Ultimo Aggiornamento:
11 dicembre 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Il confine del Brennero e il futuro dell’Europa

Giovanni Bernardini - 09.04.2016
Mikl Leitner

I confini sono come le cicatrici: non ne esistono due uguali. Proprio come una cicatrice, ogni confine reca con sé un passato irripetibile di urti, lacerazioni, di guarigioni laboriose, di ricadute. Come a una cicatrice, a ogni confine corrisponde un decorso emozionale che può facilitare o più spesso complicare la guarigione. Farebbero bene a tenerlo presente coloro che oggi sono chiamati a gestire la vera o presunta “crisi” migratoria verso l’Europa. Al contrario, molti tra di loro giocano irresponsabilmente con stime e cifre, e sollecitano in questo modo i più bassi istinti dell’opinione pubblica del cui consenso poi vanno in cerca, fomentando così una spirale discendente che rischia di travolgere ogni sensibilità civile prima ancora del progetto europeo. Su questa strada sembrerebbe purtroppo incamminato il governo austriaco, almeno a giudicare dalle improvvide dichiarazioni del ministro Mikl Leitner sui presunti “trecentomila migranti” pronti a solcare il Mediterraneo, ad attraversare l’Italia e a devastare immancabilmente il piccolo paese alpino al loro passaggio. Tale costruzione è palesemente destituita di fondamento nei numeri, come dimostrano tutte le stime sui flussi attuali e futuri; eppure è sufficiente per minacciare l’Italia di non poter contare indefinitamente sull’apertura del confine del Brennero. La sua chiusura (temporanea? indefinita?), secondo Vienna, non sarebbe molto diversa da quanto già imposto ai paesi della cosiddetta “rotta balcanica”.

Si potrebbe ribattere, come si è opportunamente fatto da parte italiana, che sparare nel mucchio è più facile e remunerativo che porre seriamente il problema all’ordine del giorno della discussione in sede europea, e chiedere di migliorare col contributo di tutti schemi e soluzioni che, per quanto criticabili, sono già state in parte elaborate. Ma il ministro austriaco farebbe anche bene a ricordare un po’ della storia che il confine del Brennero porta con sé e che ne fa un unicum importante che Vienna per prima dovrebbe fare attenzione a pregiudicare. Infatti il Brennero non può non riportare alla mente una memoria collettiva di conflitti infiniti dopo la catastrofe della Prima Guerra mondiale: allora un’area di lingua tedesca si trovò intrappolata laddove la collocava il gioco delle grandi potenze e le loro esigenze di grandezza e sicurezza militare, nell’epoca in cui altrove si proclamava a gran voce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il Brennero divenne ben presto il confine patrio che la retorica fascista (purtroppo mai del tutto spenta nel nostro paese) voleva “italianizzare” a costo di violenze e rimozioni storiche. Lo stesso confine fu oggetto del patto perverso d’ingegneria sociale tra fascismo e nazismo, che obbligava chi abitava al disotto di quella linea a “optare” tra l’emigrazione nel nuovo Reich tedesco e la rinuncia definitiva alla propria identità culturale. Ben presto quel confine favorì la fuga di molti colpevoli di atroci delitti nell’Italia del secondo conflitto mondiale, e quei carnefici si avvalsero di collaborazioni inconfessabili da parte della popolazione locale di cui soltanto di recente si è potuto parlare con franchezza. Nemmeno il dopoguerra avrebbe portato una pace definitiva, e soltanto oggi è ormai possibile discutere con libertà di una stagione di terrorismo indipendentista sempre più cieco nella sua violenza distruttiva, della militarizzazione di un fazzoletto d’Italia “ribelle” da normalizzare, degli inconfessabili interessi che influirono dall’esterno su quella nuova spirale di radicalizzazione. Interessi che non erano estranei nemmeno al comportamento ambiguo dell’Austria dove, accanto a chi genuinamente si preoccupava del futuro della minoranza sudtirolese, vi erano altri pronti a sfruttare in modo strumentale le impossibili richieste di revisione del confine, così anacronistiche nell’Europa che intraprendeva l’integrazione continentale come unica via di riscatto dalle guerre intestine precedenti. Perché, per fortuna, altri lavoravano da tempo all’unica soluzione percorribile per quanto difficile e fragile: rendere anacronistica ogni interpretazione del confine del Brennero come limite invalicabile e come luogo di scontro nazionalista, per trasformarlo piuttosto in quel ponte per il transito di idee, persone, interessi e cultura che sin dalle clausole dell’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946 ne faceva la premessa di un continente alla ricerca dell’integrazione. Soltanto con la stessa sobria pazienza e la rinuncia ai facili massimalismi, che pure albergavano in tutte le parti in questione, fu possibile giungere negli anni a una soluzione negoziale dei problemi posti dalla frontiera del Brennero, in termini di cooperazione e libertà transfrontaliera, di autonomia e di rispetto per tutti gli interessi in gioco. Capacità politica e realismo avrebbero avuto ragione di irrazionalismi e retoriche incendiarie, ed è questa la lezione migliore che quella pagina di storia dovrebbe lasciare in eredità a chi oggi deve gestire altre crisi e altre tensioni.

Il governo austriaco dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che la rinuncia a un’interpretazione anacronistica del confine del Brennero fu la premessa della sua definitiva apertura e anche dell’adesione dell’Austria stessa al processo di integrazione europea negli anni ’90, evento che tanti vantaggi ha portato a quel paese nonostante sia oggi impopolare ricordarlo. Rimettere il transito del Brennero al centro di una discussione dai toni aspri e ultimativi avrebbe conseguenze serie, paradossali e prevedibilmente negative per molti: a cominciare da quella popolazione di lingua tedesca della cui difesa e garanzia proprio Vienna si è riempita la bocca per decenni. Se l’obiettivo è andare a caccia di un consenso populista a buon mercato, si proceda pure su questa strada; anche se sorge il sospetto che ad avvantaggiarsi della rincorsa al ribasso sarebbero alla fine altre e ben più irresponsabili proposte politiche. Ma che almeno lo si faccia con la coscienza di cosa comporterebbe la riapertura di una cicatrice la cui guarigione è costata tanto in termini di vittime, tempo e lavoro.