TTIP: di cosa diavolo (non) stiamo parlando?
Soltanto dieci anni fa l’Unione Europea godeva presso i suoi cittadini di una popolarità certamente maggiore di quella odierna. A fronte del massiccio allargamento a est, molto si discusse all’epoca della necessità che un’entità di mezzo miliardo di persone definisse chiaramente la propria vocazione negli equilibri geopolitici. Si suggerì allora che l’Europa perseguisse l’obiettivo di imporsi come “potenza civile”: in altri termini, che essa si ponesse alla guida della creazione di un sistema internazionale fondato sulla forza di istituzioni e regole comuni, riproponendo su scala globale il proprio modello di integrazione nella diversità e di valorizzazione della pluralità. Tuttavia, negli anni successivi i dissidi tra governi hanno spinto molti osservatori ad assimilare l’Unione a un novello Tarzan: sana, forte e muscolosa ma incapace di esprimersi in modo chiaro e comprensibile. Se la corporatura dell’Europa appare oggi più gracile, provata da anni di lacerazioni intestine, di crisi economica e di confronto sempre meno favorevole con altri soggetti internazionali in ascesa, si può persino dire che quell’afasia abbia finito per estendersi gravemente anche alla comunicazione interna all’Unione.
Lo dimostra la vicenda del dossier TTIP, acronimo inglese di “Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti”. Un progetto ambizioso di cui sarebbe interessante discutere nel merito… se ce lo consentissero le informazioni a disposizione. La nostra ignoranza non è vinta dalle professioni di fede del Primo Ministro Renzi, secondo cui il TTIP costituisce “molto più di un accordo commerciale” tra Stati Uniti e Unione Europea, poiché inaugurerebbe “la più grande area di libero scambio al mondo”. Né equivale a una spiegazione il profluvio di stime di cui l’opinione pubblica è periodicamente inondata (incremento del PIL europeo di 0.9, due milioni di nuovi occupati, risparmi per ogni famiglia europea intorno ai 500 € annui). Le molte voci che hanno messo in dubbio i reali obiettivi del partenariato non vengono soltanto da oltranzisti preconcetti, ma anche da chi valuta un dato evidente: le barriere tariffarie tra Stati Uniti e UE sono già estremamente basse (intorno al 3 e il 4%); presumibilmente quindi i negoziati si concentrano su quell’insieme eterogeneo di elementi che nel linguaggio tecnico vengono definiti “barriere non tariffarie”. Tra queste vi sono la definizione di standard comuni in materia di sicurezza e sanità, regolamenti sulla proprietà intellettuale, criteri comuni e più aperti per gli investimenti esteri, e molto altro.
Erano prevedibili manifestazioni di sfiducia e dissenso? Difficile pensare il contrario, data l’insistenza collettiva sulla difesa degli standard europei per una vasta gamma di materie. Il timore è che il nuovo partenariato si risolva semplicemente in un livellamento al ribasso dei diritti e delle prerogative dei cittadini europei, che in genere percepiscono (a torto o a ragione, poco importa) la condizione dei loro corrispettivi oltre Atlantico come sensibilmente peggiore. Cosa hanno fatto le istituzioni in tal senso? Molto in negativo, se si guarda allo score della Commissione Barroso e soprattutto del suo Commissario al Commercio De Gucht. I negoziati hanno preso avvio ufficialmente nell’estate del 2013 in una segretezza difficilmente giustificabile, e soltanto nell’ottobre di quest’anno, col chiaro intento di arginare la protesta montante, è stato reso pubblico il testo delle direttive del Consiglio alle delegazioni negoziali: molto vago, a dire il vero, e presumibilmente reso già obsoleto dai round negoziali intercorsi. Si può concedere alla nuova Commissaria Cecilia Malmstrom il beneficio della buonafede quando all’atto dell’insediamento ha affermato la necessità di “un nuovo inizio” per i negoziati “all’insegna della trasparenza” mancata finora. E tuttavia anche il suo impegno comunicativo da allora non ha fatto altro che rimarcare l’incapacità degli attori UE di uscire da una logica difensiva (insistere su cosa il partenariato NON pregiudicherà) piuttosto che sui suoi benefici per l’intera cittadinanza continentale, di cui evidentemente essi sono certi. Per un effetto di trascinamento, sulla stessa linea si sono attestati di recente anche i governanti nazionali, impegnati a persuadere i concittadini che il TTIP non peggiorerà gli standard di vita, né sarà il “cavallo di troia” del mercato privato per fare breccia nel sistema dei servizi pubblici ritenuti essenziali (l’ultimo ad accodarsi è stato il Premier Britannico Cameron in relazione al Sistema Sanitario Nazionale).
Prima ancora di abbandonarsi a elucubrazioni su presunti obiettivi inconfessabili del TTIP, sarebbe utile porsi qualche domanda sulla capacità delle istituzioni europee di svestire i panni tecnico-burocratici che esse hanno permanentemente cuciti addosso, e di assumere finalmente quel ruolo politico per il quale la recente elezione diretta del Presidente della Commissione è soltanto un inizio nella migliore delle ipotesi, un surrogato nella peggiore. Il linguaggio politico ha regole sintattiche proprie secondo le quali due negazioni non fanno un’affermazione, ma generano solo confusione e diffidenza (soprattutto in tempi di crisi), e che di certo non migliorano il profilo di legittimità delle istituzioni di Bruxelles. A lungo andare, esse potranno incolpare solo se stesse e la “sindrome di Tarzan” se non sapranno sottrarre la questione del TTIP (come altre che si porranno) dalla fuorviante logica referendaria del “sì/no”. Che raramente conduce a soluzioni proficue, ma da cui traggono grande alimento sia le lobby più spregiudicate e gli integralisti del libero mercato, quanto vecchi nazionalisti e nuovi populisti che già occupano una parte non trascurabile dell’emiciclo del Parlamento Europeo.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Novello Monelli *