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La “linea di massa” di Xi Jinping: lotta alla corruzione e lotta per il potere nel Partito Comunista Cinese
A circa quindici mesi di distanza dalla sua inaugurazione il 18 giugno 2013, il Partito Comunista Cinese ha dichiarato conclusa alla fine dello scorso settembre la campagna politica di rettificazione della “linea di massa” (qunzhong luxian). L’obiettivo primario della campagna, dai toni e dagli slogan esplicitamente maoisti, è stato riavvicinare il Partito alle masse cinesi, eliminando in particolare i quattro “mali” che affliggono i suoi membri: formalismo, burocratismo, edonismo e stravaganza.
I risultati sono stati recentemente annunciati con i consueti toni trionfalisti da parte dell’agenzia di stampa cinese Xinhua: 586000 riunioni di partito in meno; la rimozione di più di 160000 “impiegati fantasma;” circa 300000 membri puniti per uso inappropriato di fondi pubblici e infrazioni nei codici di condotta; infine, una riduzione di nove miliardi di dollari americani nei fondi pubblici utilizzati per viaggi all’estero, “auto blu” e ricevimenti ufficiali. Si tratta di cifre enormi, che gettano indirettamente una luce inquietante sulla vastità degli sprechi e dei fenomeni di corruzione interni al Partito. Fatte le debite proporzioni demografiche, son cifre che farebbero impallidire perfino alcuni burocrati dell’amministrazione regionale siciliana.
Masse, tigri e mosche:
I numeri mirabolanti della campagna aggiungono quindi un nuovo capitolo alla lotta senza quartiere alla corruzione indetta da Xi Jinping sin dall’inizio del suo mandato, la cosiddetta “caccia alle tigri e alle mosche.” “Tigri” quali Bo Xilai e Zhou Yongkang, i due ex pesi massimi del Partito caduti in disgrazia, ma anche “mosche,” come le centinaia di migliaia di quadri, dal livello provinciale a quello di villaggio, che hanno approfittato della loro posizione per arricchirsi principalmente tramite il controllo dello sviluppo edilizio. leggi tutto
Voci del cattolicesimo indiano. Presupposti per un nuovo cammino
Oltre le polemiche tra cardinali, oltre la resistenza della parte tradizionalista alle aperture ipotizzate dagli innovatori, il sinodo sulla famiglia offre l’occasione per volgere lo sguardo a parti della Chiesa universale geograficamente e culturalmente molto lontane da Roma. Una di queste realtà è l’India.
Essere minoranza religiosa
Indirizzati dall’urgenza, musulmani e cristiani hanno ripetutamente unito la propria voce a quella di movimenti sociali impegnati nella lotta per la difesa dei diritti civili. L’allarme suona a causa dei sempre più frequenti attacchi subiti dalle minoranze religiose per mano di estremisti indù. I dati raccolti raccontano di addirittura seicento casi acclarati tra maggio e settembre 2014. Non si tratta solo di violenza e di preoccupazione per l’incolumità e per la libertà di espressione dei fedeli delle religioni minoritarie. È anche un problema politico. Emerge dall’appello dei gesuiti indiani (Jesuits in Social Action) e dal dossier reso pubblico da John Dayal (segretario del consiglio cristiano pan-indiano) come diversi leader politici, nazionali e locali, sostengano apertamente le azioni estremiste e garantiscano sovente l’impunità ai colpevoli di violenze anche efferate. Per avere un’idea dei rapporti numerici attuali nel panorama religioso indiano, si noti che quasi l’80% della popolazione si professa induista, i musulmani si attestano intorno al 13% e i cattolici poco sopra il 2%. leggi tutto
La famiglia ONU: un peso o una risorsa per la comunità internazionale?
Il 16 settembre scorso David Nabarro, l’Inviato Speciale ONU per l’Ebola, ricordava in conferenza stampa che “la richiesta di 100 milioni di dollari di un mese fa è ora salita a 1 miliardo, ed è quindi decuplicata in un solo mese”. È la cifra a cui è stata valutata la “richiesta di riscatto” dell’intera comunità internazionale da un virus che in quasi 7 mesi ha fatto più di 4.000 vittime e che non è stato affatto circoscritto, come i casi registrati a Madrid e a Dallas testimoniano. Esattamente a un mese di distanza da quell’affermazione, chissà a quanto ammontano oggi i fondi calcolati per far fronte all’emergenza globale?
È in rapporto a situazioni di questo genere che ci si domanda se occorra giungere dinanzi all’abisso di una “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, come è stata definita l’epidemia di ebola dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per adottare provvedimenti che consentano di affermare quella “libertà dalla paura” di memoria rooseveltiana e scongiurare l’alto numero di vittime che ogni crisi porta con sé. Di qualsiasi genere essa sia: intensi flussi migratori, allarmi terroristici, disastri ambientali e calamità naturali, protezione dei beni storici e artistici, guerre civili e genocidi. Sembra quasi che ancora manchi la percezione di un partenariato globale, un’esigenza individuata dall’ottavo dei noti Obiettivi di Sviluppo del Millennio “per salvare le future generazioni da ogni flagello”, parafrasando la Carta ONU, o più semplicemente per garantire la dignità di ciascun essere umano. Non di rado l’invocazione dell’aiuto o dell’intervento internazionale da parte di uno Stato membro dell’ONU in un momento di difficoltà convive contraddittoriamente con la proibizione di ingerenza dell’Organizzazione stessa in altre questioni ritenute di stretta competenza dello Stato o con il mancato contributo al budget societario. leggi tutto
Gli Stati Uniti revocano l’embargo sulle armi verso il Vietnam (pensando alla Cina)
Il lento ma costante processo di riavvicinamento diplomatico fra gli Stati Uniti d’America ed il Vietnam si arricchisce di un ulteriore snodo, dal profondo valore simbolico e sostanziale. Questo è il lascito dell’ultimo vertice bilaterale fra il Ministro degli Esteri di Hanoi, Pham Binh Minh, ed il suo omologo statunitense John Kerry, tenutosi a Washington lo scorso 2 ottobre. A margine del summit, infatti, la Casa Bianca ha reso nota l’intenzione di procedere verso un deciso rilassamento dell’embargo sulla fornitura d’armamenti verso il Paese asiatico, in vigore ormai dal lontano 1975. Tale decisione, ampiamente prevista dagli osservatori più attenti, appare finalizzata a supportare la modernizzazione dell’apparato militare vietnamita in campo navale, nel quale le forze di Hanoi si confrontano in modo sempre più esplicito con la crescente assertività cinese. Al netto delle rituali smentite di facciata dei portavoce di Pennsylvania Avenue, secondo le quali la revoca dell’embargo deriva unicamente dai progressi – peraltro timidi – compiuti dal governo vietnamita nella sfera della governance pubblica e della tutela dei diritti umani, tale mossa va necessariamente inserita nel mosaico più ampio del “ritorno” americano in Asia orientale, vero e proprio mantra della piattaforma di politica estera dell’amministrazione Obama fin dall’insediamento del 2009. In questo quadro, l’ascesa politica, economica e militare della Repubblica Popolare Cinese, leggi tutto
Kobane, Stato Islamico e Coalizione internazionale: specchio della crisi medio-orientale
La battaglia che infuria nella città siriana di Kobane, in curdo o Ayn al Arab in arabo, può essere considerata come la cartina tornasole dei processi politici in atto in Medio Oriente.
Anzitutto il significato politico di Kobane/Ayn al Arab per il conflitto in Siria. Già nell'estate del 2012 le forze politiche curde e le loro milizie avevano preso il controllo della città e del Nord est della Siria obbligando l'esercito regolare di Damasco a ripiegare nel resto del Paese: ripiegamento che avvenne con il tacito consenso del regime, che così poté ridispiegare le proprie truppe verso altri fronti più rilevanti per la propria sopravvivenza. Le forze curde più importanti non entrarono a far parte dell'Esercito Siriano Libero, al tempo principale forza armata delle opposizioni siriane, sostenuta dai Paesi Nato e dalle monarchie del Golfo. Fin da subito, infatti, erano scoppiati gli scontri con i gruppi jihadisti, che mal si conciliavano con l'impostazione laica, progressista o anche conservatrice ma mai integralista delle forze curde. Nel 2012 i ribelli islamisti erano in crescita ma non ancora egemoni per cui, dopo scontri armati che videro la vittoria delle milizie curde nella provincia del Nord est di Hassakeh e nella città di Ras al Ayn in particolare, venne raggiunto un accordo tra le diverse fazioni che garantì comunque ai curdi il controllo del territorio. leggi tutto
Cronaca di un ballottaggio annunciato
Da tempo era chiaro che il verdetto delle urne brasiliane sarebbe stato rimandato alla fine di ottobre. Il Presidente uscente, Dilma Rousseff, si è fermata al 41,6% dei consensi mentre Aécio Neves, candidato del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb), ha raccolto il 33,6% dei voti validi. La candidata verde, sostenuta dal Partito socialista (Psb), Marina Silva, ha superato di poco il 21%. Gli altri candidati sono rimasti di molto staccati: nessuno ha passato la soglia del 2%. La sfida, ora, rimane tra Rousseff e Neves ma bisognerà attendere ancora un paio di settimane, dunque, per conoscere il nome del prossimo inquilino del Palacio do Planalto.
Un risultato atteso, ma…
Un risultato, per certi aspetti, atteso. Vi era, infatti, la piena coscienza che Dilma avrebbe vinto il primo turno senza, però, assicurarsi l’accesso diretto al secondo mandato. Al contempo, la tendenza del sistema politico brasiliano, ormai da venti anni, si è andato polarizzando intorno alle due forze politiche risultate vincitrici la scorsa domenica: da un lato il Psdb e dall’altro il Partido do Trabalhadores (Pt), che attualmente esprime la presidenza. Nonostante tutto, però, la campagna elettorale, prima, e l’apertura delle urne, poi, hanno riservato alcune importanti sorprese.
La prima grande sorpresa era arrivata lo scorso 13 agosto quando un aereo privato era precipitato nei pressi della città di Santos. A bordo, c’erano il candidato presidente del partito socialista, Eduardo Campos, e la sua famiglia. Il Psb aveva fatto confluire, dunque, il sostegno alla candidata vice-presidente di Campos, Marina Silva, leggi tutto
“Il sole sorge come al solito”: perché Pechino non scenderà a compromessi con la Umbrella Revolution di Hong Kong
Il primo ottobre di quest’anno, durante il sessantacinquesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il direttore dell’Ufficio per gli Affari di Hong Kong, Zhang Xiaoming, ha commentato le proteste di massa che stanno scuotendo l’ex colonia britannica nelle ultime due settimane con un freddo “il sole sorge come al solito.” Sebbene si tratti di un ovvio tentativo di minimizzare la portata della cosiddetta “Umbrella Revolution” che ha paralizzato la città per quasi due settmane, tale commento è anche il segnale della volontà di Pechino di non deviare dall’agenda politica in serbo per Hong Kong sin dal trasferimento di sovranità dal Regno Unito nel 1997.
1984-2014: Le promesse non mantenute
Il modus vivendi tra Pechino e Hong Kong, definito nella costituzione cinese come “una Cina, due sistemi,” ha subito negli ultimi diciassette anni un lungo processo di rinegoziazione che lo ha reso progressivamente più distante dallo spirito della Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984. Il documento firmato da Margaret Thatcher e Zhao Ziyang avrebbe dovuto infatti assicurare a Hong Kong la libertà di sviluppare senza intromissioni esterne le proprie istituzioni democratiche, tra le quali ovviamente una riforma elettorale che garantisse il suffragio universale. Pechino è stata tuttavia capace di contrastare le aspirazione democratiche hongkonghesi sin dall’inizio dell’handover tramite lo stesso strumento che avrebbe dovuto proteggerle: la Basic Law, ovvero la “costituzione” della ex colonia britannica. Il linguaggio vago e ambiguo del documento, in cui il governo cinese ebbe un ruolo centrale in fase di stesura, ha permesso infatti a Pechino un ampio spazio di manovra nella sua interpretazione a proprio favore. leggi tutto
Svolta o evoluzione? Le posizioni del Vaticano sulla guerra
Il recente intervento del segretario di Stato vaticano all’ONU non è passato inosservato. Prendendo la parola davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il cardinal Parolin ha puntato il dito contro le responsabilità di una comunità internazionale incapace di fronteggiare con forza e coesione i conflitti che stanno infiammando Siria, Iraq e Ucraina: “E’ deludente – ha ammonito Parolin - che fino ad ora la comunità internazionale si sia caratterizzata per le sue voci contraddittorie se non per il silenzio. E’ fondamentale che ci sia una unità di azione per il bene comune, evitando il fuoco incrociato di veti”. La rapida ascesa dell’ISIS e la minaccia di una guerra civile su larga scala alimentata da un terrorismo religioso in via di trasformazione hanno messo in evidenza lo stallo della comunità politica internazionale, a cui il Vaticano chiede di fornire “una risposta unitaria, basata su solidi criteri giuridici e su una volontà collettiva di cooperare per il bene comune”.
Dalla preghiera all’intervento armato
Se confrontata con gli interventi e le azioni che papa Bergoglio ha promosso al principio del suo pontificato, e che miravano a rilanciare il dialogo e la preghiera come strumenti validi ad evitare la guerra, si tratta di un’evoluzione di non poco momento. Le posizioni della Santa Sede in ordine alle complesse vicende internazionali hanno di recente subito un profondo mutamento, come suggerivano in agosto le dichiarazioni rilasciate da papa Francesco al ritorno dal viaggio in Corea del Sud: «È lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. leggi tutto
Obama, l’ISIS e i futuri “nemici giurati” dell’America
La passione per la conoscenza storica spinge talvolta a riempire la propria libreria di vecchi arnesi con la segreta speranza che il tempo li trasformi in preziose testimonianze d’epoca. Non si vedono altre ragioni per conservare uno dei tanti volumi autobiografici che Richard Nixon, 37° Presidente degli Stati Uniti, produsse dopo le sue dimissioni in seguito allo scandalo “Watergate” nel 1974. Dato alle stampe nel 1980 con l’eloquente titolo “La vera guerra”, il libro s’inscrive in un filone fiorente all’epoca negli Stati Uniti: un avvertimento a non sopravvalutare la diplomazia con l’Unione Sovietica, che rimaneva un sistema di potere intrinsecamente pericoloso per il “Mondo libero”. L’appello proveniva dal Presidente che più di ogni altro aveva lavorato per ricondurre alla normalità i rapporti con Mosca; ma nel frattempo “Distensione” era diventata una parola impronunciabile negli Stati Uniti, equiparata al tristemente noto “Appeasement” che aveva consentito a Hitler di preparare indisturbato il proprio attacco all’Europa. leggi tutto
Nuova guerra, vecchia musica
Il Presidente statunitense Barack Obama ha annunciato il 10 settembre la strategia di attacco contro le forze dello Stato Islamico (IS), il movimento islamista radicale che ha conquistato ampi territori a cavallo tra Siria e Iraq e che ha proclamato il nuovo Califfato: attacchi aerei a sostegno delle offensive dei curdi a nord, e dell'esercito iracheno da sud ed est; invio di quasi 475 esperti USA per azioni di intelligence e sostegno tecnico, oltre ai 150 già presenti in loco; azioni di anti-terrorismo per minare le risorse umane e finanziarie dell'IS; aiuti umanitari alle popolazioni colpite. Le novità più importanti riguardano l'estensione degli attacchi aerei già in corso in Iraq anche alla Siria e la costruzione di una grande coalizione internazionale a guida Usa di cui i Paesi arabi conservatori costituiscono l'asse portante.
Questi sono i propositi di Washington che, nei fatti come nella retorica, ripropongono un modus operandi già conosciuto in passato, e soprattutto ben noto a chi in Medio Oriente ci vive. Peraltro, fu Bush jr. e il suo ideologico, bellicoso unilateralismo a costituire una breve discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera Usa, di cui la Presidenza Obama è custode. Dopo aver perso quella capacità di dominio e di leadership che Washington aveva conquistato in Medio Oriente tra il 1991 e il 2003, proprio a causa del fallimento dell'occupazione dell'Iraq gli Usa vogliono ribadire leggi tutto