Londra e Roma “mano nella mano” al Consiglio europeo. Cui prodest?
In prossimità del Consiglio europeo del 17-18 dicembre, un appuntamento che si preannunciava quanto mai rilevante – sul tavolo, tra l’altro, le problematiche legate ai flussi migratori, alle crisi internazionali, alla “Brexit” – «la Repubblica» e il «Telegraph» hanno pubblicato un articolo di fondo (Lavoriamo insieme per un’Europa migliore/Britain and Italy stand together on EU reform”) firmato congiuntamente dal ministro degli esteri italiano Gentiloni e dal suo omologo inglese Hammond. Il ragionamento proposto si sviluppa soprattutto intorno a due punti chiave: la necessità di “semplificare” l’Ue e renderla più flessibile (parola che diventa quasi un mantra, tante sono le volte che ricorre nel testo); il diritto per gli stati che vogliono progredire sulla via della maggiore integrazione, specie se parte dell’Eurogruppo, di andare avanti.
Tuttavia, entrambi i concetti sono formulati in termini così vaghi che, volendo, è possibile dare al documento interpretazioni completamente divergenti. Ad esempio, sulla necessità (innegabile) di riformare l’Ue, di semplificarne il quadro istituzionale, si può innestare facilmente il tentativo di ridimensionare il ruolo delle istituzioni comuni – soprattutto del Parlamento europeo, di ammorbidire il “vincolo europeo” in alcuni campi e di abbassare la portata di diverse politiche: tutti concetti che potrebbero essere sottoscritti da partiti, movimenti e governi nazionali che auspicano esplicitamente una radicale riduzione, se non l’eliminazione tout court, della dimensione sovranazionale dell’Ue (vedi Le Pen, Farage, Salvini, o i governi ungherese, polacco e, per l’appunto, inglese). Così come il diritto a progredire sulla via dell’integrazione è negativamente controbilanciato dall’esplicito richiamo a un parallelo diritto ad avere “meno Europa” fin quasi ad ammettere, de facto, la possibilità di un’uscita unilaterale dalla costruzione comunitaria. Un’Europa “à la carte” per usare un’espressione cara al Regno Unito: prendo ciò che mi serve e rigetto quello che non mi è utile; entro ed esco in base alla congiuntura sociale, economica e politica.
Prendendo atto della diversità di approccio tra i due paesi (ma allora perché firmare un documento insieme?) l’articolo si chiude con l’invito a lavorare per “una Ue flessibile e riformata in cui differenti percorsi di integrazione possano coesistere con successo”. È una conclusione sorprendente che va nella direzione, da parte italiana, di trovare a ogni costo un compromesso con Londra, legittimandone, quindi, le rivendicazioni. Un compromesso che va a svantaggio dell’Ue perché una volta aperta la porta alle “ri-negoziazioni” nazionali, resterà solo da capire quale sarà il prossimo a farsi avanti. È facile anche immaginare le ripercussioni di una tale situazione d’incertezza sui mercati.
Visto da Londra, il “tornaconto” dell’operazione è evidente: nel difficile percorso verso il referendum che si terrà (forse) nella prossima estate, il governo Cameron ha tutto l’interesse a presentarsi davanti all’opinione pubblica del Regno Unito e nei consessi europei forte del sostegno di altri stati membri; tanto meglio se quel sostegno proviene da paesi, come l’Italia, tradizionalmente europeisti. Meno chiare, per usare un eufemismo, sono le motivazioni che hanno portato il governo italiano a firmare il documento: legittimando le rivendicazioni di Londra, l’Italia non ottiene altri risultati se non quello di incrinare i rapporti con la Francia e la Germania in un contesto, segnato dagli attentati di Parigi, che richiederebbe, semmai, una maggiore coesione tra i paesi che considerano l’Ue come un punto di non ritorno e l’integrazione europea come l’unica risposta possibile alla palese incapacità degli stati nazionali europei di governare i grandi processi internazionali in atto. Il governo italiano, forse alla ricerca di un maggiore protagonismo, sembra però aver scelto il tema (la riforma dell’Ue e il referendum inglese), il partner (Cameron) e il momento (il post Parigi) meno opportuni.
La vicenda, tra l’altro, ha un illustre precedente: nell’ottobre del 1991, mentre le negoziazioni in vista del Consiglio europeo di Maastricht si stavano occupando di risolvere le ultime (spinose) questioni, De Michelis e Hurd firmarono un documento comune sulla difesa che, improntato a un marcato atlantismo, andava contro il tandem Mitterrand-Kohl. Anche in quell’occasione il vantaggio era tutto per il governo Major: far rientrare in gioco la Gran Bretagna, mostrando come Londra fosse capace non solo di dire “No” o di avanzare proposte al ribasso, ma anche di essere propositiva e disponibile alla ricerca di un accordo sugli aspetti cruciali - come la politica estera e di sicurezza comune.
L’Ue, oggi più che mai, ha bisogno di capire “chi” e “cosa” vuole essere da grande; deve affrontare problemi che sono stati troppe volte rimandati e che sono messi duramente in evidenza dalle crisi attuali. Che sia il momento della chiarezza e non quello dei compromessi a ogni costo, è reso quasi ovvio dalle cronache sociali, politiche ed economiche che agitano il continente europeo. La sensazione, per quanto si è evidenziato, è che l’articolo a firma Gentiloni e Hammond ostacoli questa improcrastinabile necessità di chiarezza. Che a spingere in questa direzione sia per giunta l’Italia, lascia basiti.
* Professore a contratto Università della Tuscia
di Massimo Piermattei *
di Elisa Calliari *