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Prezzi del petrolio in discesa: opportunità e rischi

Gianpaolo Rossini - 26.01.2016
Prezzi del petrolio in discesa

Un piccolo rimbalzo del prezzo del petrolio da 27 a 32 dollari tra venerdì 22 gennaio e inizio settimana non  altera molto la condizione dei mercati dell’oro nero che hanno visto le quotazioni scendere dai quasi 110 dollari a barile toccati nel 2012-4 ai livelli del 1979. Come cambiano le prospettive dell’economia mondiale con un prezzo del petrolio tornato ai livelli di quasi 40 anni fa? Chi ci guadagna? Chi ci perde? E come saranno i prezzi nel futuro prossimo?

Iniziamo dall’ultima questione osservando che dal 2008 il consumo di petrolio nel mondo è cresciuto ad un misero tasso annuo dello 0.5%. Dal 2000 l’energia prodotta con le rinnovabili è cresciuta circa 15-16 volte e quella idroelettrica dal 2010 ha compensato con la sua salita la lenta discesa di quella nucleare. Le proiezioni dei consumi per i prossimi 15 anni, per quanto veritiere, ci danno tassi di crescita annuali del consumo di petrolio attorno allo 0.4%. A fronte di nuovi giacimenti scoperti soprattutto in Africa, produzione Usa di shale oil e ripresa estrazione in Iran le previsione di prezzi, a meno di conflitti di larghe proporzioni, sono piatte se non cedenti.

Per capire invece gli effetti del basso prezzo dell’energia, occorre muoversi per grandi aree. Nei paesi produttori del golfo persico le entrate fiscali provengono in gran parte dalle royalty su petrolio e gas esportati. Ad esempio, nel sultanato dell’Oman, petrolio e gas fanno il 72% del bilancio pubblico. Il budget 2016 stilato due settimane fa contiene una previsione di prezzo del petrolio a 40 dollari a barile, stabilisce tagli di spesa e aumenti di imposte (il prezzo della benzina raddoppia nel 2016). Il deficit pubblico sale intorno al 15% del Pil. L’Oman taglia spese per il welfare e riduce investimenti per opere pubbliche. Non vi sono però tagli alla difesa. Per finanziare l’aumento del debito pubblico saranno vendute  riserve valutarie e il sultanato emetterà titoli da collocare soprattutto all’estero. L’Oman ha una popolazione di circa 4 milioni di residenti e ospita oltre due milioni di lavoratori emigrati – gli expat da India, Egitto, Iraq, Palestina, Pakistan, Malaysia - sui quali si scaricherà prevalentemente il peso dell’adeguamento dell’economia del sultanato ai bassi prezzi del petrolio. In ultimo, ma non aspetto secondario, diminuiranno le importazioni dell’Oman da Europa, Cina, Giappone. L’Oman costituisce il paradigma di quanto avviene in modo ancora più radicale negli emirati e in Arabia Saudita, dove le tasse sull’export di petrolio e gas rappresentano percentuali maggiori delle entrate fiscali e dove la quota di expat è ancora più alta. Qui i tagli di spesa e la riduzione di riserve valutarie saranno più radicali ma non sembrano in grado di minare profondamente, almeno nell’immediato il tenore di vita della popolazione autoctona, anche se obbligheranno ad una nuova fiscalità che graverà su consumi e attività interna e non più solo sulle esportazioni. Negli Usa (e Canada) il problema riguarda le aziende che hanno investito nel fracking per estrarre petrolio dagli scisti del sottosuolo. Alcune di queste sono già in stato di fallimento, altre non navigano in buone acque e hanno cancellato drasticamente nuovi investimenti. Nonostante le difficoltà del settore il suo peso sull’economia Usa non è tanto alto da far temere una crisi finanziaria. Gli investimenti nel settore nei momenti d’oro della corsa al fracking hanno raggiunto una quota del 10% sul totale degli investimenti in capitale fisso degli Usa. Ora viaggiano attorno al 4%. L’effetto congiunto però della crisi di questo settore e la simultanea vendita di titoli Usa da parte dei paesi del golfo persico (e della Cina che cerca di evitare una forte svalutazione della sua divisa) potrebbe mutare i piani della Fed per un abbandono progressivo della politica di moneta facile e tassi vicino allo zero.  In Russia gas e petrolio incidono per metà delle entrate fiscali. Qui non si dispone di ampia popolazione di lavoratori emigrati come nei paesi del golfo e quindi manca un cuscinetto su cui scaricare la discesa delle entrate. Il sistema bancario e l’economia sono più esposti come mostrano la caduta verticale delle vendite di auto nuove crollate negli ultimi mesi di circa il 40%. La Russia potrebbe rivelarsi l’anello più debole in questo riposizionamento globale a seguito dei ridotti prezzi energetici. Ne deriva dunque una debolezza strutturale dell’economia russa che potrebbe fare prevedere qualche ammorbidimento nella politica estera. Non dobbiamo però aspettarci grandi mutamenti perché il popolo russo ha grande coesione e capacità di mantenere le posizioni in politica estera anche in situazioni difficili. Il riemergere di un ruolo della Russia nello scacchiere mediorientale non è un dato negativo per l’Occidente. Se questo ruolo fosse stato attivo nei primi anni del nuovo millennio probabilmente non avremmo avuto le catastrofiche avventure degli Usa in Iraq e dei “magnifici due” Cameron e Sarkozy in Libia. Ci resta l’Europa per la quale la discesa dei prezzi di petrolio e gas è analoga alla diminuzione di imposte e per di più senza oneri per il bilancio pubblico. Insomma per noi i benefici netti sono ampiamente positivi. Ma dobbiamo saperli usare bene. Il che implica non dimenticare i nostri obblighi a livello globale. L’Europa, insieme alla Cina, dovrebbe e potrebbe cercare di spingere la domanda interna facendo da locomotiva alla parte di globo in difficoltà per la caduta del prezzo del petrolio. L’Europa non può continuare a pensare di crescere esportando sempre di più e inanellando enormi surplus di conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero (soprattutto Germania e Olanda). Deve con coraggio stimolare la domanda interna e non essere troppo avara nelle politiche di accoglienza che in alcuni paesi, tra i più ricchi del mondo, hanno invece assunto aspetti sconcertanti. L’Europa che ha a lungo depredato vaste aree del globo attraverso il colonialismo e altre forme di asservimento economico ha di nuovo un’occasione per dimostrare di essere un riferimento di civiltà e un modello economico. Ma occorrono politiche coraggiose, aperte e lungimiranti che sappiano valorizzare il ruolo che l’Europa ha nel pianeta e che non misurino in maniera occhiuta le risorse da dedicare a paesi e persone la cui condizione è in buona parte nostra responsabilità.