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24 aprile 2024
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Argomenti

Damasco, Istanbul, Berlino

Massimiliano Trentin * - 15.09.2015

"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.

La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. leggi tutto

La crisi dei rifugiati e dei migranti. Quando la “generosità” è nemica del bene

Simone Paoli * - 15.09.2015

Qualunque siano state le ragioni, demografiche, economiche, politiche o morali, che hanno spinto la cancelliera tedesca Angela Merkel a dichiarare pubblicamente la volontà di accogliere i milioni di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana, la Germania e la stessa Europa pagheranno caro il prezzo di una scelta che, oggi, appare popolare ma che, domani, si rivelerà esiziale.

Pur senza sottovalutare il dramma umanitario che si sta consumando alle porte del nostro continente, la pura e semplice accoglienza non è e non può essere la risposta; al contrario, essa rischia di creare nuovi e, se possibile, più gravi problemi.

L’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, nell’intento di criticare e sferzare le coscienze europee, ha recentemente ricordato come Turchia e Libano si siano accollati, rispettivamente, due milioni e un milione di rifugiati siriani, mentre la pavida ed egoista Unione Europea sarebbe colpevolmente restia a accogliere e ridistribuire poche decine di migliaia di fuggiaschi.

Il parallelismo è quantomeno fuorviante.

Turchia e Libano, paesi certamente più affini dal punto di vista culturale e religioso alla Siria rispetto ai paesi membri dell’Unione Europea, sono paesi privi di un moderno welfare state e, per questo, paradossalmente meno vulnerabili all’impatto sociale dei flussi migratori.

Allo stesso tempo, pur avendo dovuto sopportare il peso maggiore dei flussi di rifugiati provenienti dalla Siria, essi non subiscono e, probabilmente, non dovranno subire, nelle stesse proporzioni dei paesi europei, leggi tutto

Da eroe a Pixuleco

Rafael Ruiz * - 10.09.2015

Il mese di agosto in Brasile è sempre stato considerato, nei termini di temperatura politica, soggetto a problemi e sorprese di qualsiasi tipo (per esempio, è stato il mese del suicidio di GetúlioVargas). Popolarmente agosto è conosciuto come il mese del “cane pazzo” (cachorrolouco).

I presagi per la presidentessa Dilma lasciavano intendere una conferma della tradizione, ma guardandoci ora indietro a pochi giorni dalla fine di agosto, non sembra esagerato sostenere che le cose siano andate peggio di quel che si potesse immaginare.

Erano previste per metà mese in diverse città una serie di manifestazioni popolari contro il governo, il PartidodosTrabalhadores (PT) e la presidentessa. Quello che sembrava potere essere grave, alla fine si è rivelato come, potremmo dire, un normale esercizio di democrazia. Gli scontenti hanno manifestato ma né il loro numero, né il loro impatto è stato superiore a quello dei mesi precedenti. Certo, le manifestazioni si sono tenute in più citta, ma in termini di numeri assoluti tutto è rimasto nella normalità democratica. Lo stesso hanno fatto anche coloro che sostengono Dilma e il governo e il loro numero è stato molto significativo, nonostante la manifestazione si sia svolta in un giorno freddo e piovoso nella città di San Paolo.

Tutto sembrava destinato leggi tutto

I rischi della crisi turca nel caos mediorientale

Carola Cerami * - 03.09.2015

La Turchia tornerà al voto il 1 novembre. Dopo circa due mesi e mezzo dalle elezioni politiche del 7 giugno, che avevano visto la perdita della maggioranza assoluta del principale partito politico turco (l’AKP - Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e l’ingresso in parlamento di un partito con una forte matrice curda (l’HPD – Partito Democratico dei Popoli), le consultazioni post elettorali per la creazione di una coalizione di governo sono fallite. Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, leader dell’AKP, ha annunciato la scorsa settimana la formazione di un governo ad interim, un governo in carica per appena due mesi, con l’obiettivo di traghettare la Turchia al voto anticipato di novembre. Cosa è accaduto? Ripercorriamo le tappe principali di questa vicenda.

Dopo le elezioni politiche del 7 giugno e un lungo intervallo senza precedenti di oltre un mese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, affida il mandato di formare un governo al primo ministro uscente Davutoğlu. La costituzione turca prevede un periodo di 45 giorni per procedere con i colloqui di coalizione, che iniziati tardivamente il 9 luglio si sono conclusi il 23 agosto. Il ritardo è stato chiaramente il primo segnale di una risposta tattica di Erdoğan per riprendere l’iniziativa e cambiare le sorti del voto. leggi tutto

Crisi cinese: solo un temporale d’estate?

Gianpaolo Rossini - 01.09.2015

Ai pessimisti sull’economia globale non mancano le occasioni. Dopo la crisi greca arriva quella cinese con borse mondiali sulle montagne russe e scosse sui tassi di cambio delle valute principali. Per gli ottimisti è solo un temporale d’estate quello che ha fatto scendere la borsa di Shangai da 5200 del 6 giugno a 3000 di questi giorni perdendo quasi la metà del suo valore in soli 2 mesi e riportando le quotazioni a dicembre 2014.

Dal 1980 il reddito procapite in Cina è decuplicato, correndo ad un ritmo annuale medio di quasi il 7%. Uno sviluppo così lungo e veloce è un evento storico quasi unico. Che però inesorabilmente deve fare i conti con i ritmi che un paese può sostenere sul lungo periodo. Con crescita zero della popolazione, la Cina dovrebbe convergere in pochi anni verso un tasso di crescita del PIL intorno al 2%, ovvero l’obiettivo dell’Europa. Negli Usa con popolazione che sale quasi dell’ 1% all’anno il numero magico è 3%. Dall’inizio 2015 le autorità cinesi hanno fatto intendere che la corsa nel 2015 si sarebbe “ridotta” al 7%, cifra edulcorata da statistiche compiacenti. Ma come far digerire al cinese medio che nei prossimi anni la corsa non potrà essere più quella degli anni scorsi?

In Cina è difficile. In un paese democratico si può. Ma costa caro ai partiti che hanno governato lo sviluppo impetuoso. E’ accaduto in Italia dopo un ventennio di crescita “cinese” il naturale rallentamento negli anni 60 del secolo scorso ha significato uno spostamento dell’asse politico e governativo. leggi tutto

“Tempi interessanti”: i tremiti dell’estate cinese.

Aurelio Insisa * - 29.08.2015

“May you live in interesting times”, recita una presunta maledizione cinese famosa nel mondo anglosassone. Sebbene non esiste alcuna alcun detto simile in mandarino, certamente si tratta di un’espressione appropriata per descrivere il 2015 cinese ed in particolare gli ultimi mesi. L’attenzione dei media internazionali nell’ultima settimana si è ovviamente concentrata sulla nuova implosione del mercato azionario cinese, il quale – dopo un periodo di parziale ripresa a seguito del crollo del 12 giugno coincidente con l’influsso di circa mille miliardi di US$ da parte della Banca Centrale Cinese – ha toccato nuovi minimi a seguito della svalutazione dello yuan avvenuta l’11 agosto. Più in generale, sta emergendo in questi giorni un pesante clima da redde rationem sull’economia cinese, la cui epitome è l’ormai conclamato rallentamento della crescita economica del paese, stimata a luglio al 7% (a fronte del 14% registrato nel 2007), e sulle possibili conseguenze per l’economia globale.

Non vi è certamente scarsità di commenti autorevoli sulle attuali difficoltà dell’economia cinese. Tuttavia un aspetto che merita forse maggiore attenzione, soprattutto nel panorama dell’informazione in Italia, è una valutazione della dimensione strettamente politica di questa crisi economica ed in particolare di questa crisi. Il coinvolgimento della nuova classe media cinese nel mercato azionario del paese – circa 90 milioni di nuovi investitori, per la stragrande maggioranza privati cittadini non provvisti di un grado di istruzione elevato – è il risultato di una scelta politica ben precisa, veicolata tramite un’ingente operazione di propaganda sui media nazionali, leggi tutto

Come se i profughi non fuggissero da qualche cosa

Lorenzo Ferrari * - 27.08.2015

Nelle ultime settimane in Italia e negli altri paesi dell'Unione europea s'è ampiamente discusso del problema del crescente afflusso di richiedenti asilo in Europa. Come vanno controllati i confini dell'Unione? Chi deve registrare i profughi? Quanti ne deve accogliere ciascun paese? Negli ultimi giorni il dibattito ha condotto ad alcune significative – seppur ancora parziali – decisioni politiche per quanto riguarda l'allocazione dei profughi tra i vari stati membri dell'UE, in particolare grazie alla decisione tedesca di accogliere sostanzialmente tutti i profughi siriani che chiederanno l'asilo in Germania.

 

Nonostante questi alcuni progressi recenti, il dibattito europeo sui richiedenti asilo continua a mostrarsi ostinatamente refrattario a una seria e franca discussione sulle cause del crescente afflusso di profughi in Europa. Si parla molto del sintomo – l'afflusso massiccio di richiedenti asilo – ma non si parla affatto della malattia che ne è all'origine. I problemi profondi dell'Eritrea non hanno mai ottenuto la benché minima attenzione, ma anche la guerra in Siria guadagna le prime pagine dei giornali solo quando vengono fatte saltare in aria rovine archeologiche di prim'ordine: la guerra in sé non interessa affatto, non ne parlano i politici e non ne parla la stampa.

 

La Siria viene ormai chiaramente guardata come un caso senza speranze, soggetta a un'autocombustione di cui si può solamente stare passivamente ad attendere la fine (che peraltro non pare affatto vicina). leggi tutto

Fratellanza apost 2015

Azzurra Meringolo * - 04.08.2015

È sempre più tagliente il conflitto interno a quel che resta della Fratellanza Musulmana egiziana.  Tenuto segreto il più possibile per non scalfire l’immagine di una Confraternita già in crisi a causa degli attacchi esterni, dopo che il battibecco tra alcuni suoi leader è andato in onda sugli schermi delle televisioni egiziane, lo scontro è divenuto di dominio pubblico.

 

Tra Turchia e Qatar, ma le redini al Cairo

 

Dalla deposizione, nel luglio 2013, del presidente islamista Mohammed Mursi, la Fratellanza si è confrontata con ingenti perdite, dovute soprattutto a defezioni obbligate dal confronto con quel “nuovo regime” che nel dicembre 2013 l’ha definita un’organizzazione terriristica, confinandola nuovamente alla clandestinità.  A causa del congelamento dei beni di più di mille organizzazioni caritatevoli accusate di essere affiliate agli estremisti islamici, la Fratellanza non è neanche riuscita a portare avanti quelle attività sociali che hanno di solito un grande impatto sulla popolazione. Le retate, gli arresti di massa, le condanne a morte imposte a molti dei suoi membri hanno poi sconvolto l’organizzazione della sua leadership.

 

La Confraternita non ha però rinunciato alla sua lotta. Per portarla avanti alcuni membri sfuggiti alla morsa della giustizia egiziana hanno trovato rifugio in Turchia e Qatar da dove cercano di coordinare la loro resistenza. I Fratelli rimasti al Cairo vogliono però tenere le redini del movimento. leggi tutto

Settant’anni da Hiroshima e il disarmo nucleare ancora di là dal venire

Dario Fazzi * - 04.08.2015

“Adesso io sono diventato la Morte, il demolitore di mondi.” Così confessava di sentirsi Robert Oppenheimer, il padre delle bombe atomiche e direttore scientifico del progetto Manhattan, nel 1965. Davanti ad una telecamera instabile e in bianco e nero, prendendo in prestito le parole di una sacra scrittura induista, il Bhagavad Gita, e col volto solcato dalle lacrime, lo scienziato dimostrava di avvertire sulla propria persona tutto il peso di quell’enorme responsabilità che aveva investito la sua coscienza e quella di molti altri suoi colleghi. Un centinaio di migliaia di uomini in tutto che, nel gran segreto dei laboratori statunitensi, erano stati impegnati a trovare i modi più rapidi ed efficienti per imbrigliare le forze più nascoste e devastanti della materia. Dei novelli Prometeo che la guerra aveva messo di fronte alla più ardua delle sfide: donare all’umanità un fuoco che essi stessi sapevano essere pressoché incontrollabile e inestinguibile.

 

Il bombardamento di Hiroshima rivelò al mondo intero cosa potesse comportare bruciarsi con quel fuoco. All’istante e nel raggio di oltre un chilometro ogni forma di vita fu letteralmente spazzata via; radiazioni tossiche penetrarono solidi e liquidi, annidandovisi per decenni; venti che soffiavano a oltre mille chilometri orari lacerarono immediatamente carni e tessuti, strappando i corpi da delle ombre destinate a restare impresse su muri e selciati per l’eternità. E infine venne il silenzio ad annunciare leggi tutto

La vendetta di Erdogan.

Massimiliano Trentin * - 01.08.2015

Più passano i giorni, più la strategia del Presidente turco Erdogan diventa chiara. Ufficialmente la Turchia è entrata in guerra contro l'organizzazione dello Stato islamico e il Pkk curdo. In realtà, la vera guerra di Erdogan è contro le formazioni politiche curde in Turchia e nella vicina Siria.

In base agli eventi sul campo, Ankara ha accettato di partecipare alla Coalizione internazionale contro l'organizzazione dello Stato islamico. Dopo gli scontri, peraltro limitati e sporadici, tra le autorità turche e miliziani dell'autonominato califfo al Baghdadi, Ankara ha concesso il permesso a Washington di utilizzare la grande base aeronautica di Incirlik per effettuare i bombardamenti in Iraq e in Siria. Data la vicinanza geografica, questo permette di risparmiare tempo, e dunque carburante e denaro. Inoltre, la Nato spera che Ankara metta fine al flusso continuo di miliziani, armi, petrolio e merci di contrabbando tra la Turchia e i territori del supposto califfato nero. Nei fatti, dopo l'accordo del 7 luglio, le principali azioni militari contro i seguaci di al Baghdadi sono state condotte dagli alleati occidentali della Nato. Si sono registrati scontri armati nelle zone di confine tra Turchia e Siria, con l'esercito turco che ha bombardato alcune posizioni islamiste e, guarda caso, anche posizioni dell'YPG curdo-siriano. La proposta di creare una zona-cuscinetto "ISIS-free" è una formula tanto vaga quanto utile dal punto di vista diplomatico: risponde alla vecchia e pericolosa richiesta di Ankara di costituire nel nord della Siria una zona in cui le forze armate siriane non possano intervenire, leggi tutto