H “pura”, basata cioè su una reazione di fusione nucleare in grado di rilasciare una quantità di energia nell’ordine dei megatoni (milioni di tonnellate di tritolo).
Più verosimilmente si tratterebbe di una più tradizionale arma atomica il cui rilascio di energia avviene per fissione nucleare e la cui portata distruttiva si situerebbe nell’ordine di qualche decina di chilotoni (migliaia di tonnellate di tritolo), non di molto superiore cioè alle armi utilizzate dagli statunitensi a Hiroshima e Nagasaki. Nel caso nordcoreano, si tratterebbe, se le analisi degli esperti dovessero confermarlo, di un’arma atomica arricchita all’idrogeno, dove questo elemento chimico svolgerebbe un ruolo di moltiplicatore di energia e, assieme, una funzione molto più fisica che chimica, cionondimeno molto importante. leggi tutto