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18 settembre 2024
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Fase di stallo: la prima visita ufficiale di Xi Jinping in America

Aurelio Insisa * - 03.10.2015

Nel giugno 2013,  il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping compì una visita di carattere “informale” negli Stati Uniti, durante la quale incontrò il Presidente Obama a Sunnylands, in California, tra voci di un nuovo de facto G2 a capo degli equilbri internazionali ed un’atmosfera amichevole simbolizzata dalle foto ritraenti i due leader a passeggio per la campagna californiana in maniche di camicia. Dissapori ed incomprensioni tra Washington e Pechino erano ovviamente presenti sullo sfondo, dalla questione delle Isole Senkaku/Diaoyu nel Mare della Cina Orientale, alla mancata svalutazione dello yuan, dallo spinoso problema dello spionaggio informatico alla perenne questione della diversa interpretazione dei diritti umani e delle libertà civili tra i due paesi. Tuttavia, vi era anche genuino interesse da parte dell’amministrazione americana nel conoscere meglio il nuovo conquilinio di Zhongnanhai, e forse perfino la speranza di creare una relazione di carattere personale tra Xi e Obama che avrebbe potuto facilitare le relazioni tra i due paesi.

Prendendo Sunnylands come termine di paragone per la nuova visita, stavolta di carattere ufficiale, intrapresa da Xi tra il 22 ed il 28 settembre e conclusasi con un discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite, è innegabile che la “relazione bilaterale più importante nella storia” stai attraversando una fase di stallo. leggi tutto

God bless America, e viceversa. Le visite pastorali e il soft power statunitense

Dario Fazzi * - 24.09.2015

Quella di papa Francesco è l’ultima di una lunga serie di visite pastorali negli Stati Uniti. Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, questi incontri hanno spesso segnato e scandito dei passaggi importanti nella politica estera statunitense. E la riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba, che quest’ultimo viaggio in qualche modo suggella, si colloca pienamente nel solco di una simile tradizione. Da Paolo VI in poi, in particolare, il Vaticano ha rappresentato per gli Stati Uniti un’eccellente risorsa di soft power: il papa ha difeso interessi e valori vitali per Washington, ha contribuito a dirimere questioni internazionali spinose, a rovesciare regimi autoritari e, in ultima analisi, a rafforzare l’immagine internazionale degli USA.  

 

Nei primi anni Sessanta, ad esempio, Kennedy aveva provato, senza successo, a convincere Kruscev della necessità di limitare i test nucleari. Fu però grazie all’interposizione dei buoni uffici di Giovanni XXIII che le due superpotenze raggiunsero il primo accordo in materia nel 1963. Due anni più tardi, Paolo VI rese omaggio alla lungimiranza del presidente statunitense condannando, con le parole usate dallo stesso Kennedy, la proliferazione nucleare dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’enfasi posta dal papa sul disarmo rispecchiava la volontà di Washington di limitare l’aumento del numero di potenze nucleari e di bollare come moralmente – e cristianamente – inaccettabile qualsiasi passo compiuto in tale direzione. Quando di fronte a 8o.000 fedeli riuniti allo Yankee Stadium Paolo VI leggi tutto

Tiene banco l’emergenza sbarchi, ma a preoccupare è la nuova emigrazione italiana

Omar Bellicini * - 17.09.2015

Discutere di emigrazione italiana, negli anni del dibattito sulla sostenibilità dell’accoglienza, pare quasi una provocazione. Eppure è necessario, a fronte dei numeri. I dati non hanno remore etiche, interessi elettorali o dubbi programmatici: parlano la lingua asettica delle evidenze. E per la prima volta, da 20 anni a questa parte, i cittadini italiani residenti all’estero sono cresciuti più degli immigrati residenti in Italia. A rivelarlo è il “Dossier Statistico sull’Immigrazione 2015”, realizzato dal centro studi IDOS. Le anticipazioni dell’indagine, che verrà pubblicata integralmente in l’autunno, fotografano un aumento degli italiani residenti all’estero di 155mila unità, contro i 92mila nuovi residenti stranieri. Una sproporzione sensibile, che si riferisce al 2014: anno oggetto dell’analisi. Ma la tendenza sembra essere tracciata. Già nel 2012 un rapporto più circoscritto, pubblicato dalla Fondazione Migrantes, sotto l’egida della Conferenza Episcopale Italiana, segnalava che il numero delle partenze dall'Italia era ormai superiore a quello degli arrivi di lavoratori stranieri: con un +16,1% rispetto all’anno precedente. A favorire le partenze la recessione economica e la conseguente disoccupazione. Così, un passo dopo l’altro, il numero degli italiani che vivono fuori dal territorio nazionale (4.637.000) si sta avvicinando a quello degli stranieri presenti in Italia (5.014.000). E non si tratta di un fenomeno transitorio: nel 2014 ben 89.000 nostri connazionali si sono cancellati dall’anagrafe del loro comune di residenza, leggi tutto

Damasco, Istanbul, Berlino

Massimiliano Trentin * - 15.09.2015

"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.

La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. leggi tutto

La crisi dei rifugiati e dei migranti. Quando la “generosità” è nemica del bene

Simone Paoli * - 15.09.2015

Qualunque siano state le ragioni, demografiche, economiche, politiche o morali, che hanno spinto la cancelliera tedesca Angela Merkel a dichiarare pubblicamente la volontà di accogliere i milioni di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana, la Germania e la stessa Europa pagheranno caro il prezzo di una scelta che, oggi, appare popolare ma che, domani, si rivelerà esiziale.

Pur senza sottovalutare il dramma umanitario che si sta consumando alle porte del nostro continente, la pura e semplice accoglienza non è e non può essere la risposta; al contrario, essa rischia di creare nuovi e, se possibile, più gravi problemi.

L’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, nell’intento di criticare e sferzare le coscienze europee, ha recentemente ricordato come Turchia e Libano si siano accollati, rispettivamente, due milioni e un milione di rifugiati siriani, mentre la pavida ed egoista Unione Europea sarebbe colpevolmente restia a accogliere e ridistribuire poche decine di migliaia di fuggiaschi.

Il parallelismo è quantomeno fuorviante.

Turchia e Libano, paesi certamente più affini dal punto di vista culturale e religioso alla Siria rispetto ai paesi membri dell’Unione Europea, sono paesi privi di un moderno welfare state e, per questo, paradossalmente meno vulnerabili all’impatto sociale dei flussi migratori.

Allo stesso tempo, pur avendo dovuto sopportare il peso maggiore dei flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, essi non subiscono e, probabilmente, non dovranno subire, nelle stesse proporzioni dei paesi europei, leggi tutto

Da eroe a Pixuleco

Rafael Ruiz * - 10.09.2015

Il mese di agosto in Brasile è sempre stato considerato, nei termini di temperatura politica, soggetto a problemi e sorprese di qualsiasi tipo (per esempio, è stato il mese del suicidio di GetúlioVargas). Popolarmente agosto è conosciuto come il mese del “cane pazzo” (cachorrolouco).

I presagi per la presidentessa Dilma lasciavano intendere una conferma della tradizione, ma guardandoci ora indietro a pochi giorni dalla fine di agosto, non sembra esagerato sostenere che le cose siano andate peggio di quel che si potesse immaginare.

Erano previste per metà mese in diverse città una serie di manifestazioni popolari contro il governo, il PartidodosTrabalhadores (PT) e la presidentessa. Quello che sembrava potere essere grave, alla fine si è rivelato come, potremmo dire, un normale esercizio di democrazia. Gli scontenti hanno manifestato ma né il loro numero, né il loro impatto è stato superiore a quello dei mesi precedenti. Certo, le manifestazioni si sono tenute in più citta, ma in termini di numeri assoluti tutto è rimasto nella normalità democratica. Lo stesso hanno fatto anche coloro che sostengono Dilma e il governo e il loro numero è stato molto significativo, nonostante la manifestazione si sia svolta in un giorno freddo e piovoso nella città di San Paolo.

Tutto sembrava destinato leggi tutto

I rischi della crisi turca nel caos mediorientale

Carola Cerami * - 03.09.2015

La Turchia tornerà al voto il 1 novembre. Dopo circa due mesi e mezzo dalle elezioni politiche del 7 giugno, che avevano visto la perdita della maggioranza assoluta del principale partito politico turco (l’AKP - Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e l’ingresso in parlamento di un partito con una forte matrice curda (l’HPD – Partito Democratico dei Popoli), le consultazioni post elettorali per la creazione di una coalizione di governo sono fallite. Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, leader dell’AKP, ha annunciato la scorsa settimana la formazione di un governo ad interim, un governo in carica per appena due mesi, con l’obiettivo di traghettare la Turchia al voto anticipato di novembre. Cosa è accaduto? Ripercorriamo le tappe principali di questa vicenda.

Dopo le elezioni politiche del 7 giugno e un lungo intervallo senza precedenti di oltre un mese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, affida il mandato di formare un governo al primo ministro uscente Davutoğlu. La costituzione turca prevede un periodo di 45 giorni per procedere con i colloqui di coalizione, che iniziati tardivamente il 9 luglio si sono conclusi il 23 agosto. Il ritardo è stato chiaramente il primo segnale di una risposta tattica di Erdoğan per riprendere l’iniziativa e cambiare le sorti del voto. leggi tutto

Crisi cinese: solo un temporale d’estate?

Gianpaolo Rossini - 01.09.2015

Ai pessimisti sull’economia globale non mancano le occasioni. Dopo la crisi greca arriva quella cinese con borse mondiali sulle montagne russe e scosse sui tassi di cambio delle valute principali. Per gli ottimisti è solo un temporale d’estate quello che ha fatto scendere la borsa di Shangai da 5200 del 6 giugno a 3000 di questi giorni perdendo quasi la metà del suo valore in soli 2 mesi e riportando le quotazioni a dicembre 2014.

Dal 1980 il reddito procapite in Cina è decuplicato, correndo ad un ritmo annuale medio di quasi il 7%. Uno sviluppo così lungo e veloce è un evento storico quasi unico. Che però inesorabilmente deve fare i conti con i ritmi che un paese può sostenere sul lungo periodo. Con crescita zero della popolazione, la Cina dovrebbe convergere in pochi anni verso un tasso di crescita del PIL intorno al 2%, ovvero l’obiettivo dell’Europa. Negli Usa con popolazione che sale quasi dell’ 1% all’anno il numero magico è 3%. Dall’inizio 2015 le autorità cinesi hanno fatto intendere che la corsa nel 2015 si sarebbe “ridotta” al 7%, cifra edulcorata da statistiche compiacenti. Ma come far digerire al cinese medio che nei prossimi anni la corsa non potrà essere più quella degli anni scorsi?

In Cina è difficile. In un paese democratico si può. Ma costa caro ai partiti che hanno governato lo sviluppo impetuoso. E’ accaduto in Italia dopo un ventennio di crescita “cinese” il naturale rallentamento negli anni 60 del secolo scorso ha significato uno spostamento dell’asse politico e governativo. leggi tutto

“Tempi interessanti”: i tremiti dell’estate cinese.

Aurelio Insisa * - 29.08.2015

“May you live in interesting times”, recita una presunta maledizione cinese famosa nel mondo anglosassone. Sebbene non esiste alcuna alcun detto simile in mandarino, certamente si tratta di un’espressione appropriata per descrivere il 2015 cinese ed in particolare gli ultimi mesi. L’attenzione dei media internazionali nell’ultima settimana si è ovviamente concentrata sulla nuova implosione del mercato azionario cinese, il quale – dopo un periodo di parziale ripresa a seguito del crollo del 12 giugno coincidente con l’influsso di circa mille miliardi di US$ da parte della Banca Centrale Cinese – ha toccato nuovi minimi a seguito della svalutazione dello yuan avvenuta l’11 agosto. Più in generale, sta emergendo in questi giorni un pesante clima da redde rationem sull’economia cinese, la cui epitome è l’ormai conclamato rallentamento della crescita economica del paese, stimata a luglio al 7% (a fronte del 14% registrato nel 2007), e sulle possibili conseguenze per l’economia globale.

Non vi è certamente scarsità di commenti autorevoli sulle attuali difficoltà dell’economia cinese. Tuttavia un aspetto che merita forse maggiore attenzione, soprattutto nel panorama dell’informazione in Italia, è una valutazione della dimensione strettamente politica di questa crisi economica ed in particolare di questa crisi. Il coinvolgimento della nuova classe media cinese nel mercato azionario del paese – circa 90 milioni di nuovi investitori, per la stragrande maggioranza privati cittadini non provvisti di un grado di istruzione elevato – è il risultato di una scelta politica ben precisa, veicolata tramite un’ingente operazione di propaganda sui media nazionali, leggi tutto

Come se i profughi non fuggissero da qualche cosa

Lorenzo Ferrari * - 27.08.2015

Nelle ultime settimane in Italia e negli altri paesi dell'Unione europea s'è ampiamente discusso del problema del crescente afflusso di richiedenti asilo in Europa. Come vanno controllati i confini dell'Unione? Chi deve registrare i profughi? Quanti ne deve accogliere ciascun paese? Negli ultimi giorni il dibattito ha condotto ad alcune significative – seppur ancora parziali – decisioni politiche per quanto riguarda l'allocazione dei profughi tra i vari stati membri dell'UE, in particolare grazie alla decisione tedesca di accogliere sostanzialmente tutti i profughi siriani che chiederanno l'asilo in Germania.

 

Nonostante questi alcuni progressi recenti, il dibattito europeo sui richiedenti asilo continua a mostrarsi ostinatamente refrattario a una seria e franca discussione sulle cause del crescente afflusso di profughi in Europa. Si parla molto del sintomo – l'afflusso massiccio di richiedenti asilo – ma non si parla affatto della malattia che ne è all'origine. I problemi profondi dell'Eritrea non hanno mai ottenuto la benché minima attenzione, ma anche la guerra in Siria guadagna le prime pagine dei giornali solo quando vengono fatte saltare in aria rovine archeologiche di prim'ordine: la guerra in sé non interessa affatto, non ne parlano i politici e non ne parla la stampa.

 

La Siria viene ormai chiaramente guardata come un caso senza speranze, soggetta a un'autocombustione di cui si può solamente stare passivamente ad attendere la fine (che peraltro non pare affatto vicina). leggi tutto