Mal comune ….. mezzo gaudio?
La metà del mandato ha spesso colto gli inquilini dell’Eliseo in difficoltà. Ma a due anni è mezzo dalla sua elezione, François Hollande si trova nel bel mezzo di un vero e proprio incubo politico.
De Gaulle, eletto a suffragio universale diretto nel 1965, ha vissuto il trauma di metà mandato nel maggio ’68. La riscossa del voto anticipato è durata meno di un anno e poi sono giunte le dimissioni dopo la bocciatura del referendum sulla riforma del Senato. Per Pompidou eletto nel 1969, la metà del settennato ha coinciso più o meno con il non esaltante (per partecipazione) referendum sull’ingresso di Londra nella Cee. Il suo successore Giscard ha iniziato un po’ prima della metà, dall’aprile 1977, ad incontrare problematiche, soprattutto economiche, di complicata risoluzione. Ma sono forse Mitterrand e Chirac, nei loro due rispettivi primi mandati, ad avere vissuto in maniera peggiore il passaggio di boa. Per Mitterrand l’autunno 1984 giunge dopo la traumatica svolta del rigore dell’anno precedente, ma soprattutto dopo la doppia debacle di giugno: manifestazioni oceaniche contro la legge Savary (insegnamento laico e repubblicano) e disastrose elezioni europee. Nemmeno il cambio a Matignon, con l’arrivo del giovane Fabius, impedì la prima coabitazione dopo la sconfitta alle legislative del 1986. Addirittura Chirac ha “festeggiato” la metà del suo mandato, nel 1998, nel bel mezzo di una coabitazione da lui stesso provocata con l’inutile scioglimento dell’anno precedente. Dunque si potrebbe concludere che l’attuale situazione di Hollande non sia poi così “speciale”. Attenzione però. Prima di tutto nei casi citati l’orizzonte potenziale dei presidenti in carica era di altri tre anni e mezzo e il tempo trascorso in carica era stato della stessa durata. Oggi a stupire è quindi, innanzitutto, quanto rapidamente sia crollato il livello di fiducia nei confronti dell’attuale presidente e allo stesso tempo quanto esiguo sia oramai quello a disposizione prima dell’avvio della nuova campagna elettorale. Il secondo elemento da rilevare è il livello di sfiducia. Ancora nel 1978, dunque a tre anni dal nuovo voto, Giscard aveva il 60% del sostegno (ed era considerato un presidente in crisi). Mitterrand a fine 1984 scese sotto il 40% e si gridò al fallimento. L’ultimo sondaggio fotografa Hollande al 12% di gradimento e, in generale, non esiste un istituto di ricerca che lo collochi sopra al 20%. Anche l’iper-presidente Sarkozy, esperto nei record negativi, nel novembre 2009 cominciò la sua discesa dirompente che a metà mandato, oscillava attorno al 40% di gradimento. Insomma l’incubo è reale e la situazione è drammatica.
E lo è anche perché tutte le possibili vie d’uscita sembrano sbarrate. Hollande ha cominciato il suo mandato “a sinistra”, ma perlomeno nell’ultimo anno ha virato “a destra”. La nomina di Valls a Primo ministro, l’ingresso dell’ex finanziere Macron al ministero dell’economia e il varo del “patto di responsabilità” sono la testimonianza di una netta discontinuità “social-liberale”. I margini per variare ancora linea politica sono esigui, per non dire nulli.
Oltre al tracollo a livello di opinione pubblica e all’esaurimento delle alternative politiche, Hollande deve fare i conti con la perdita di pezzi della sua maggioranza. Ha perso per strada i Verdi e ora deve affrontare una pericolosa fronda interna al PS, guidata da alcuni suoi ex ministri, scaricati dopo il rimpasto di fine agosto, simbolo della virata “liberale”.
Con le spalle al muro, Hollande ha deciso di giocare la carta della rilegittimazione personale, tentando di riannodare i fili del rapporto diretto con opinione pubblica ed elettorato, sfruttando quel mezzo televisivo così utilizzato in genere dai “monarchi repubblicani” francesi, ma rispetto al quale Hollande non ha un grande feeling. Hollande non ama i faccia a faccia televisivi e anche nelle “allocution” non ha fino ad oggi mostrato particolare efficacia. La sua lunga carriera come deputato, come eletto locale e come leader di partito, lo ha sempre visto a suo agio nel confronto con la gente comune, nelle piazze e nei mercati. Forse anche per questo ha scelto la trasmissione “face aux français”, nel corso della quale ha dialogato con cittadini comuni, rappresentativi dei grandi problemi che attraversano il Paese: disoccupazione, alta imposizione fiscale, crollo del potere d’acquisto e carenza di competitività.
Il risultato è stato mediocre. Da un lato perché Hollande ha avanzato promesse relative all’imposizione fiscale e alla disoccupazione, toccando i veri due “nervi scoperti” della sua metà mandato, non facendo altro che ribadire ciò che non è già riuscito a mantenere. Ha annunciato una “pausa fiscale” per il 2015, ma lo aveva già fatto nel 2013. Ha legato la sua ricandidatura nel 2017 alla famosa “inversione” della curva della disoccupazione. Tale inversione è un vero mantra nei suoi interventi da quando alloggia all’Eliseo, ma anche i dati di novembre parlano di un +0,6%. I disoccupati stanno raggiungendo i 3,5 milioni. Dall’altro lato, nel tentativo di mostrarsi saldo alla guida del Paese, seppur consapevole del livello di sfiducia, ha insistito sul tema dell’autorità e della direzione nell’azione di governo, ripetendo più volte che “il Primo ministro sta lavorando bene, applicando la politica che ho fissato e le riforme decise da me”. Ha così avallato implicitamente l’impressione di essere il vero anello debole della diarchia e in generale che, dietro alle frasi fatte, il rapporto con il suo Primo ministro è oramai sempre più deteriorato.
Hollande è dunque ben più di un’anatra zoppa. Egli si trova nella surreale condizione di vivere già una sorta di post-hollandismo. La sua cronica debolezza politica gli impedisce di sfruttare il caos che domina a destra. Paradossalmente la rentrée, al momento fallimentare, di Sarkozy, lo ha penalizzato ulteriormente, non avendo potuto sfruttare il potenziale coalizzante a sinistra dell’anti-sarkozysme.
L’impressione è allora che si opti per “vivacchiare” fino al marzo 2015, quando il voto regionale potrebbe definitivamente uccidere il suo mandato e sancire un altro trionfo del FN. A quel punto una qualche forma di svolta sarà necessaria. Anche perché, difficilmente Valls vorrà farsi trascinare fondo dal “suo” Presidente. Insomma l’ipotesi di uno scioglimento anticipato potrebbe non essere più così peregrina. In fondo la quasi certa vittoria dell’UMP porrebbe il centro-destra nella complicata posizione di dover gestire per due anni il Paese, ancora immerso nella crisi economica. Il PS avrebbe a quel punto due opzioni: Hollande che tenterebbe di ricostruirsi una “verginità” come capo dell’opposizione dall’Eliseo (come fece Mitterrand tra il 1986 e il 1988, peraltro conquistando la riconferma) e Valls, o qualche alternativa che potrà emergere, con un orizzonte temporale sufficiente di due anni per provare ad organizzare il voto del 2017.
Al netto delle speculazioni, l’attuale congiuntura politica riporta alla mente, complice anche il centenario dallo scoppio della Grande Guerra, le parole indignate che Georges Clemenceau riservò all’allora presidente del Consiglio Viviani nell’estate del 1914, a pochi giorni dall’avvio del conflitto. Egli affermava che i francesi non si sentivano “né difesi, né governati”. Fatte le debite proporzioni, questo è il sentimento comune nel Paese. E tutto ciò costituisce una pessima notizia per Parigi, ma anche per il resto dell’Unione europea.
di Michele Marchi
di Ugo Rossi *
di Andrea Frangioni *