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02 ottobre 2024
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Argomenti

Contratto di governo M5S-Lega

Leila El Houssi * - 26.05.2018

Il fantomatico contratto di governo tra Lega e movimento 5 stelle ha partorito nel suo insieme un compromesso alquanto pericoloso che spingerà il nostro paese a una pericolosa involuzione. Se sul fronte della politica interna molti commentatori e analisti hanno espresso la loro opinione sulle eventuali disposizioni che il contratto riporta, poco è stato detto su questioni che riguardano Ius Soli, politica estera e questione immigrazione.

Allo Ius Soli non viene dedicata neanche una riga probabilmente perché l’argomento per i nostri prossimi governanti non merita di essere contemplato.  E’ palese, ed è già emerso in campagna elettorale, che leghisti e pentastellati nutrano sentimenti che passano dal disprezzo all’indifferenza nei confronti di persone la cui origine non è italiana ma  che sono nate e/o cresciute nel nostro paese. Sono 800mila ragazze e ragazzi che ad oggi non sono tutelati dallo Stato italiano e sembra non esserci alcuna volontà per una soluzione L’unico riferimento che troviamo è al punto 18 quando si parla di 'politiche per le famiglie e la natalità''. In quest’articolo in cui si avvalora “il sostegno per servizi di asilo nido in forma gratuita a favore delle famiglie italiane” come ha recentemente sostenuto la ex ministra Livia Turco si “calpesta l'articolo 3 della Costituzione che vieta

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L’insostenibile leggerezza di essere Libano

Giovanni Parigi * - 02.05.2018

In Libano, il prossimo sei maggio, si terranno le elezioni parlamentari. Per il paese si tratta di un evento di estrema rilevanza, in quanto le ultime precedenti si tennero nel 2009, quando non erano ancora scoppiate né le Primavere Arabe né la guerra civile in Siria, e il Da‘esh era ancora lungi da venire. Di fondo, le cause di questo ritardo quasi decennale sono dovute all’inconciliabilità delle posizioni di Hezbollah e i suoi alleati con quelle delle altre forze politiche; in particolare, l’approvazione della nuova legge elettorale, questioni di sicurezza interna e regionale nonché uno stallo di due anni nella nomina del presidente della repubblica hanno portato a ben due proroghe dell’attuale parlamento.

In realtà, questo impasse istituzionale non è altro che il sintomo di una causa più profonda del “malessere libanese”, ovvero il fatto che in Libano manca una vera e propria dinamica di alternanza al potere, bensì vige un sistema consociativo, che vede la distribuzione del potere su base settaria e un susseguirsi di governi di unità nazionale; quindi, o c’è un accordo di pressoché tutte le forze politiche, o la vita politica del paese si paralizza.

Sennonché, grosso modo a partire dal 2006, grazie ad una serie di dinamiche leggi tutto

L’insostenibile leggerezza di essere Libano

Giovanni Parigi * - 28.04.2018

In Libano, il prossimo sei maggio, si terranno le elezioni parlamentari. Per il paese si tratta di un evento di estrema rilevanza, in quanto le ultime precedenti si tennero nel 2009, quando non erano ancora scoppiate né le Primavere Arabe né la guerra civile in Siria, e il Da‘esh era ancora lungi da venire. Di fondo, le cause di questo ritardo quasi decennale sono dovute all’inconciliabilità delle posizioni di Hezbollah e i suoi alleati con quelle delle altre forze politiche; in particolare, l’approvazione della nuova legge elettorale, questioni di sicurezza interna e regionale nonché uno stallo di due anni nella nomina del presidente della repubblica hanno portato a ben due proroghe dell’attuale parlamento.

In realtà, questo impasse istituzionale non è altro che il sintomo di una causa più profonda del “malessere libanese”, ovvero il fatto che in Libano manca una vera e propria dinamica di alternanza al potere, bensì vige un sistema consociativo, che vede la distribuzione del potere su base settaria e un susseguirsi di governi di unità nazionale; quindi, o c’è un accordo di pressoché tutte le forze politiche, o la vita politica del paese si paralizza.

Sennonché, grosso modo a partire dal 2006, grazie ad una serie di dinamiche leggi tutto

L'enigma della Siria

Vanja Zappetti * - 18.04.2018

Le notizie risuonano drammatiche come solo i bollettini di guerra sanno fare, gli attacchi missilistici notturni, tuttavia, erano l'opzione a minor impatto a disposizione di Stati Uniti, Regno Unito e Francia per agire in termini bellici. Da una parte danno il contentino agli interventisti occidentali dall’altra riescono a evitare lo scontro con la Russia, e alla fine non incideranno in alcun modo sul risultato della guerra siriana, che perdura indisturbata da sette anni.

 

A Trump, Macron e May riuscirà così di recitare il ruolo dei duri, Assad continuerà a uccidere i siriani impunemente e molto probabilmente con armi chimiche ma ora potrà sventolare la bandiera della vittima, Putin potrà dare la colpa all’Occidente. Fuochi d’artificio, poco di più, nessuna strategia di medio o lungo termine, nessuna volontà politica reale di salvare vite umane.

 

Ma perché Trump ha impiegato così tanto tempo a reagire in Siria? Per una serie di motivi, non ce n’è mai uno solo: innanzitutto perché è stato preso di sorpresa da ciò che riteneva improbabile, ossia che Assad venisse colto di nuovo in fallo. Poi perché la sua amministrazione, esattamente come quella di Obama, non aveva e non ha alcuna prospettiva di lavoro né emergenziale né, e tanto leggi tutto

Xi Jinping per sempre

Aurelio Insisa * - 21.03.2018

Lunedì 11 marzo l’Assemblea Nazionale del Popolo della Repubblica Popolare Cinese ha approvato, con percentuali tipicamente "bulgare", un emendamento costituzionale che ha abolito il limite di due mandati per la carica di Presidente della Repubblica. L’emendamento, proposto all'Assemblea dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) questo gennaio (ma reso pubblico solo a febbraio), permetterà all'attuale Presidente Xi Jinping di rimanere al potere oltre il termine del suo secondo mandato nel 2023. La ratificazione dell’emendamento costituzionale è stato l’ultimo passaggio di un processo iniziato nel diciannovesimo Congresso del PCC svoltosi lo scorso ottobre. In quell'occasione, le nomine del nuovo Comitato Permanente del Politburo non diedero alcuna indicazione sull'identità del successore del Segretario Generale in carica (contrariamente a quanto avvenne nel diciassettesimo Congresso, nel 2007).

Questo emendamento è destinato a produrre un cambiamento fondamentale negli equilibri politici in Cina, poiché scardina quel processo interno di “istituzionalizzazione” (zhiduhua) che a partire dalla metà degli anni novanta creò un quadro di riferimento istituzionale coerente e soprattutto prevedibile. Le pietre angolari di questo processo furono l’introduzione di un limite leggi tutto

Xi Jinping per sempre

Aurelio Insisa * - 17.03.2018

Lunedì 11 marzo l’Assemblea Nazionale del Popolo della Repubblica Popolare Cinese ha approvato, con percentuali tipicamente "bulgare", un emendamento costituzionale che ha abolito il limite di due mandati per la carica di Presidente della Repubblica. L’emendamento, proposto all'Assemblea dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) questo gennaio (ma reso pubblico solo a febbraio), permetterà all'attuale Presidente Xi Jinping di rimanere al potere oltre il termine del suo secondo mandato nel 2023. La ratificazione dell’emendamento costituzionale è stato l’ultimo passaggio di un processo iniziato nel diciannovesimo Congresso del PCC svoltosi lo scorso ottobre. In quell'occasione, le nomine del nuovo Comitato Permanente del Politburo non diedero alcuna indicazione sull'identità del successore del Segretario Generale in carica (contrariamente a quanto avvenne nel diciassettesimo Congresso, nel 2007).

Questo emendamento è destinato a produrre un cambiamento fondamentale negli equilibri politici in Cina, poiché scardina quel processo interno di “istituzionalizzazione” (zhiduhua) che a partire dalla metà degli anni novanta creò un quadro di riferimento istituzionale coerente e soprattutto prevedibile. Le pietre angolari di questo processo furono l’introduzione di un limite leggi tutto

L’assedio del cantone di Afrin

Gastone Breccia * - 28.02.2018

La regione di Afrin è la più occidentale del Rojava (o meglio del Rojavayê Kurdistanê, «Kurdistan Occidentale»), la zona della Siria ai confini con la Turchia dove i curdi costituiscono la maggioranza della popolazione (circa due milioni e mezzo su quattro totali, anche se le stime sono controverse). Durante la guerra civile che ha sconvolto il paese a partire dal 2011 Afrin è stata un’oasi felice: sgombrata pacificamente dalle truppe di Assad nel 2012, da allora è governata (come gli altri due cantoni del Rojava, Cizre e Kobane) dal «Partito dell’Unione Democratica» (PYD), versione locale del PKK di Abdullah Öcalan - considerato quindi dai turchi un’organizzazione terroristica - che è riuscito a gettare le basi per la pacifica convivenza tra arabi e curdi. Grazie al suo relativo isolamento, la zona di Afrin non è rimasta coinvolta nei combattimenti attorno ad Aleppo, distante solo una quarantina di chilometri, ed ha rappresentato una speranza di salvezza per i civili in fuga dalla grande città assediata.

Con l’intervento degli Stati Uniti a fianco delle milizie del Rojava (YPG/YPJ, «unità di protezione popolare» maschili e femminili) a partire dal maggio 2016, e la successiva sconfitta dell’ISIS nell’est del paese, sia la situazione sul campo che le prospettive politiche a più lungo termine sono cambiate in maniera radicale.

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A proposito di «DOV’È CHE IL NOSTRO POPOLO È STATO CREATIVO?» Conversazioni di papa Francesco con i gesuiti del Cile e del Perù

Sabina Pavone * - 24.02.2018

Quello che immediatamente colpisce nelle interviste rilasciate da papa Francesco ai gesuiti cileni e peruviani in occasione del suo ultimo viaggio è, ancora una volta, il linguaggio franco e diretto. Il papa parla utilizzando un registro assai poco consueto nella storia dei pontificati precedenti, pur se l’apparente semplicità di approccio sembra ricordare talvolta quella di papa Giovanni. Ma Francesco è solo apparentemente semplice, il suo stile è frutto di un dono, la capacità di scegliere un eloquio piano e comprensibile ai più ma, come d’altronde è stato ricordato, non si tratta di spontaneità, piuttosto di uno studio secolare che ha portato la Compagnia di Gesù a privilegiare sin dalla sua fondazione l’uso di canali comunicativi differenti a seconda del contesto di riferimento.

Delle due interviste – pubblicate dalla Civiltà Cattolica– la stampa ha messo in risalto soprattutto i passaggi laddove papa Francesco in merito alle critiche a lui rivolte, risponde che la sua reazione è quella di non leggerle, soprattutto quelle che vengono riportate online, per preservare la sua «salute mentale». Fermarsi a queste parole – che denotano, leggi tutto

Se avesse ragione Trump sugli investimenti pubblici?

Gianpaolo Rossini - 21.02.2018

Trump spinge sugli investimenti destinandovi 200 miliardi federali. Sul NYT del 12 febbraio il premio Nobel Krugman banalizza in quanto sarebbe solo una compensazione a tagli ai ministeri di Trasporti ed Energia. Nella seconda parte dell’articolo Krugman è però meno pessimista. La spesa federale potrebbe trascinare quella pubblica locale e quella privata. Con effetti moltiplicativi da 1000 a 1500 miliardi di investimenti totali pubblici e privati. La necessità di nuove infrastrutture di trasporto, distribuzione e produzione di energia  è avvertita da larga parte degli americani e spinge il consenso al presidente. In questa manovra molti economisti intravvedono però una espansione del deficit pubblico Usa, già sotto stress per la riforma fiscale che taglia l’imposta sugli utili d’impresa. Se usiamo l’odiosa bilancia di Maastricht il quadro è ancora più fosco. Il vero debito pubblico Usa è quello federale più quello delle amministrazioni locali. Mentre il riferimento è sempre a quello federale. Il reale debito pubblico supera in percentuale quello del bel Paese attestandosi a circa il 134% sul Pil. Ma al funambolico Donald non sembra fregare molto dei conti pubblici facendo infuriare oppositori ed economisti, al solito con musi lunghi. La reazione delle imprese, vicine a Trump, è positiva. La mossa di Donald  dà una ulteriore spinta all’economia Usa e piace nelle leggi tutto

La partita coreana

Nicola Melloni * - 14.02.2018

Solo fino a poche settimane fa, i Giochi Olimpici di Peyong Chang erano un caso internazionale: con i venti di guerra che spiravano dal Nord, l’evento era considerato ad alto rischio, temendosi addirittura un attacco di Pyongyang proprio durante i Giochi. Ed invece, con sorpresa di molti, l’offensiva nord-coreana si sta giocando tutta sul soft power. La sfilata insieme agli atleti del Sud, le cheerleaders, la visita di KimYo Jong hanno di fatto mandato l’immagine – artefatta quanto vogliamo, ma tant’è – di un paese che, attraverso lo sport, tenta di aprire un canale diplomatico e che non nutre alcuna ostilità verso la Corea del Sud. Mandando su tutte le furie gli Stati Uniti. 

Da oltre un anno, la Casa Bianca e i media – americani, ma non solo –insistono in maniera quasi ossessiva sul rischio di un Olocausto nucleare. L’isteria ha raggiunto livelli tali che circa un mese fa nella Hawaii è scattato l’allarme atomico, con la popolazione invitata a cercare rifugio in vista dell’arrivo dei missili del dittatore coreano. L’assunto di base è che Kim sia un pazzo furioso pronto a scatenare una guerra nucleare – che vedrebbe l’annientamento suo e del suo paese – per …? Non si sa: nessuno si è mai premunito di fornirci leggi tutto