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Giappone: la nuova vittoria per Abe
Da mesi si rincorrevano notizie positive (fine della deflazione, calo della disoccupazione ecc.), poi smentite da notizie negative (frenata dei consumi dovuta all’aumento il primo aprile dell’imposta dal 5% all'8%, calo dello 0,4% del PIL nel terzo trimestre 2014, seconda contrazione di fila, con conseguente crollo della Borsa e dello yen, ai minimi degli ultimi sette anni nei confronti del dollaro, con il ritorno nella recessione). Abe era solo a metà del suo mandato quadriennale quando ha deciso di sciogliere la Camera Bassa il 21 novembre, a due anni dalla vittoria e dal ritorno al potere del PLD dopo tre primi ministri in tre anni del Partito Democratico, e dopo un anno dall’ottenimento di una maggioranza stabile alla Camera Alta.
Il voto è stato interpretato da molti come un referendum sulle politiche economiche di Abe, soprannominate "Abenomics": le tre frecce della leva monetaria, della politica di stimolo fiscale e dei progetti di riforme strutturali. Abe ha focalizzato tutta la campagna elettorale sull’economia, promettendo di aumentare occupazione e salari, e cercando una legittimazione popolare per [la sua politica, che sostiene aumenterà il potenziale di crescita a lungo termine del Giappone, come] la decisione di rinviare da ottobre 2015 ad aprile 2017 la seconda fase dell’aumento dell’imposta sui consumi, dall’8 al 10%. Nelle elezioni del 14 dicembre Abe ha ottenuto una vittoria clamorosa: la coalizione Partito Liberaldemocratico-Nuovo Kōmeitō ha conquistato 290 seggi, 5 in meno di quelli che aveva, ma il Nuovo Kōmeitō ne ha guadagnati quattro (da 31 a 35). leggi tutto
Petrolio e politica: alla fine del primo boom energetico del XXI secolo
Dalla metà dello scorso giugno, il prezzo del barile di petrolio è calato di quasi la metà: secondo i dati forniti dal più grande cartello dei Paesi produttori, l’OPEC, siamo passati da 107 a poco meno di 62US$ nel giro di sei mesi. L’OPEC non esaurisce certamente tutte le riserve e la produzione totale di petrolio, né tantomeno quelle dei combustibili fossili. E tuttavia, le sue scelte sono molto importanti perché tra i suoi membri troviamo ancora i grandi produttori, come i più grandi detentori di riserve ad oggi conosciute ed utilizzabili.
Le spiegazioni per questo calo drastico, anzi possiamo parlare di vero e proprio crollo, sono essenzialmente di due tipi: quella strettamente “economica” basata sulla razionalità, sulla funzione di utilità; e quella geopolitica che considera come preponderanti la lotta di potere in atto a livello mondiale. Nelle società industriali e dei consumi di massa, le relazioni tra produttori e consumatori di energia non hanno mai seguito la razionalità del supposto homo economicus, per cui è difficile parlare di “mercato libero” del petrolio o dell’energia come se queste fossero due merci come le altre. Allo stesso tempo, politiche energetiche che non hanno considerato la propria sostenibilità finanziaria hanno mostrato presto i loro limiti. E’ dunque assai probabile leggi tutto
Stati Uniti e Cuba: un evento storico, due discorsi e molte incertezze
La riapertura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba, annunciata in questi giorni, è un avvenimento per il quale l'espressione "evento storico" è sicuramente appropriata. Non soltanto essa chiude uno strappo diplomatico apertosi nel lontano 1961, ma promette di dare un senso diverso a una relazione che, negli anni intercorsi, è stata segnata in maniera costante dai tentativi statunitensi di destabilizzare il governo cubano e da una retorica furiosa di denunce incrociate, relative ora alla natura dei sistemi economici vigenti nei due Paesi, ora alle differenti visioni di quello che nel secolo scorso si chiamava il Terzo Mondo, ora infine ai diversi progetti nutriti da Washington e l'Avana per le relazioni tra i Paesi latinoamericani e tra l'insieme di questi e il potente vicino del nord. Quali possano essere gli sviluppi reali di questa promessa, tuttavia, pare più difficile da intendere, non soltanto per l'ovvia considerazione che il futuro non è ancora scritto, ma anche perché la forma dei passi diplomatici sin qui compiuti presenta una serie di ambiguità.
Anzitutto, i due governi non hanno prodotto un comunicato congiunto, bensì due diversi annunci, pronunciati in contemporanea nella forma di discorsi ai rispettivi concittadini, da parte dei due capi di Stato, Barack Obama e Raúl Castro. Non si tratta di una scelta casuale, poiché se da un lato i due discorsi fotografano leggi tutto
Bergoglio, Obama e Castro. La forza di andare oltre il punto morto
Per parafrasare una celebre conferenza del cardinale Lercaro dedicata a Giovanni XXIII due anni dopo la sua morte si potrebbe dire che già oggi la riflessione dei periti in «cose» vaticane e, in modo particolare, su papa Francesco, è giunta a un punto morto.
Nel senso che ormai da mesi c’è una sorta di tacita convenzione che caratterizza la stragrande maggioranza delle riflessioni sull’azione del pontefice giunto dall’Argentina. Si tende insomma a leggerla in parallelo proprio a quella di Giovanni XXIII, il papa che ha convocato il Concilio Vaticano II che è stato recentemente proclamato santo da Francesco insieme a Giovanni Paolo II. Le ragioni sono anche comprensibili, ma c’è un rischio fondamentale in questo tipo di approccio, che è da un lato quello di dissimulare una certa pigrizia nell’analisi di ciò che sta accadendo in Vaticano dal 13 marzo 2013 e dall’altro di non cogliere anche le profonde differenze che esistono tra Francesco e i suoi predecessori, Giovanni XXIII incluso. Contestualmente all’annuncio dei presidenti Obama e Castro di una ripresa delle relazioni diplomatiche, interrotte sin dal fallimento dello sbarco alla Baia dei Porci del 1961, molte voci si sono rincorse per stabilire un nuovo parallelo tra Francesco e Giovanni XXIII, rievocando appunto l’appello alla pace che papa Giovanni rivolse nell’ottobre 1962 a Stati Uniti e Unione Sovietica, pericolosamente incamminati verso un conflitto nucleare. leggi tutto
L'architettura cohetillo: gli aymara boliviani e il capitalismo
Nella città boliviana di El Alto, che fa parte dell'agglomerato urbano della capitale La Paz, a partire dalla metà degli anni duemila sono spuntati edifici dalle forme bizzarre e dai colori sgargianti. Si tratta dell'architettura denominata cohetillo o neoandina. Il principale artefice di questo stile architettonico è Freddy Mamami. Ha iniziato la sua carriera come muratore; più tardi ha ottenuto il titolo di ingegnere ed ha ideato l'architettura cohetillo. Coordina oggi una squadra composta da duecento persone. Ha realizzato ben sessanta edifici cohetillos non solo in Bolivia, ma anche nel sud del Perù ed in Brasile. Altri circa venti edifici nello stesso stile sono in fase di costruzione.
La forma del cohetillo, che può raggiungere l'altezza di sette piani, è abbastanza uniforme. All'esterno l'edificio ha una struttura longilinea arricchita con forme e dipinta con colori della tradizione indigena aymara. Anche all'interno spiccano forme e colori ispirati alla cultura aymara. Generalmente, il pianterreno è riservato alle attività commerciali gestite direttamente dai proprietari dell'edificio. Il primo piano è occupato da una sala da ballo, destinata all'affitto per eventi come matrimoni e feste di vario tipo. Nei piani superiori si trovano appartamenti, anche questi destinati all'affitto. Nella parte superiore dell'edificio spicca la residenza dei proprietari o cholet. leggi tutto
Turchia e Santa Sede. La “trasversalità dialogante” di Papa Francesco nella crisi mediorientale
Il viaggio apostolico di Papa Francesco, svoltosi in Turchia dal 28 al 30 Novembre 2014, è stato preceduto da un importante vertice sul Medio Oriente, convocato dallo stesso pontefice in Vaticano dal 2 al 4 Ottobre. All’incontro hanno partecipato i Nunzi Apostolici del Medio Oriente, i rappresentati della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York e Ginevra, il nunzio apostolico presso l’Unione Europea e i Vertici della Curia Romana. L’incontro aveva come tema “La presenza dei Cristiani in Medio Oriente” e come obiettivo principale uno scambio di informazioni utili per una visione complessiva dell’intera situazione nella regione mediorientale.
Nel comunicato conclusivo dell’incontro, oltre all’urgenza di garantire assistenza umanitaria alle popolazioni della regione, emerse la forte preoccupazione rappresentata dalla minaccia dell’ISIS e dai gruppi estremisti e fondamentalisti. “Grave preoccupazione – si legge nel documento- desta l’operato di alcuni gruppi estremisti, in particolare del cosiddetto “Stato Islamico” le cui violenze e abusi non possono lasciare indifferenti. Non si può tacere, né la comunità internazionale può rimanere inerte, di fronte al massacro di persone soltanto a causa della loro appartenenza religiosa ed etnica, di fronte alla decapitazione e crocifissione di essere umani nelle piazze pubbliche, di fronte all’esodo di migliaia di persone, alla distruzione dei luoghi di culto”. In tale contesto il documento ribadisce la necessità di leggi tutto
Gli ombrelli si chiudono: la Umbrella Revolution di Hong Kong volge al termine
Dopo una breve ed intensa fase “sensazionalistica” concentrata soprattutto sugli aspetti più vistosi delle proteste (gli studenti ben disciplinati che fanno la raccolta differenziata, il fantasma di Tian’anmen che aleggia sulle scelte di Pechino, i grandi raduni di massa sotto la pioggia), tra i mezzi di informazione italiani, secondo un copione ormai ben consolidato, è velocemente e impietosamente calato il silenzio sulla cosiddetta Umbrella Revolution di Hong Kong.
In realtà, sebbene la fase delle grandi dimostrazioni di massa si sia conclusa ad inizio ottobre, quest’ultimo mese e mezzo non è stato privo di eventi rilevanti. Nel secondo sito delle proteste, nel quartiere popolare di Mong Kok a Kowloon, i manifestanti sono stati ripetutamente aggrediti da membri delle organizzazioni criminali locali, le triadi. La motivazione immediata di questi attacchi sono i mancati introiti delle attività economiche controllate dalle triadi nella zona occupata, ma è quasi certo il coinvolgimento di alcuni ambienti vicini alla polizia e al governo locale allo scopo di contrastare i manifestanti.
Dopo giorni di tensione tra i manifestanti della Umbrella Revolution da un lato e alcuni sparuti ma combattivi gruppi di sostenitori pro-governativi, con la polizia a giocare un ruolo non proprio super partes, i rappresentanti dei movimenti studenteschi si sono infine confrontati con rappresentanti del leggi tutto
Diplomazia: un ministro “politico” per una nuova ripartenza
L’arrivo del quinto ministro in tre anni esatti alla guida della Farnesina è l’occasione per tornare a riflettere sulla politica estera italiana. Ripartendo da un precedente contributo (http://www.mentepolitica.it/articolo/per-una-a-oeterzaa-repubblica-anche-alla-farnesina/140), non si può dimenticare che la proiezione di politica estera del nostro Paese ha subito una profonda evoluzione nel corso dell’ultimo ventennio, essenzialmente per due ragioni. Da un lato ha, infatti, subito gli effetti sistemici del tornante 1989-1992, per intenderci quello che dal crollo del Muro di Berlino conduce al Trattato di Maastricht, passando per la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dall’altro tali fattori esogeni hanno pesantemente condizionato il quadro politico interno. I vari tentativi (spesso fallimentari, ma comunque reali) di andare nella direzione di una democrazia dell’alternanza ad assetto bipolare e con un rafforzamento del ruolo e della legittimità del Presidente del Consiglio hanno avuto riflessi non trascurabili anche sulle scelte e le modalità di implementazione delle linee di politica estera.
Nel post ’89 l’Italia è stata per certi versi “forzata” alla politica estera, dopo oltre un quarantennio nel corso del quale aveva condotto la sua lenta e costante riabilitazione dopo i disastri della politica estera fascista e aveva cercato di ricostruirsi un’immagine di “media potenza” regionale, collocandosi nel gruppo fondatore del processo d’integrazione europea e sfruttando al massimo l’ombrello protettivo della Nato. Per molti versi il tornante 1989-1992 ha visto “scadere” la rendita di posizione geopolitica del nostro Paese e da quel momento non è stato più sufficiente soltanto seguire, in particolare l’alleato americano, o solo rincorrere, i principali partner europei. leggi tutto
Cattolici in Cina: storia e attualità di una questione insoluta
È notizia degli ultimi giorni quella di un possibile riavvicinamento tra il Vaticano e la “Chiesa patriottica cinese”, necessario preludio all’eventuale inaugurazione di una nuova stagione dei rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica popolare, a oggi ancora pressoché inesistenti.
Una questione di sovranità
La difficoltà di relazioni tra Roma e Pechino ha radici lontane. Papa Clemente XI nel 1704 sancì l’illegittimità dei metodi missionari introdotti da Matteo Ricci e dai gesuiti, volti a concedere il massimo rispetto alle cerimonie e ai costumi cinesi, nella ricerca di una convivenza tra l’insegnamento cattolico e la tradizione locale. Ribadito nel 1742 da Benedetto XIV, il divieto segnò la fine dell’avanzata cattolica nel Celeste Impero. Decisiva fu la reazione risentita dell’imperatore Kangxi, che alla predicazione gesuitica aveva guardato con benevolenza, fino a promulgare un Editto di tolleranza in favore del cristianesimo (1692). Solo nel 1939 Pio XII avrebbe modificato la linea di condotta romana, consentendo ai cristiani di partecipare alle cerimonie civili. Lo stesso pontefice consentì la costituzione di una gerarchia ecclesiastica locale nel 1946, ma reagì alla nascita della Repubblica popolare cinese (21.9.1949) vietando ai cattolici di cooperare con il regime. Il riconoscimento di Taiwan da parte della Santa Sede (1951) condusse alla rottura dei rapporti diplomatici tra la Cina e il Vaticano. Ufficialmente banditi, leggi tutto
A colpi di immagine. L’Isis e le forme di mediatizzazione del terrore
Continua l’offensiva mediatica condotta dall’Isis a colpi di decapitazioni, omicidi cruenti, spot inneggianti alla violenza. È degli ultimi giorni la messa in rete delle immagini che riprendono l’uccisione dell’ostaggio americano Peter Kassing (è il sesto) e di quindici soldati siriani. A colpire è, una volta di più, la cura meticolosa con cui vengono messe in forma le immagini lanciate sul web come veicolo di violenza. A impressionare non è tanto la qualità di ripresa dei video, ma la loro vicinanza a codici narrativi e modelli iconografici figli della cultura cinematografica occidentale. Vale dunque la pena riflettere sul ruolo che le immagini hanno nella guerra senza quartiere condotta in Siria e in Iraq dalle forze jihadiste.
Che le immagini costituiscano un aspetto centrale del “marketing del terrore” non è certo una scoperta di queste settimane. Al Qaeda l’abbiamo imparata a conoscere attraverso i video sgranati in cui Bin Laden inneggiava alla guerra santa contro l’Occidente, e negli anni la propaganda del terrore ha utilizzato in misura sempre più massiva le potenzialità della tecnologia digitale. Twitter, youtube, siti dedicati: l’azione di arruolamento delle coscienze e la minaccia alle potenze occidentali corrono sempre più sulla rete. Ma cosa è cambiato tra le immagini piatte e un po’ incerte che un tempo mostravano gli addestramenti dei talebani o i loro capi racchiusi in set improvvisati tra le rocce in compagnia dell’immancabile kalashnikov e i video che in questi mesi ritraggono processi sommari, combattimenti, fucilazioni? leggi tutto