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Quel che resta del Muro, venticinque anni dopo.

Nicola Melloni * - 11.11.2014
Anniversario 2014 Caduta muro di Berlino

Ad un quarto di secolo dalla caduta del Muro è forse arrivato il momento di redigere un primo, parziale bilancio degli anni che sono seguiti alla fine del comunismo. Tra il 1989 ed il 1991 finiva l’esperienza del socialismo reale – almeno in Europa – e per i paesi d’oltre cortina iniziava la cosiddetta transizione verso capitalismo e democrazia. In quei giorni, ed anche negli anni successivi, non sembravano esserci dubbi: il vecchio continente era finalmente riunito, il tempo delle guerre, fredde e calde, era finito. Addirittura era la fine della storia (copyright Francis Fukuyama).

Le cose sono andate diversamente: nonostante le grandi speranze del post-89, nonostante i tanti proclami trionfalistici degli anni ’90, nonostante tuttora ci si ostini a presentare la transizione come un successo, nella maggior parte dei casi la situazione è tutt’altro che rosea, se non proprio fallimentare.

Per molti paesi, la fine del comunismo è coincisa con lunghi periodi di guerra ed instabilità, dall’ex-Yugoslavia, al Caucaso all’Asia Centrale, fino, recentemente, all’Ucraina. Per quasi tutti, il decennio seguito alla caduta del muro è stato un periodo di povertà. Purtroppo, come evidenziato da Branko Milanovic in un recente post, le performance economiche di molti paesi continuano ad essere disastrose: per alcuni – prevalentemente in Asia Centrale, ma anche paesi a noi ben più vicini come Serbia e Ucraina – non si è ancora tornati ai redditi pro-capite del periodo socialista. Per quasi tutti gli altri, la distanza con il mondo occidentale si è ampliata (come in Russia, Croazia, Ungheria) o rimasta immutata (in Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Slovenia): altro che catching-up! E solo per pochi (tra cui Polonia, Slovacchia, Bielorussia) la crescita economica è stata tale da ridurre le distanze con i paesi economicamente sviluppati.

Politicamente le cose sono andate meglio nei paesi dell’Europa Orientale, ma non così nell’ex Unione Sovietica. Mentre in alcuni paesi, a cominciare dall’ex-Germania orientale la nostalgia per il passato continua a essere piuttosto forte, in altri movimenti di estrema destra prendono piede approfittando delle precarie condizioni economiche. Anche in nazioni dalla democrazia più consolidata come nei paesi baltici, non mancano le tensioni etniche con i cittadini di origine russa, minoranze molto consistenti spesso trattati da cittadini di serie B, un apartheid politico che abbiamo spesso deciso di ignorare.

Nel frattempo, i paesi dell’Asia Centrale si sono in alcuni casi trasformati in sultanati, mentre l’Azerbaijan è di fatto una repubblica dinastica e la Bielorussia una nazione a tutti gli effetti autoritaria.

Se la Polonia è sicuramente la storia di maggior successo – una democrazia consolidata, seppure a volte scosse da spinte populiste, ed una economia solida ed in crescita – i problemi maggiori vengono da Mosca.

La Russia, per tanti motivi, politici, storici ed economici, era forse il centro focale della transizione. Di certo le dimensioni e la posizione geografica non hanno favorito una vera integrazione con l’Europa e l’Occidente tutto. La partecipazione a EU e NATO non sono mai state in discussione e questo ha certamente contribuito ad indebolire il “partito occidentale”. Eppure negli Anni ’90 le aspettative erano assai diverse. La privatizzazione delle industrie di stato e la momentanea fine della tensione con l’Occidente avevano convinto molti commentatori che Mosca fosse ormai avviata a divenire un “paese normale” per usare la definizione di Shleifer e Treisman. L’ascesa di Putin è stata per molti un brusco risveglio, culminato con la nuova guerra fredda a seguito della crisi ucraina. In realtà la Russia aveva preso una strada diversa da quella che in tanti speravano molto tempo addietro: un’idea malintesa di riforme politiche ed economiche – incuranti delle condizioni di partenza, della storia e delle specificità russe – avevano ottenuto effetti opposti a quelli promessi. Il mercato si era trasformato in un casinò, il capitalismo in oligarchia, la democrazia in un’anarchia dove il più forte sopraffaceva il più debole. Non può sorprendere, dunque, che dopo un decennio di caos e miseria, autoritarismo e capitalismo di stato siano riemersi, e con essi una ostilità diffusa verso l’Occidente, come forse nemmeno durante i tempi più bui della Guerra Fredda.

Certo, venticinque anni dopo la caduta del Muro possiamo rallegrarci che i paesi dell’Europa orientale facciano ormai parte a tutti gli effetti della UE e del mondo occidentale. Molti sono diventati democrazie. Per milioni e milioni di persone, però, il muro non è mai veramente caduto: povertà, diseguaglianza, quando non oppressione e mancanza di libertà sono la triste realtà, lontana anni luce dalle speranze di quei giorni.

 

 

 

* Visiting Fellow, Munk School of Global Affairs, University of Toronto