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Eritrea: una nuova guerra con l'Etiopia?
“A centinaia di giovani è stato fatto credere che là fuori c’è il paradiso…
ma è un complotto orchestrato per privare questo paese dei suoi giovani…
E’ un’operazione guidata, organizzata e finanziata dalla CIA”
Isaias Afwerki, Maggio 2008
Le stime sono incerte, ma negli ultimi dieci anni su una popolazione di quasi 6.5 milioni, oltre 400.000 eritrei hanno lasciato il paese; recentemente questo esodo è esploso e ogni mese tra i quattro e i cinquemila eritrei cercano rifugio in Europa, oltre che Sudan ed Etiopia. Per avere un’idea, nel 2015, un quarto migranti sbarcati sulle coste italiane proveniva dall’Eritrea.
I motivi di questo esodo son presto detti: ufficialmente, il paese è una repubblica presidenziale, in realtà è una dittatura spietata. Dal 1993, data dell’indipendenza, non ci sono elezioni e al potere ininterrottamente c’è Isaias Afwerki, guida dell’unico partito ammesso, il Fronte Popolare per la Democrazia e Giustizia. Leader della lotta per l’indipendenza, ha trasformato il paese in una caserma, con l’intera popolazione costretta ad un servizio militare obbligatorio e di durata indeterminata; non c’è una costituzione in vigore, la magistratura è evanescente, mentre società civile, stampa e opposizione sono represse brutalmente. Il servizio internet è monopolio di stato, leggi tutto
Autocrazie militari dei Paesi islamici e stabilità: un ruolo perduto
Quando sono arrivate le prime notizie sul “golpe” ai danni di Erdogan, in molti, in Occidente, hanno tirato un sospiro di sollievo e qualcuno ha anche brindato: «Stop al progetto panislamico» s’è detto. Se consideriamo la storia dell’Islam contemporaneo, ci rendiamo conto che queste posizioni erano meno incaute e avventate di quel che a prima vista potrebbe pensare.
È già accaduto, infatti, che le elite militari abbiano fermato i partiti islamici. In Algeria, all’inizio degli anni Novanta, il partito islamico vinse le elezioni amministrative e poi quelle politiche e cominciava a reclamare un ruolo di primo piano nella politica nazionale. L’elite politico-militare algerina (il pouvoir, come veniva definita la triade Esercito-Partito-Presidente) disconobbe quei risultati. Ne scaturì una sanguinosa guerra civile, che produsse decine di migliaia di morti tra gli insorti, la popolazione civile e tra i militari (cogliamo l’occasione per invitare a rivedere Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois, anche in memoriam di padre Jacques Hamel). L’attuale presidente algerino avviò una politica di pacificazione fondata su quattro pilastri: repressione durissima del radicalismo, amnistie e condoni per quanti non si erano macchiati di reati di sangue, rafforzamento dello stato sociale, rafforzamento del ruolo dell’Islam nella vita pubblica. Altro esempio classico è l’Egitto. leggi tutto
Chi è Fetullah Gülen, l’uomo accusato di aver ordito il golpe in Turchia
Turchia: nella notte tra venerdì 15 e sabato 16 luglio è iniziato - e finito miseramente - il tentativo militare di sovvertire il potere. La crisi turca è a tutti gli effetti una crisi internazionale: Ankara e Washington si sfidano a colpi di comunicati e dichiarazioni sull’estradizione, da parte degli Usa, dell’imam Fethullah Gülen, presunto ispiratore del tentativo di golpe. Non solo, stando a quanto riferito da fonti turche, alcuni rilevamenti radar, avrebbero evidenziato il coinvolgimento statunitense nelle rotte dei caccia che hanno condotto - dal cielo - il colpo di stato.
Nel primo comunicato diffuso dai golpisti, si parla di un’operazione dettata dalla necessità di arginare la deriva autoritaria e l’islamizzazione imposte da Recep Tayyip Erdogan. Le divisioni interne al Paese, dovute anche all’influenza della guerra civile siriana, hanno creato terreno fertile in cui l’operazione militare ha attecchito. Nonostante l’importante appoggio ai militari golpisti, un ancor più imponente sostegno popolare premeva per il ritorno del presidente democraticamente eletto. Al di là delle ipotesi ventilate dalla stampa internazionale - presunto golpe fasullo o di matrice americana - il sultano ha accusato l’imam Gülen di esserne l’ispiratore, il mandante ideologico. Erdogan ha quindi intimato agli Stati Uniti di consegnare loro il predicatore - pena l’inasprimento dei loro rapporti di “amicizia” - mettendo in difficoltà la Casa Bianca. leggi tutto
Gli Stati Uniti e i dilemmi dell’Asia-Pacifico
Annunciato fra squilli di tromba alla fine del 2011, che fine ha fatto – meno di cinque anni dopo -- il ‘pivot to Asia’ che avrebbe dovuto rappresentare uno degli elementi qualificanti della politica estera di Barack Obama? Il recente attivismo del Presidente uscente sul fronte dell’Asia-Pacifico induce a porsi questa domanda soprattutto dopo che, in una lunga serie di circostanze critiche (prime fra tutte le iniziative ‘muscolari’ della Corea del Nord durante le ripetute crisi nucleari e missilistiche degli ultimi anni), la risposta di Washington è stata, nelle migliore delle ipotesi, ‘di basso profilo’. Con la partenza di Hillary Clinton dalla Segreteria di Stato (2013), il ‘pivot’ sembra essersi via via diluito fino ad assumere, negli ultimi anni, la forma di un più blando ‘rebalancing’. Parallelamente, i rapporti con la Cina (il cui contenimento costituiva uno degli obiettivi per cui il ‘pivot’ era stato pensato), sembrano essere migliorati. Fra il 2009 e il 2014, il Presidente Obama ha compiuto due visite ufficiali nel Paese asiatico e altrettante ne ha compiute il Vicepresidente Biden (2011 e 2013).
Parallelamente, fra il 2011 e il 2015, due presidente cinesi si sono recati in tre occasioni negli USA: Hu Jintao nel gennaio 2011 e Xi Jinping nel febbraio 2012 e nel settembre 2015. L’integrazione economica fra i due Paesi è cresciuta, leggi tutto
Non ci sono più i golpe di una volta…
Il dittatore dello stato libero di Bananas
In una delle sequenze più geniali di Bananas (1971), Woody Allen mette in scena un reparto di mercenari assoldati dalla CIA in volo per partecipare all’ennesimo golpe nello staterello immaginario di Bananas. Alla domanda di un soldato «si combatte per o contro il governo?», qualcuno prontamente replica «l’Agenzia non vuole correre rischi questa volta. Metà di noi sono per e metà di noi contro il governo». Che tra la commedia di Allen e il tentativo (presunto tentativo? falso tentativo?) di colpo di stato militare in Turchia fallito nella notte tra venerdì e sabato scorsi ci siano delle assonanze grottesche, è un’evidenza. Che il disorientamento e la confusione abbiano dominato anche nel racconto degli eventi da parte dei media italiani, è un’altra. Chi ha assistito alla lunga diretta che le emittenti all news in chiaro (RaiNews24, Sky News) e La7 hanno dedicato al racconto di ciò che stava succedendo a Istanbul e Ankara, ha raramente avuto la possibilità di comprendere ciò che stava succedendo, quali erano gli attori del gioco e soprattutto quali potessero essere gli scenari probabili. Solo una parte di questo pasticciaccio brutto della mancata informazione italiana può essere addebitato alla obiettiva confusione leggi tutto
Il verdetto sulla disputa territoriale sino-filippina e la strategia comunicativa di Pechino.
Martedì 12 luglio il tribunale designato dalla Corte permanente di arbitrato dell'Aia ha emesso il verdetto sulla complessa disputa territoriale tra la Repubblica delle Filippine e la Repubblica Popolare Cinese, riguardante la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE) lungo una serie di atolli e scogli nel Mare della Cina Meridionale (MCM). Sebbene la disputa tra Manila e Pechino esista da decenni, la situazione si è tuttavia aggravata a partire dal 2009-2010, periodo in cui Pechino ha progressivamente assunto posizioni sempre più intransigenti nella risoluzione delle proprie numerose dispute territoriali, per poi peggiorare ulteriormente a partire dal 2014, quando ha dato inizio ad un intensivo programma di costruzione di isole artificiali nel MCM. Il risultato è stato una sconfitta assoluta per Pechino sul piano del diritto internazionale.
Il verdetto dell'Aia copre tre punti: il primo riguarda le azioni cinesi nei confronti delle Filippine, il secondo le rivendicazioni territoriali cinesi nell'area oggetto della disputa con Manila, ed il terzo le rivendicazioni territoriali cinesi nel MCM. Riguardo il primo punto, il tribunale ha stabilito che Pechino ha violato i diritti sovrani di Manila all'interno della ZEE filippina e i diritti di pesca leggi tutto
L'instabile stabilità dell'Algeria
Agli inizi degli anni 2000, con la fine della guerra civile tra governo e islamisti, il paese sembrava aver raggiunto una apparente stabilità, mantenuta anche a fronte delle proteste popolari della Primavera Araba e del successivo contagio jihadista del Da‘ish. In realtà il paese si regge su un fragile equilibrio, legato all’età del suo presidente ed esposto ai rischi della sua successione, della crisi economica e del terrorismo.
Bouteflika, 79 anni, è presidente del paese da 17 anni; eletto una prima volta nel 1999, è stato poi rieletto nel 2004, 2009 e 2014. Si tratta di vero e proprio appartchik del regime, avendo iniziato la sua carriera negli anni della lotta d’indipendenza come militante del Fronte di Liberazione Nazionale; poi ha rivestito alti incarichi nei successivi governi, sopravvivendo a processi per corruzione e defenestrazioni. Fu sotto la sua presidenza che ebbe fine alla guerra civile, sconfitti con le armi i movimenti islamisti più irriducibili, dopo averli isolati con amnistie. La fine della guerra civile, togliendo di mezzo l’opposizione islamista, rafforzò il regime, fondato su una simbiosi tra forze economiche, politiche e militari in grado di soffocare ogni alternativa politica; Bouteflika ha saputo poi imporre un equilibrio tra i poteri forti del regime, ovvero il presidente stesso, il partito governativo del Fronte di Liberazione Nazionale, le Forze Armate algerine e i Servizi di Sicurezza. leggi tutto
Per la storia di un’invasione, e di una catastrofe.
Londra, Baghdad
Dopo anni di ricerca d’archivio, interviste e di attesa il 6 luglio 2016 è stato finalmente pubblicato il cosiddetto Chicolt Report: un’inchiesta sul ruolo del Regno Unito nell’invasione ed occupazione dell’Iraq nel 2003. Il rapporto contribuisce a fare luce su un evento che segna in modo indelebile la storia internazionale dell’inizio del XXI secolo, e le cui conseguenze sono ben lungi dall’essere finite.
Come si ricorda nell’introduzione, il governo britannico decise di intervenire formalmente il 17 marzo 2003 e rimase una potenza occupante fino al 28 giugno 2004, per restare poi nel Sud-est del Paese come responsabile della sicurezza. I risultati principali a cui è giunta la commissione d’inchiesta riguardano il fatto che l’intervento armato non rappresentava lo strumento “di ultima istanza” (last resort) per impedire lo sviluppo delle armi di distruzione di massa da parte di Baghdad; queste ultime non esistevano o comunque il governo iracheno era lontano da poterle ricostruire dopo averle smantellate nel corso degli anni Novanta, come testimoniato dagli ispettori Onu guidati da Hans Blix. Le prove del possesso di armi di distruzione di massa erano false, costruite ad hoc, e il governo si affidò a queste ultime invece dei rapporti dell’Onu. Il Primo Ministro Tony Blair convinse il governo a seguire gli USA sempre e comunque, leggi tutto
Chi teme l’Arabia Saudita? L’ONU
Un bel distillato di realpolitik è stato di recente servito in mondovisione. Il rapporto annuale del Rappresentante speciale ONU sui bambini e sui conflitti armati presentato lo scorso 2 giugno è stato rivisto in tutta fretta nella notte del 6 giugno su richiesta dell’Arabia Saudita, che ha preteso la rettifica di un elenco particolarmente odioso dinanzi all’opinione pubblica: quello degli Stati e dei gruppi armati che violano i diritti dei bambini nel mondo. Di certo la non lusinghiera posizione della monarchia saudita, a causa del conflitto armato condotto dal marzo 2015 in Yemen nello stesso elenco con Isis e Boko Haram, ha indotto Riad a chiedere a gran forza la propria cancellazione dalla black list, anche minacciando il taglio dei finanziamenti erogati all’Organizzazione delle Nazioni Unite, in particolare quei 100 milioni di dollari annui vitali per le attività dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees, UNRWA).
Proprio il possibile taglio dei finanziamenti ha indotto il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ad accordare un riesame congiunto dei casi citati nel report originario che rilevava la responsabilità della coalizione saudita per il 60% delle vittime infantili nel conflitto in Yemen nello scorso anno, segnalando l’uccisione di 510 bambini e il ferimento di 667, con la metà degli attacchi su scuole e ospedali. leggi tutto
La Rivoluzione Culturale: un anniversario controverso.
Quest'anno ricorrono il cinquantesimo anniversario dell’inizio della Rivoluzione culturale cinese e i quarant’anni dalla sua fine. Avviata nel maggio del 1966 e conclusasi ufficialmente nel 1976 con la morte del “Grande Timoniere”, la Rivoluzione culturale rappresenta una delle pagine più buie della storia della Repubblica popolare cinese. La campagna lanciata da Mao Zedong per eliminare i suoi avversari politici, purificare il Partito comunista e arginare il pericolo del “revisionismo”, iniziò con una grande mobilitazione di giovani studenti (le cosiddette “guardie rosse”) contro gli apparati del partito e i suoi dirigenti. Il movimento gettò il paese nel caos causando più di un milione di vittime, e paralizzò il sistema politico cinese per circa un decennio. Il prestigio e l’autorità del Partito ne uscirono profondamente indeboliti.
Oggi, a cinquant’anni dal suo avvio, la Rivoluzione culturale rimane uno dei periodi più controversi e meno conosciuti della storia della Cina moderna. Eppure, si tratta di un periodo storico cruciale per la comprensione del presente. Come scrivono Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals nell’introduzione al recente volume Mao’s Last Revolution, “to understand the ‘why’ of China today, one has to understand the ‘what’ of the Cultural Revolution” (p. 3).
In Cina la Rivoluzione culturale è un tema delicato leggi tutto