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Tutti a Tripoli?
Quello che si sperava non accadesse, si è infine materializzato: la Libia, e le sue ricchezze materiale e umane, non sono solo più oggetto di lotta all'ultimo sangue tra fazioni di ribelli e i loro sostenitori esteri, peraltro tutti facenti parte in diversi modi della grande "coalizione" anti-Stato Islamico. La Libia è oggetto di conquista anche dello Stato Islamico, cioè di una forza politica che si muove al di fuori delle "normali" dinamiche di politica di potenza a cui siamo abituati e che tanto spaventa Paesi vicini e lontani. In altre parole, parti importanti dell'ex Jamahirriya di Gheddafi rischiano di essere governate da una forza la cui ideologia e prassi politica sono difficilmente compatibili con le minime, ma proprio minime, norme di comportamento stabilite per consenso dal diritto e dalle relazioni internazionali: a cominciare dal desiderio "irredentista" di ricostruire l'unità del mondo islamico sotto la bandiera del Califfato.
Da qui l'allarme internazionale, l'intervento diretto dei Paesi vicini, Egitto in primis, e i negoziati dei Paesi occidentali per "contenere" la minaccia dello Stato Islamico in Libia. Le voci si levano alte per un intervento militare in combinazione con la costituzione di un governo di unità nazionale, cioè di un processo politico inclusivo di tutte le forze, tranne gli affiliati dello Stato Islamico. Voci e propositi tanto difficili da realizzare data la situazione sul campo quanto imprescindibili per trovare una soluzione al conflitto. leggi tutto
Cambia la situazione?
Sino a due giorni fa sembrava che la situazione politica italiana si andasse incancrenendo su uno scontro frontale fra PD e FI innescato dalle impuntature di un Berlusconi in cerca di affermazioni. Ovviamente in questo scontro si erano subito buttati tutti quelli che ambivano a far saltare la leadership renziana: la Lega, il M5S, i dissidenti PD e via dicendo. Come talora accade in politica, un evento inaspettato, almeno in queste proporzioni, ha al momento cambiato il quadro di riferimento.
Ci riferiamo ovviamente a quanto sta avvenendo in Libia. La minaccia di avere sulla famosa “quarta sponda” (un nome preso dalla storia coloniale italiana che alla maggior parte della gente non dice nulla, perché non lo studiano neppure più a scuola) una forza organizzata legata al cosiddetto califfato islamico è un dato preoccupante. Chiama in causa il ruolo dell’Italia ed ha una forte presa sull’opinione pubblica scossa da quanto avvenuto a Parigi e a Copenhagen.
Un mondo politico che sembrava tutto intento ad azzuffarsi in parlamento ha nella sua maggioranza capito che era suicida rompere la solidarietà nazionale su un tema che tocca facilmente le corde sensibili dell’opinione pubblica. Il più veloce a capire il cambio di clima è stato Berlusconi, che ha intuito che si presentava l’occasione per uscire dal vicolo cieco in cui era andato a cacciarsi. leggi tutto
Nove miti da sfatare sull'immigrazione in Italia
In Italia un dibattito serio, sereno, laico sul tema dell’immigrazione non è mai esistito. Spesso polarizzato tra la vuota retorica del “rimandiamoli tutti a casa loro” e l’altrettanto vuota retorica dell’“accogliamoli tutti a casa nostra”, esso si è raramente interrogato sui nodi centrali di una moderna politica dell’immigrazione che, inevitabilmente, avrebbe dovuto legarsi alle più generali strategie di programmazione socio-economica, di intervento educativo-culturale e di politica internazionale del paese; ammesso che si ritenesse utile l’apporto di lavoratori stranieri, i soggetti interessati avrebbero dovuto pubblicamente interrogarsi su quanti immigrati fosse ragionevole e conveniente accogliere e, al limite, da quali aree geografiche, quali settori economici richiedessero manodopera straniera e con quali percorsi di formazione fosse opportuno prepararla, quali modalità di reclutamento fosse utile adottare e quali canali e modelli di integrazione sarebbero stati sostenibili e vantaggiosi nel contesto italiano.
Questo breve articolo non intende certo rispondere a queste domande; francamente, non possiedo né strumenti di conoscenza né, soprattutto, visione politica sufficienti per pormi come soggetto autorevole in un tale dibattito. leggi tutto
Guerra in Europa?
Venti di guerra spirano sull’Europa. Anzi, una guerra già c’è, nell’Est dell’Ucraina e tutto il continente ne è ormai parte attiva, quantomeno con le sanzioni che sono state imposte contro la Russia. Il rischio ora è di una escalation dalle imprevedibili conseguenze. Per evitarlo bisognerebbe cercare di capire cosa davvero ci sia in ballo.
Esistono dei fatti: il cambio di governo a Kiev; l’illegale annessione della Crimea; la guerra civile nel Donbass, cospicuamente foraggiata da Mosca. Questi fatti, però, andrebbero interpretati. Da una parte si dice che sia tutta colpa della Russia, la cui volontà imperiale la porta in linea di collisione con il diritto internazionale in generale e con l’Occidente in particolare, e la cui struttura autocratica ed autoritaria la rende ostile a tutti i tentativi di democratizzare i paesi confinanti. L’unica risposta a questa Russia dovrebbe dunque essere l’intransigenza, così almeno sembrano chiedere Obama e gran parte dell’Europa Orientale.
Esiste però una lettura alternativa, pur basata su quegli stessi fatti di cui sopra. Ed è una lettura che prende in considerazione oltre un ventennio di politiche occidentali nei confronti della Russia, e più in generale di gestione dei rapporti internazionali da parte, soprattutto, degli Stati Uniti.
Per anni l’Occidente ha considerato la Russia come uno Stato irrilevante, ignorandone le richieste, gli interessi, senza mai cercare una cooperazione duratura e proficua. Ci si è, anzi, mossi in direzione opposta: prima l’espansione della Nato, violando gli accordi presi all’indomani della caduta del Muro; poi, davanti ad una Russia che cercava di riaffermare i propri interessi, il supporto a governi anti-russi ed il dispiegamento del sistema missilistico ai suoi confini. leggi tutto
L’antisemitismo contagia gli inglesi
Inchieste shock sull’antisemitismo in Gran Bretagna
È vero che nella moderna storia britannica l’antisemitismo è stato presente sempre e in tutti i settori della società, sebbene in forme meno aspre e pervasive rispetto all’Europa continentale, e la più recente storiografia ha ormai sfatato anche il «mito» della tolleranza degli inglesi nei confronti della comunità ebraica. Nondimeno, i risultati di alcuni sondaggi e inchieste condotti all’inizio di quest’anno hanno suonato un preoccupante campanello d’allarme circa il radicamento dell’antisemitismo nel Regno Unito.
Un’indagine eseguita qualche settimana fa da YouGov per la Campaign Against Antisemitism ha rivelato infatti che il 45% dei cittadini nutre sentimenti antisemiti, nella forma dell’adesione ai più comuni pregiudizi e stereotipi riguardanti gli ebrei. Ad esempio, il 25% condivide l’idea che essi «bramino il denaro più degli altri britannici»; uno su cinque ritiene che la lealtà degli ebrei verso Israele li renda «meno leali al Regno Unito»; il 13% pensa che «gli ebrei parlino troppo dell’Olocausto» e, circa uno su sei, che esercitino «troppo potere nei media». Dati «scioccanti» secondo gran parte della stampa britannica, ai quali ha immediatamente risposto il ministro degli Interni Theresa May dicendo, durante una cerimonia in ricordo delle vittime degli attacchi terroristici di Parigi, che la Gran Bretagna deve raddoppiare gli sforzi per «spazzare via l’antisemitismo». leggi tutto
Eppur qualcosa si muove. Osservazioni sul fronte siriano.
Le notizie provenienti dalla Siria nelle ultime settimane non lasciano intravvedere cambiamenti rilevanti in una situazione che è fondamentalmente in uno stallo militare. Forse, però, qualcosa si muove dal punto di vista politico, anche se molto lentamente.
Dal punto di vista militare l'esercito e il regime di Damasco godono ancora della superiorità in termini di armamenti e capacità di fuoco ma mancano di un numero sufficiente di truppe in grado sia di conquistare nuovi territori sia di mantenere le posizioni acquisite. Le cosiddette Forze di Difesa Nazionale, sorta di milizia ai comandi dell'esercito regolare e dei servizi di sicurezza, aiutano in modo sostanziale al controllo dei territori ma difficilmente contribuiscono alla conquista di nuove aree. I recenti scontri nel nordest contro le milizie curde dell'YPG ne hanno dimostrato i limiti. Intanto, il governo ha dovuto aumentare il prezzo da 25 a 35 lire siriane per la porzione standard di pane (1,55kg).
Dal lato dei ribelli e delle opposizioni tre sono i processi in corso. Le forze islamiste radicali hanno ormai preso il sopravvento sulle altre forze ribelli armate, moderate o laiche che siano. Dopo aver preso il controllo delle campagne attorno al capoluogo di Idlib, nel nord-ovest, l'affiliato di al Qaida, Jabhat al Nusra, si è scontrato a più riprese nella zona di Aleppo contro la coalizione di altri islamisti denominata Fronte di Sham. Non essendo stata in grado di conquistare la superiorità definitiva, leggi tutto
Romero non è solo. Il Perù, la violenza e la valenza politica delle nuove beatificazioni.
Lo scorso 3 febbraio papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i decreti per la beatificazione di cinque persone. Quattro di loro sono stati dichiarati martiri. Oscar Arnulfo Romero, vescovo di San Salvador, fu ucciso “in odio alla fede” il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte legati al governo autoritario del Paese. È un riconoscimento invocato da molto tempo. L’attesa ha indotto parte della Chiesa e dell’opinione pubblica a interrogarsi sul perché né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI abbiano compiuto il passo fatto invece da Bergoglio. Meno noto è il caso di Michal Tomaszek e Zbingiew Strzałkowski, francescani polacchi, e di Alessandro Dordi, sacerdote bergamasco, assassinati dai guerrieri maoisti di Sendero Luminoso il 9 e il 25 agosto 1991, a Pariacoto, diocesi di Chimbote (Perù costiero settentrionale). Vittime, i martiri, di violenze politiche provenienti da estremismi di desta e di sinistra e oggi uniti nella beatificazione, con una scelta che svela un equilibrismo politico poco casuale.
Roma: una Chiesa spaventata
Era allora vescovo di Chimbote Luis Bambarén Gastelumendi, gesuita, il quale iniziò presto il procedimento di beatificazione dei tre missionari, chiedendone il riconoscimento quali martiri uccisi in odio alla fede, proprio come Romero. La decisione per la beatificazione presumibilmente non è estranea alla visita che Bambarén Gastelumendi, oggi vescovo emerito di Chimbote, ha fatto al confratello Jorge Mario Bergoglio il 22 ottobre 2014. leggi tutto
Il dito, la luna e “Numero Zero” di Umberto Eco
Sembra quasi di vederlo, l’intrepido giornalista della testata cui daremo il nome fittizio di “Indipendente”. Il volto illuminato dal monitor e nel cuore la missione perentoria impartita dal caposervizio: screditare “l’intellettuale” (orrore) “di sinistra” (doppio orrore), scovando l’inevitabile magagna celata tra le pieghe del suo ultimo parto letterario. A un tratto sobbalza il giornalista: un account Twitter (non lui, ché ha troppo da scrivere per perder tempo a leggere) ha trovato un passaggio del libro copiato pari pari da Wikipedia! E allora via, la “notizia” finisce in bella evidenza sul sito del quotidiano, condita da allusioni alla polemica scatenata sui social network (leggi: che il giornalista sta montando ad arte). Certamente si può soprassedere quando simili episodi accadono a “persone qualunque”, giornalisti inclusi: ma se in ballo c’è “uno dei più importanti intellettuali italiani”... Poi l’ultima raffica, pane per i più fini palati complottisti: il passaggio incriminato risulta oggi “improvvisamente modificato” nella popolare enciclopedia online. “Solo una coincidenza? Misteri della letteratura …”.
Chissà se il giornalista, prima che il rimestio nel torbido divenisse il suo pane quotidiano, ha mai sognato di diventare l’autore del grande romanzo che gli desse fama e gloria. Se così fosse, si consoli: col minimo sforzo ne è divenuto almeno l’interprete involontario. La sua parabola ricorderebbe quella altrettanto ingloriosa del protagonista di “Numero Zero”, l’ultimo romanzo di Umberto Eco oggetto dei suoi strali. leggi tutto
Una donna al Quirinale
Mai come in occasione di questa elezione presidenziale l’ipotesi che venga eletta una donna al Quirinale è al centro di una pubblica discussione nel circuito politico -mediatico. Segno questo che, effettivamente, dopo lunghi decenni in cui la classe politica italiana non ha mai davvero affrontato il problema dell’esigua rappresentanza femminile in politica, oggi è in atto un cambiamento rispetto al modo di percepire il ruolo delle donne. Una tendenza che ha già prodotto risultati evidenti. In primo luogo, le ultime elezioni hanno visto aumentare notevolmente il numero di donne in Parlamento. In secondo luogo, la presenza femminile negli esecutivi risulta assai più rilevante che in passato. Già a partire dal governo Monti tre donne sono state poste in ministeri chiave, rompendo quella che, escluse pochissime eccezioni, era la prassi consolidata di confinare la componente femminile in ministeri cosiddetti “da donne”, ovvero quelli che hanno a che fare con la cura, come istruzione, sanità, ambiente e pari opportunità. In seguito, entrambi i governi Letta e Renzi hanno proseguito nel potenziamento della presenza femminile sia dal punto di vista numerico sia dal punto di vista dell’attribuzione di ministeri di primaria importanza. Il clima d’opinione sembra, quindi, essere diventato più favorevole all’impegno politico delle donne nonché a una loro ascesa alle più altre cariche. leggi tutto
Dove muoiono le tigri: corruzione e potere nella Cina di Xi Jinping
Durante i dieci anni a capo del Partito-Stato cinese tra il 2002 ed il 2012, l’amministrazione centrale dell’ex leader Hu Jintao concentrò gli sforzi nella lotta anti-corruzione su coloro che l’attuale Presidente Xi Jinping ha definito come “le mosche”, i corrotti funzionari a livello locale che hanno illegalmente prosperato a partire dall’inizio delle riforme di Deng Xiaoping nel 1979. Il nuovo leader Xi Jinping ha tuttavia promesso sin dall’inizio del suo mandato circa due anni fa di estendere per la prima volta la lotta alla corruzione anche alle “tigri”, quelle figure di primo piano nel sistema politico cinese ritenute intoccabili durante gli anni di Hu Jintao.
Dopo la condanna delle prime vittime eccellenti Bo Xilai e Zhou Yongkang (rispettivamente ex capo del Partito a Chongqing, ed ex-membro del Comitato Permanente del Politburo – il politico cinese di più alto rango ad essere arrestato dai tempi della Banda dei Quattro), la morsa della lotta alla corruzione negli ultimi mesi si è progressivamente stretta attorno ad una serie di figure chiave della politica cinese negli anni di Hu Jintao,facendo in particolare due vittime eccellenti: Ling Jinhua e Ma Jian. Ling è stato il principale aiutante dell’ex leader, precedentemente a capo del potente Ufficio Generale, mentre Ma, è stato fino al recente arresto il vice-ministro della sicurezza nazionale e una delle figure chiave dell’intelligence cinese. leggi tutto