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L’Europa difficile

Paolo Pombeni - 16.04.2016
Merkel Hollande Juncker e Tusk

Travolti dalla cronaca politica italiana, per quanto poco esaltante, dedichiamo un interesse relativo all’Europa, soprattutto se si prescinde dalla pur rilevante questione delle politiche sui problemi delle migrazioni. Eppure il momento è piuttosto critico ed i sussulti nelle strategie per rispondere alle sfide migratorie vanno inquadrati in questo contesto.

Una semplice elencazione di temi sul tappeto ci dà già la misura delle difficoltà con cui ci misuriamo. La Grecia innanzitutto non è affatto riuscita ad avviare un processo di uscita dalle sue difficoltà economiche. Non se ne parla quasi più, complice anche la sua delicata posizione sulla questione di migranti, ma ogni tanto qualcuno ricorda che un collasso greco non sarebbe certo un evento privo di impatto.

Abbiamo all’orizzonte il referendum britannico sulla permanenza di quel paese nella UE e gli esiti sono incerti. Anche se non vincessero i favorevoli all’uscita avrebbero comunque un numero tale di voti da costringere il governo a sfruttare a fondo i privilegi che gli sono stati accordati. Una cosa che certo non provocherebbe un incremento di stabilità, anche se sarebbe forse meno peggio di un ritiro britannico dal sistema europeo, per i costi economici comporterebbe non solo per Londra.

La crisi pressoché perenne del sistema politico belga è emersa con la vicenda degli attentati islamisti, ma è da tempo che si trascina. Sinora è stata considerata poco più di un evento locale circoscritto, ma anche qui non è detto non si vada verso sviluppi imprevedibili.

La forza del populismo xenofobo sta crescendo in maniera costante. Lo si è visto in Olanda, da tempo sappiamo quanta presa abbia nell’Est europeo (con Ungheria e Polonia in testa), ma adesso ha raggiunto anche l’Austria, dove l’impennata degli show a tutela dei confini (perché per ora non è che si tratti di molto di più) sembra determinata dalla paura di una affermazione della destra populista alle prossime elezioni.

Alcuni paesi che un tempo erano considerati chiave non è che se la passino molto bene. La Francia fa meno notizia di un tempo, ma tutti i suoi mali interni rimangono in piedi. Il presidente Hollande ha un po’ recuperato con la gestione dell’emergenza attentati, ma non è andato molto in là. In Italia il primato della politica interna è piuttosto forte e non si capisce se il premier riuscirà a tenere a bada i sussulti di una vasta ed eterogenea coalizione che sembra disposta a tutto pur di liberarsi di lui. Angela Merkel ha compromesso in una certa maniera la sua capacità di leadership dopo la gestione sfortunata delle misure di gestione dei migranti. Le ultime tornate elettorali non sono andate bene e il governo di grande coalizione arranca.

Aggiungiamoci la questione spagnola, con un governo che non si riesce a fare nonostante sia passato molto tempo dalle elezioni. Insomma è un quadro tutt’altro che rassicurante a pensare ai grandi problemi che ci fanno da sfondo.

A tutto questo come reagisce l’Europa? Non certo rafforzando le sue capacità di gestione delle crisi. Qualcuno avrà notato come né Juncker né Tusk abbiano saputo dire un parola forte e coinvolgente in questi ultimi tumultuosi frangenti. Le cronache si occupano poco di loro se non per occasioni istituzionali, del resto gestite in maniera sempre meno accattivante. E’ vero che ogni tanto si legge di proposte e progetti che la Commissione prepara (non difficile considerando la sua ricca dotazione di funzionari), ma quel che manca è la capacità di mettere in campo una figura che parli autorevolmente all’opinione pubblica europea e che sia capace di mobilitarla.

Ovviamente si paga la miopia dei governi dei ventotto che hanno fatto di tutto per avere nelle posizioni di vertice personalità poco carismatiche e poco capaci di scuotere le piazze nazionali. Eppure è proprio di questo che si avrebbe bisogno nel momento in cui su quelle piazze impazzano demagoghi di ogni risma o conservatori pavidi di possibili disastri.

L’Italia, che è nella posizione più difficile perché continua ad essere l’approdo di migliaia e migliaia di migranti, deve rivolgersi a Bruxelles nella speranza che qualcuno possa prendere in mano la situazione, ma il massimo che può attendersi è di ricevere un po’ di soldi. Troppo poco per tenere a bada i travagli della sua opinione pubblica interna per non dire che si tratta alla fine di una buona scusa per la UE per lavarsi le mani di una questione più che spinosa.

Ciò che colpisce è che si assiste ad una mancanza impressionante di iniziative politiche per recuperare il terreno perduto. Si fa davvero fatica a pensare che a Bruxelles si sia tanto miopi da non rendersi conto che si sta dissolvendo la fiducia (per non parlare brutalmente del mito) in una Europa che diventa il beneficio aggiuntivo, il moltiplicatore di ogni sforzo delle politiche nazionali.

E’ finito il tempo delle retoriche sugli “Stati Uniti d’Europa” come motori di uno sviluppo senza fine ed è tornato il tempo della politica, quella dura e aspra. Un po’ di investimento in questa direzione sarebbe quanto mai necessario, ma è illusorio attenderselo dalla farraginosa macchina della burocrazia brussellese. Dunque bisogna puntare altrove. Trovare il bersaglio sta diventando in questa fase tanto difficile quanto indispensabile.