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Il convitato di giada alle nuove nozze nippo-americane
Come accennato in un post precedente, la visita di stato del premier giapponese Abe Shinzō a Washington D.C. è stata foriera di iniziative di enorme rilevanza per il futuro dell’Asia-Pacifico. A 55 anni dal tortuoso processo di ratifica del Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza tra Stati Uniti e Giappone ad opera del primo ministro Nobusuke Kishi, il nipote Abe è convenuto con la controparte americana a nuovi vincoli matrimoniali in occasione delle nozze d’avorio del medesimo trattato. La sottoscrizione di nuovi principi guida (guidelines) delinea nuove responsabilità per i due alleati, aggirando il macchinoso iter legislativo atto a ratificare ciò che, di fatto, si avvicina ad un nuovo trattato di alleanza. Così le due parti hanno deciso di perseguire una maggiore cogestione, inter-operabilità e modernizzazione delle rispettive forze armate. Forte del recente cambio dell’interpretazione dell’Articolo IX della costituzione nipponica, in base al quale Tokyo si è dotata dell’esercizio (limitato) del diritto di legittima difesa collettivo, con i nuovi principi guida il Giappone giocherebbe un ruolo di prima linea nella difesa dell’arcipelago e si potrebbe incaricare di supporto logistico a forze americane e amiche quali l’Australia a livello globale. Un più attivo contributo giapponese alla sicurezza internazionale rendeva quindi la partnership nippo-americana più paritaria, adattandola alle nuove e future sfide di sicurezza, in primis la rapida ascesa della Cina sulla scacchiera asiatica.
Esigenze diplomatiche imponevano ai due governi di ripetere che le linee guida non prendessero di mira alcuno stato in particolare, ma va sicuramente riconosciuta nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra responsabile per l’affiatamento della strana coppia Abe-Obama. leggi tutto
Abecedario: introduzione al pensiero di Abe Shinzō
La visita del primo ministro Abe Shinzō a Washington ha già prodotto risultati di portata storica per le relazioni nippo-americane e, più in generale, per la stabilità dell’Asia Pacifico. Visto il ruolo di spicco del primo ministro Abe nell’orientare la ricca agenda di politica estera e di sicurezza giapponese e in virtù della probabile longevità politica del premierato Abe, questo breve articolo intende delineare l’ideologia di riferimento e gli obiettivi del primo ministro. Interessato a lasciare una netta eredità politica nell’arcipelago, Abe presenta una personalità caratterizzata da forti valori di riferimento, da una visione del mondo e da interessi politici ben definiti. Il retaggio spiccatamente nazionalista e la formazione di Abe nel cuore dell’establishment di destra del Partito Liberal Democratico (PLD) non solo hanno favorito la sua rapida ascesa al centro della scena politica nazionale, ma ne hanno preservato l’idealismo di destra. Egli ha manifestato la chiara ambizione a riguadagnare una posizione di preminenza per il Giappone sulla scena internazionale, con un occhio di riguardo per questioni di sicurezza nazionale, prosperità e prestigio.
Abe ha ereditato tali ideali soprattutto dal controverso nonno materno, Kishi Nobusuke. Questi fu responsabile per le politiche industriali nello stato fantoccio del Manciukuò, verosimilmente con l’inclusione del lavoro forzato, quindi ministro delle Munizioni nel governo di Hideki Tōjō, responsabile dell’apertura delle ostilità contro gli Stati Uniti d’America nel dicembre del 1941. leggi tutto
L’offensiva islamista in Siria
Il 28 Marzo le forze ribelli siriane hanno conquistato la città di Idlib, capoluogo della provincia rurale del Nord ovest siriano. Il 25 Aprile uno schieramento di forze simili ha conquistato la città di Jisr al-Shughour, situata in posizione strategica in quanto connette l’entroterra di Idlib con la Turchia e la costa siriana. Entrambe le città erano ormai gli ultimi avamposti dell’esercito siriano e delle sue milizie nella provincia nel Nord-Ovest, una volta famosa per la produzione agricola e per essere stata una delle prime a ribellarsi contro il regime di Bashar al Assad nel 2011 e 2012, e ad offrire una delle principali base per le forze di opposizione.
Idlib è il secondo capoluogo di provincia a cadere nelle mani dei ribelli dopo la città di Raqqa. E in entrambi i casi i due capoluoghi sono ora governati da un fronte di forze islamiste. Se dal 2013 a Raqqa governano i salafiti-jihadisti dell’organizzazione dello Stato Islamico, ora a Idlib governa il Jaysh al Fatah, ossia un coordinamento di forze islamiste più o meno radicali di cui Jabhat al Nusra sembra avere la leadership. Jabhat al Nusra è l’organizzazione legata ad al Qaida in Siria, ed è ben conosciuta tra i ribelli per essere particolarmente efficace ed efficiente nei suoi metodi di lotta armata e di governo dei territori. Nel corso degli ultimi due anni al Nusra ha rappresentato la forza d’urto e poi di resistenza ad Aleppo, Damasco e nel Sud della Siria sia contro l’Esercito siriano sia contro i “cugini” concorrenti dello Stato islamico. leggi tutto
“Questione tedesca” 2.0?
Gli stereotipi sui caratteri nazionali, si sa, sono duri a morire. Secondo un vecchio adagio, se si chiedesse a persone di diversa nazionalità di scrivere un libro sugli elefanti, si otterrebbe da un francese il trattato “Mille modi di cucinare l’elefante”, mentre un inglese racconterebbe “La volta che ho sparato a quell’enorme elefante”; la versione statunitense spiegherebbe “Come fare elefanti migliori e più grandi”, e quella giapponese “Come costruire elefanti piccoli ed economici”. Quanto a un tedesco, egli non si metterebbe all’opera per meno di “L’elefante e la “questione tedesca” in VI volumi”. È pur vero che di questione tedesca si ragiona sia fuori che dentro i confini nazionali almeno dal 1871, quando l’unificazione della Germania trasformò profondamente l’Europa e i suoi equilibri di potenza. Le conseguenze di allora non hanno cessato di proiettare un’ombra lunga e tragica sui decenni a venire. Se sia il caso di ragionare ancora oggi in termini di “questione tedesca” è l’interrogativo che Hans Kundnani pone al centro del suo libro “The Paradox of German Power”. Il volume, sintetico e di facile lettura, costituisce tanto un rapido excursus storiografico quanto uno stimolo al dibattito sulla crisi attuale dell’Europa e sul ruolo giocato da Berlino. Dopo che la Guerra Fredda aveva risolto il problema in modo brutale con la divisione della Germania in due stati, dopo che l’indomani della riunificazione aveva fatto parlare di una definitiva “europeizzazione della Germania” in virtù del Trattato di Maastricht, ha ragione chi oggi grida leggi tutto
La politica estera di Renzi ovvero il “rottamatore pragmatico”
In politica estera non si inventa nulla. E nemmeno un funambolo come il nostro Presidente del Consiglio può contravvenire a questa regola ferrea. Senza dubbio i nuovi media influenzano i vecchi riti che dominano la politica internazionale. E’ allo stesso modo evidente che la fine della contrapposizione tra i due blocchi, l’accelerazione impressa allo sviluppo storico dalla globalizzazione dei mercati e le nuove minacce legate alle guerre asimmetriche e al terrorismo hanno reso il quadro internazionale più caotico ed anarchico. Nonostante tutto ciò, con le dovute compensazioni e i necessari adattamenti, la politica estera della “media potenza” Italia continua a muoversi lungo le sue direttrici classiche. Matteo Renzi, dopo un anno abbondante a Palazzo Chigi, ha mostrato di avere il quadro chiaro e di essere in grado di adattarsi in maniera pragmatica a questi “fondamentali”. Insomma più che a “rottamare”, si è impegnato a sfruttare vecchie rendite di posizione e a riadattare direttrici fondanti, il tutto con quella dose di volontarismo comunicativo così caratteristica del suo marchio di fabbrica.
Innanzitutto Renzi si è applicato nel rinverdire i fasti dell’europeismo italiano e lo ha fatto, se è consentito un paragone ardito, alla “maniera di De Gasperi”. Nel senso che, forte del travolgente successo alle elezioni europee del maggio scorso, si è rivolto direttamente alla fonte della nuova leadership europea. E’ andato diretto a Berlino, senza passare da Parigi. O meglio, ha fatto salire sul “bus della crescita” Hollande, dopo aver puntualizzato che il vero leader dei “progressisti” europei sta di casa a Roma. leggi tutto
Obama e Cuba: ben più di una “Guerra Fredda” da seppellire
Dean Rusk è stato il secondo più longevo Segretario di Stato (“ministro degli esteri”, per così dire) della storia statunitense, servendo sotto i due Presidenti Kennedy e Johnson per quasi tutti gli anni ’60 del secolo scorso. Le sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni ’90, racchiudono il resoconto personale di quella fase di escalation globale della “Guerra Fredda” culminata nel disastro della guerra del Vietnam, per la quale egli non è esente da gravi responsabilità. Tra gli episodi più drammatici del suo lungo mandato, Rusk ricorda nei dettagli il summit tra Kennedy e la sua controparte sovietica Krusciov tenuto a Vienna del 1961. Molte, troppe speranze aveva suscitato la possibilità che una stretta di mano di fronte agli occhi del mondo inaugurasse un nuovo clima di fiducia reciproca e contribuisse a chiudere i tanti rischiosi dossier sul tavolo del confronto bipolare, dalla competizione nucleare alla divisione di Berlino, alla questione di Cuba. Due mesi prima, il tentativo di uno sbarco controrivoluzionario di esuli cubani era fallito nella Baia dei Porci, rivelando l’evidente coinvolgimento statunitense e favorendo di fatto l’avvicinamento a Mosca del governo dell’isola. Il vertice di Vienna si risolse in un fiasco clamoroso tra pesanti accuse e minacce reciproche, dovute secondo Rusk proprio all’illusione che entrambi i protagonisti nutrivano sulle potenzialità di una diplomazia personale improvvisata e mediatica. Il braccio di ferro globale leggi tutto
Un contrappunto disinibito ad Eugenio Scalfari
“Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l’abolizione della democrazia parlamentare.”
Con queste parole Eugenio Scalfari conclude la prima parte del suo articolo di domenica 12 aprile, quella relativa alle riforme istituzionali in corso volute dal governo. Ed approvate a larga maggioranza dal PD e, fino alla elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, anche da FI. Che Silvio Berlusconi sia stato convinto a propositi più democratici da Scalfari è una favola bella alla quale crede solo lui. O nemmeno lui! E’ bene che le leggi elettorali siano approvate da larghe maggioranze, ma “la più bella costituzione del mondo” le considera leggi ordinarie. Ora queste sono approvate in base ai regolamenti parlamentari dalle maggioranze che questi prevedono. Saranno pessimi, ma Scalfari opportunisticamente tace sul punto. Salta di palo in frasca. E ci dice che in Italia la maggioranza parlamentare non esprime la maggioranza popolare perché il numero degli astenuti è in crescita. Scalfari cita in francese Jacques Julliard, chic alors, ma sembra uno che non ha mai messo la testa fuori di casa. L’Italia è un paese in cui il tasso di partecipazione alle elezioni è fra i più alti fra quelli delle democrazie consolidate. Certo per Scalfari gli Stati Uniti a vista della partecipazione alle elezioni deve essere classificato fra gli stati a-democratici o autoritari. leggi tutto
Da Losanna ad Aden: l’impatto immediato dell’accordo sul nucleare tra Iran e Stati Uniti
L’accordo siglato tra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania, il 2 Aprile 2015 costituisce un passaggio molto importante per la politica internazionale, tanto che le conseguenze non si sono fatte attendere nella forma di un’escalation della tensione in Medio Oriente. Difficilmente poteva essere altrimenti, visto la posta in gioco. A poco meno di una settimana dall’annuncio, le autorità iraniane rivendicano la fine immediata del regime di sanzioni economiche imposte anzitutto da USA e Unione Europea, pena la risoluzione dell’accordo, e attaccano duramente l’intervento militare saudita in Yemen in corso dal 25 marzo. Per bocca del Segretario di Stato USA, John Kerry, il 9 aprile Washington attacca Teheran per il suo ruolo “destabilizzante” in Medio Oriente e annuncia che gli Stati Uniti sosterranno i Paesi oggetto delle mire iraniane.
Da un alto, dunque, viene siglato un accordo-quadro il cui valore politico è il pieno rientro dell’Iran nel consesso della politica internazionale; dall’altro lato, si continua ad attaccare verbalmente l’Iran per le sue supposte mire espansionistiche nella regione e Teheran risponde accusando gli alleati di Washington e Bruxelles. Quello che sembra essere un paradosso rappresenta bene, invece, la natura dell’accordo concluso a Losanna. Questo è, infatti, un accordo che riguarda anzitutto i Paesi occidentali e la Repubblica islamica d’Iran: un accordo che apre alla possibilità di gestire le relazioni bilaterali secondo leggi tutto
Le fondamenta per una nuova Asia? Il caso della Asia Infrastructure International Bank
È passato ormai quasi un decennio dall’inizio della charm offensive cinese che prese il via durante il secondo mandato dell’ex Presidente Hu Jintao, durante la quale la Repubblica Popolare aumentò esponenzialmente il proprio peso politico e culturale del paese all’estero. Fu l’inizio di una fascinazione, in parte tutt’ora in corso, di accademici e giornalisti europei e nordamericani per il nuovo soft power di Pechino. Il termine, coniato dal politologo americano Joseph Nye nei primi anni Novanta, indica la capacità di uno stato di esercitare il proprio potere politico principalmente tramite mezzi non coercitivi, in particolare tramite l’influenza culturale, il prestigio delle proprie istituzioni sociali e politiche, ed il controllo indiretto di istituzioni multilaterali.
Prendendo a pietra di paragone il soft power degli Stati Uniti, si può notare come al di là della capillarità dei prodotti della sua industria culturale, e della capacità delle università e delle sue aziende di attirare i migliori talenti mondali, Washington proietta il proprio potere a livello internazionale soprattutto tramite una serie istituzioni multilaterali, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o l’Organizzazione Mondiale per il Commercio nelle quali ha un enorme potere decisionale.
Da questo punto di vista si può capire perché il soft power cinese sia al momento sostanzialmente monco: Pechino è sì diventata nell’ultimo decennio un attore fondamentale nel panorama politico ed economico globale, ma continua comunque ad operare all’interno di istituzioni di matrice occidentale. L’ultimo anno però sembra aver aperto una nuova fase per la diplomazia economica cinese. leggi tutto
In Nigeria Buhari batte il presidente uscente: è la fine di Boko Haram?
Primo aprile 2015: Muhammadu Buhari è ufficialmente il nuovo presidente della Nigeria. Alla notizia qualche attento analista politico avrà senz’altro pensato a un pesce d’aprile. Che il 72nne ex generale Buhari abbia battuto per circa 2 milioni e mezzo di voti il presidente uscente Goodluck Jonathan appare davvero surreale. La ragione? È la prima volta dal 1960, ossia da quando la Nigeria ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna, che l’opposizione sconfigge il partito al potere nelle urne, e che un avvicendamento ha luogo senza un colpo di Stato. Lo stesso neo-presidente non è estraneo a precedenti inquietanti quanto a questa tipicità istituzionale della Nigeria che, ad oggi, ha “regalato” ai nigeriani ben 28 anni di regime militare (dal 1966 al 1979 e dal 1983 al 1998). Nel 1966 Buhari contribuì attivamente al colpo di Stato del colonnello Murtala Muhammed contro il regime di Aguiyi Ironsi e, a distanza di due decenni, presiedette il Consiglio Militare Supremo tra il 1983 e il 1985, giunta insediatasi al governo non di certo grazie a libere elezioni. Un’esperienza da lui difesa con un passaggio logico lapidario quanto disarmante: “Dipende dal popolo: se scegliesse i leader giusti non ci sarebbe bisogno di un regime militare”. Difficile d’altra parte dargli torto, dato che dal 1999 Buhari si è sempre candidato alle elezioni, nel 2003, 2007 e 2009, perdendo tutte e tre le volte: leggi tutto