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Il papa parla in aereo. Teologia e comunicazione nel viaggio in Asia
Non è raro leggere l’opinione di chi identifica papa Francesco come un teologo di livello inferiore a quello del suo predecessore. E chi lo sostiene proviene spesso da una cultura europea, preferibilmente tedesca o italiana. Cosa significa davvero questa affermazione? Forse essa rivela una scarsa attenzione alla pastorale pontificia e una conoscenza limitata alla tradizione teologica del Vecchio continente. Gli storici sono soliti definire questo atteggiamento come “eurocentrismo”.I contenuti della conferenza stampa tenuta dal papa durante il volo di rientro dal Bangladesh consentono dei ragionamenti importanti sulla questione.
Giocate a calcio?
L’unico riferimento alla teologia nel corso della conferenza testimonia, ancora una volta, la capacità comunicativa di Bergoglio. Riferendosi al suo incontro con i neo-ordinati preti cattolici in Bangladesh, ha raccontato di avere sempre l’abitudine di parlare privatamente con loro prima dell’ordinazione. E ha continuato:“Mi sono sembrati sereni, tranquilli, coscienti, avevano coscienza della missione, poveri, normali. Una domanda che ho fatto è stata: ‘Giocate a calcio?’ – ‘Sì!’, tutti. leggi tutto
Russia, fakenews e democrazia.
La democrazia occidentale è sotto attacco: no, non sono (solo) i terroristi islamici e gli immigrati (Minniti dixit), non sono di certo le banche e le diseguaglianze. A sentire un sempre maggior numero di politici e giornalisti, la crisi dell’Occidente è figlia dei cyber-attacks della Russia e delle cosiddette fakenews. Ci sarebbero i russi dietro l’elezione di Trump, la Brexit, la secessione catalana e, si parva licet, il fallimento del referendum costituzionale in Italia.
Cerchiamo innanzitutto di capire di cosa stiamo parlando. La Russia è accusata di un insieme generico di comportamenti leciti, semi-leciti e, talora, illegali atti a influenzare i comportamenti degli elettori.
Il problema ha assunto prominenza durante le elezioni presidenziali americane, quando alcune email di Hillary Clinton furono hackerate e rese pubbliche. Al momento non esiste nessuna prova concreta – anche se molti ragionevoli sospetti – che ci fosse il Cremlino dietro l’operazione. Quel che però è importante sottolineare è che, in questo caso, non stiamo parlando di fake news. Le email della Clinton erano vere.
A questo supposto atto di spionaggio sono poi seguite molte accuse di interferenza nei processi democratici di altri stati. I russi avrebbero – ed il condizionale è d’obbligo – disseminato notizie fasulle attraverso i social networks usando accounts finti e giocando leggi tutto
Ad Amartya Sen il Premio Skytte per le scienze sociali a quasi vent’anni dal Nobel
A quasi vent’anni dal Nobel per l’economia da parte della Banca centrale svedese (1998), ancora un riconoscimento importante per l’economista indiano Amartya Sen da parte della Svezia. È stato infatti assegnato proprio al professore di Economia e filosofia politica dell’Università di Harvard il Premio Johan Skytte dell’Università di Uppsala, uno dei riconoscimenti più ambiti nell’ambito delle scienze politiche e sociali che annovera tra i suoi più importanti vincitori studiosi del calibro di Robert Dahl, Juan Linz e Arend Lijphart.
La relazione tra etica ed economia, l’elaborazione di un indice econometrico dello sviluppo umano (lo Human Development Index), l’approccio delle capacità e la relazione tra identità e violenza sono i temi più importanti cari alla riflessione seniana degli ultimi quarant’anni che ha reso Amartya Sen uno dei più vivaci maestri del pensiero della contemporaneità. L’economista bengalese è nato nel 1933 a Santiniketan, all’interno del campus universitario di Visva Bharati, fondato dal poeta e pensatore Tagore, uno tra i centri di eccellenza per la formazione al libero pensiero nel subcontinente indiano. Nel 1951 Sen si laurea in economia a Calcutta e nel 1953, da poco sfuggito ad una grave malattia, vince una borsa di studio presso il Trinity College di Cambridge che diventerà l’alma mater in cui egli approfondirà la dimensione leggi tutto
Iraq: una ferita aperta. Quando la guerra diventa soggetto dell'arte Giles Duley per Emergency.
"La fotografia perde significato se non faccio tutto il possibile affinché il mondo veda quello che i miei occhi hanno visto. Ecco qual è il mio dovere". Con queste parole il fotografo britannico Giles Duley ci invita a scoprire il suo ultimo lavoro come reporter di guerra. Iraq: una ferita aperta è una mostra fotografica che sta occupando in questi giorni gli spazi di Casa Emergency, una collezione di scatti che documentano l'orrore e la devastazione del conflitto che ha colpito negli ultimi anni l'Iraq, nelle zone di Erbil e Mosul.
Una ventina o poco più di fotografie in bianco e nero, semplici ma potentissime, sistemate su cavalletti di compensato in una sala essenziale eppure austera, che ritraggono donne, uomini, bambini accolti nelle strutture di Emergency.
Non sempre è facile reggere lo sguardo su ciascuna immagine, eppure è tale il loro magnetismo che il percorso si finisce in fretta, tutto d'un fiato.
È questo quello che accade quando la fotografia, l'arte, diventano maestre di vita, quando diventano strumento di conoscenza, permettendoci di capire e vedere con i nostri occhi cosa succede in luoghi che troppo spesso consideriamo lontani da noi anni luce. Attraverso l'obiettivo di Giles possiamo visitare i progetti leggi tutto
Cosa ci racconta il viaggio di Donald Trump in Asia?
Cosa ci racconta il viaggio di Donald Trump in Asia riguardo alla posizione dell’attuale amministrazione USA nella regione? Non è una domanda senza importanza. Le mire nucleari della Corea del Nord, che negli ultimi mesi hanno condotto a una escalation verbale guardata con timore da più parti sono solo l’ultimo dei punti di una agenda che lo stesso Trump, soprattutto nei mesi della sua campagna elettorale si è preoccupato di infoltire. La sua retorica ‘neo-isolazionista’ ha alimentato i timori di alleati storici come il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. La telefonata del neo-eletto Presidente proprio con il suo omologo taiwanese ha prodotto, lo scorso dicembre, più di una fibrillazione negli ambienti diplomatici per la possibile risposta di Pechino a un segnale che poteva suonare sconfessione dell’ormai consolidata ‘one China policy’. Egualmente, fonte di fibrillazione sono state le accuse che Trump ha più volte diretto alla politica economica e monetaria di Pechino e il passo indietro fatto sulla Partnership transpacifica (TPP), lo strumento che il suo predecessore, Barack Obama, aveva elaborato non senza fatica per consolidare la posizione di Washington nella regione pur di fronte a un suo disimpegno militare, peraltro più apparente che reale. Se a ciò si aggiunge la leggi tutto
Il genocidio degli yazidi. L'Isis e la persecuzione degli «adoratori del diavolo»
Genocidio, questa parola coniata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin dopo l’Olocausto, non resta purtroppo relegata al Novecento o a pagine di storia ancor più remote. In tutta la sua terribile valenza, l’idea dello sterminio di un intero popolo resta un’opzione aperta del nostro presente, in un filo rosso che dall’attualità di questi anni risale alla Shoah, al genocidio armeno, e ancora più indietro. E il primo genocidio del XXI secolo – in larga parte ignorato dal mondo, come è avvenuto spesso nella storia – ha investito una piccola minoranza religiosa del Medio Oriente, quella degli yazidi.
A usare questo termine per questo specifico caso sono diverse organizzazioni internazionali, ma anche l’ONU, che in una sua indagine lo definisce un genocidio tuttora in corso. Oltre tremila donne di questo popolo, di lingua e cultura curda, in larga parte stanziato nel Nord dell’Iraq, restano tuttora tenute in uno stato di schiavitù nelle mani dei miliziani dell’ISIS, mentre – secondo una recente indagine dell’Associated Press – si stima siano almeno settantadue le fosse comuni legate a questi massacri, contenenti tra i cinque e i quindicimila corpi. Eppure, mentre i media ripetono come un mantra la parola terrorismo, e mentre il dibattito sulla violenza delle donne leggi tutto
Cosa è accaduto dopo il referendum sull’indipendenza del Kurdistan
Nelle scorse settimane si è parlato molto di Kurdistan iracheno e del referendum per l’indipendenza da Baghdad, tenutosi il 25 settembre. Poco si sa della storia dei curdi, questo popolo senza terra disperso tra Turchia, Iraq, Iran e Siria dal primo dopoguerra, quando gli venne rifiutato uno Stato, dopo averlo inizialmente promesso. I curdi iracheni vivono in autonomia dal 1991, quando l’Iraq invase il Kuwait, ma non hanno mai smesso di sentirsi animati dal sogno di autodeterminazione. Dopo anni di battaglie e campagne propagandistiche, il mese scorso si sono pronunciati in massa a favore dell’indipendenza, attraverso il voto. L'iniziativa referendaria, voluta dal presidente della regione autonoma curda Masoud Barzani, ha suscitato preoccupazioni dentro e fuori i confini dell’Iraq: primo tra tutti il governo centrale di Baghdad, poi i Paesi confinanti, dimora di importanti minoranze curde: Turchia, Iran e Siria. L'Iran, addirittura, aveva annunciato la chiusura delle frontiere terrestri e aeree, salvo poi lasciare il via libera.
Purtroppo, i rapporti già tesi tra la capitale irachena ed Erbil, roccaforte del Kurdistan, sono giunti al collasso definitivo tra il 16 e il 17 ottobre, distruggendo il sogno curdo d’indipendenza. Le forze militari di Baghdad, infatti, hanno condotto leggi tutto
Da Kirkuk a Raqqa e ritorno.
Tra domenica 15 e lunedì 16 ottobre 2017 le forze armate del Governo di Baghdad sono rientrate nella città di Kirkuk dopo anni di assenza: meglio, dopo essersi disciolte o ritirate di fronte all’avanzate delle forze dell’Organizzazione dello stato islamico in Iraq e in Siria (ISIS) che erano già entrate senza colpo ferire nella grande città irachena di Mosul, nell’estate del 2014. Da lì, i miliziani di quella che diventerà poi Organizzazione dello stato islamico (IS)si diressero verso nord, a Kirkuk, incontrando però la resistenza armata delle forze curde, che in Irak prendono il nome di peshmerga. Queste entrarono in città, ne presero i punti strategici tra cui i grandi, e antichi, giacimenti petroliferi, contravvenendo ad un accordo politico con il Governo centrale di Baghdad per cui solo le forze di sicurezza irachene, nazionali, potevano entrare armate nella città multi-“etnica” e multi-confessionale. La minaccia contingente di IS era comunque prioritaria rispetto alle rivalità pre-esistenti, per il momento. Una volta sconfitta militarmente IS,tornano però allo scoperto le divisioni tra chi deve governare la città: qui vivono comunità curde, arabe e turcomanne la cui entità è sempre stata oggetto di dispute e spostamenti, volontari e forzati, di popolazione nel corso degli ultimi decenni, ossia da quando leggi tutto
Il Nobel per la Pace all’ICAN: il disarmo nucleare globale in primo piano nel dibattito internazionale
Negli ultimi mesi il timore di un conflitto nucleare è tornato al centro dell’agenda politica internazionale, così come i tentativi, intrapresi sin dall’alba dell’era atomica, di abolire definitivamente il pericolo nucleare.
Il 6 ottobre, il Comitato norvegese ha difatti deciso di assegnare il Premio Nobel per la Pace 2017 alla Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari. L’ICAN, organizzazione ombrello costituita da 468 gruppi non governativi,operanti in 101 paesi, è stata fondata a Vienna nel 2007. I suoi promotori si sono ispirati alla campagna internazionale contro le mine degli anni Novanta che contribuì a creare un clima di opinione favorevole alla Convenzione di Ottawa sulle mine antiuomo firmata nel 1997. Sin dalla sua nascita, l’organizzazione con sede a Ginevra ha lavorato per rilanciare il dibattito pubblico internazionale sulla questione del disarmo, appannatosi dopo che i timori nucleari della Guerra fredda si erano attenuati grazie alla firma del trattato Inf del 1987 e alla caduta del muro di Berlino due anni dopo.
La Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari è riuscita a dare nuovo impulso agli sforzi a favore del disarmo nucleare, sia a livello di opinione pubblica internazionale sia nell’alveo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, esattamente 71 anni dopo l’adozione della prima risoluzione ONU in cui si sottolineava la necessità del leggi tutto
Il capo dei capi: Trump e la linea di comando nucleare statunitense
Qualche settimana fa si è spento nei dintorni di Mosca Stanislav Petrov, un ex ufficiale dell’aviazione sovietica che nel 1983 contribuì in maniera fondamentale ad evitare il possibile scoppio di una guerra nucleare. Mentre si trovava di guardia al sistema difensivo satellitare sovietico – quello che in pratica monitorava lo stato di allerta e operatività delle istallazioni nucleari statunitensi - Petrov scorse un segnale che lo avvisava dell’avvenuto lancio di ben cinque missili intercontinentali diretti verso l’Unione Sovietica. Era il 26 settembre e qualche settimana prima i russi avevano abbattuto un aereo di linea sudcoreano con a bordo un parlamentare statunitense. Una ritorsione americana, figlia dell’incidente e in linea con la retorica aggressiva di un presidente che aveva da poco pubblicamente definito l’Unione Sovietica come l’impero del male, era quindi del tutto plausibile. La linea di comando delle forze nucleari sovietiche, della quale Petrov costituiva un primo fondamentale tassello, avrebbe dovuto comunicare la notizia al segretario Andropov, sì da consentire ai vertici del Politburo di valutare le possibili reazioni alla minaccia, incluse quelle di tipo nucleare. Come raccontato in successivi diari e recenti volumi, Petrov decise tuttavia,e in maniera del tutto autonoma, di interpretare leggi tutto