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Pasticcio libico, versione italiana

Paolo Pombeni - 17.04.2019
Serraj

Chi venisse accusato di sottovalutare la crisi libica si offenderebbe: tutti si dicono estremamente preoccupati, ben consapevoli della portata del problema, e tutti fanno capire di avere dei piani per affrontare l’emergenza. Quali non è ovviamente dato di sapere, a meno che non ci si voglia fidar di qualche parola al vento. Sta di fatto che anche questa emergenza è una occasione per fare propaganda elettorale, non certo il miglior modo per rispondere ad una grave crisi alle porte di casa nostra.

Al solito si sta finendo per ridurre tutto alla possibilità che si presenti una emergenza migranti, che le drammatiche condizioni in Libia trasformerebbero ipso facto in rifugiati. Si sarà visto che su queste paure hanno subito speculato le parti in causa: Haftar per primo, perché il suo tentativo di conquistarsi la Tripolitania sperava venisse accettato visto che riteneva di potersi presentare come colui che era in grado di mettere ordine nel caos libico di cui profittano i trafficanti di esseri umani. Poi è arrivato Serraj, che si è affrettato a dare una intervista alla stampa italiana in cui sventolava la minaccia di 800mila persone pronte a salpare verso le nostre coste giusto per ottenere sostegno alla sua causa.

Se il generale Haftar suscita molte perplessità come “pacificatore” (la pace imposta con le armi dei dittatori non è mai gran che), Serraj è davvero incredibile nel presentarsi come colui che può contenere le partenze massicce. Il suo governo non ha mostrato grande efficienza nello stroncare la presenza degli scafisti, e la sua guardia costiera libica, nonostante generosi equipaggiamenti ricevuti dall’Italia, non ha realizzato un efficace controllo delle aree di sua competenza. Ma soprattutto il governo Serraj ha messo in piedi un sistema di detenzione dei migranti che è giustamente considerato inaccettabile e verso cui le persone salvate dalla sua guardia costiera non vogliono assolutamente fare ritorno.

Insomma si può capire che le ragioni della diplomazia non possano far altro che spingere per una tregua negli scontri e per un congelamento della situazione fatto passare per ipotetica ripresa del dialogo fra le parti, ma è bene sapere realisticamente che un successo di quell’impresa, visti i suoi limiti, non inciderà più di tanto sulla presenza del traffico degli scafisti.

A fronte di una situazione tanto complicata ed incerta, con un contesto europeo che non si capisce bene se abbia chiaro il quadro della situazione e con un insieme di tensioni nell’area in cui si esercitano le ambizioni “regionali” di vari potentati, per il nostro paese sarebbe necessario esibire il massimo di concordia nazionale per mandare messaggi chiari alle forze in campo. Invece il quadro della politica italiana è quello di piccole zuffe per sfruttare elettoralmente le emozioni dell’opinione pubblica.

Realismo vorrebbe che tutti prendessero atto che nella situazione attuale lo spirito pubblico del paese non è in grado di reggere eventualmente l’urto emotivo di arrivi di massa di profughi. Non abbiamo neppure le strutture per gestire un’emergenza di quel genere e non va sottovalutato il pericolo che questo finisca per essere l’occasione per un’ulteriore espansione dell’estrema destra che poi si tira dietro anche un centro destra moderato (ma numericamente molto consistente). Non da ultimo perché la natura delle persone che arriverebbero non corrisponde esattamente a quella di “profughi” (che se fossero tali ritornerebbero a casa non appena le condizioni lo permettessero), ma, in buona parte almeno, di migranti economici che puntano ad un inserimento nel tessuto lavorativo europeo (con tutti i problemi che conosciamo).

Non si tratta ovviamente di accedere alle retoriche cosiddette sovraniste (talora becere), che ci sono estranee, ma solo di voler guardare i problemi nelle loro dimensioni reali. Può anche darsi che fra un po’ la crisi si stabilizzi, ma c’è da dubitare che basti questo a mettere sotto controllo un fenomeno migratorio che continua a premere per trovare la via dell’Europa (che passa per l’Italia come primo approdo). Un alleggerimento della pressione potrebbe venire solo dal ripristino di condizioni di vivibilità e di lavoro nell’area libica e nella creazione di condizioni almeno decenti per quella umanità che vi si è ammassata nell’attesa di imbarcarsi. Ma è immaginabile che si possa almeno avviare un processo in questa direzione?

È questa la domanda fondamentale che andrebbe rivolta al governo Conte e per suo tramite a tutta l’Unione Europea, sperando che questa possa avere la forza, grazie alle dimensioni, per esercitare un contenimento dei molti appetiti che si stanno scatenando intorno ad un paese che ha notevoli risorse petrolifere che fanno gola a tanti attori internazionali. Le baruffe tra Salvini e Di Maio, ciascuno colla sua corte di supporter, sono francamente poco interessanti, ma soprattutto per nulla convincenti quanto a proposte di interventi efficaci: chiudere o aprire i porti non è che un dettaglio, che può essere simbolico e dunque utile per raccogliere consensi, forse può anche avere un limitato impatto come deterrenza, ma che è destinato ad aprire querelle per ogni caso che si presenterà in concreto senza poter incidere davvero sulle radici del fenomeno migratorio, e nemmeno sulle nostre capacità di affrontarlo senza rimanerne travolti.