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Forme di governo e leadership dell’esecutivo
Le forme di governo nei regimi democratici (fondati su elezioni libere, ripetute e competitive) erano distinte, se non si tiene conto dell’eccezione svizzera, in presidenziali, parlamentari e semi-presidenziali (meglio, ad esecutivo dualista).
Negli ultimi decenni, almeno sul continente europeo, dove non esistono sistemi presidenziali (come quello in vigore da sempre negli Stati Uniti, dove l’esecutivo non è responsabile politicamente di fronte al parlamento), le forme di governo dovrebbero essere distinte in base ad un criterio diverso da quello tradizionale (parlamentare vs. semipresidenziale). Ciò richiede la presa in conto dei rapporti fra il sistema dei partiti e la legge elettorale.
Dove esistono sistemi elettorali maggioritari (come nel Regno Unito) o comunque governi tendenzialmente stabili (Germania), il leader del partito che vince (GB) o arriva primo alle elezioni (Germania) è, al tempo stesso, il capo del governo ed il capo del partito di maggioranza (un “uomo -anzi donna- sola al comando” May, Merkel ?!?). Il rapporto fra il legislativo e l’esecutivo non è di contropotere, ma di cooperazione e, in via eccezionale, di controllo del parlamento sull’esecutivo, solo in caso di comportamenti e di scelte da parte del capo dell’esecutivo che vadano direttamente contro gli interessi politici e le scelte ideologiche del partito di cui è il leader leggi tutto
Elezioni legislative 2017 in Algeria: tra apatia e disincanto
Il prossimo 4 maggio in Algeria 23 milioni di cittadini – su un totale di 40 milioni circa di abitanti – si recheranno alle urne per rinnovare l’Assemblea popolare nazionale (APN), eleggendone i 462 nuovi deputati. Da quando a inizio aprile la campagna per le legislative è stata inaugurata, nonostante il dispiegamento di mezzi da parte di partiti, organi di governo e persino leader religiosi per motivare la cittadinanza al voto, l’apatia e il disincanto nei confronti del quinquennale appuntamento elettorale regnano sovrani. Gli analisti sul campo raccontano che in questi giorni, per le strade di Algeri, il dibattito sia particolarmente acceso non tanto sullo scrutinio nazionale ormai alle porte, quanto sul ballottaggio delle presidenziali francesi. Per inciso, le preferenze di autorità e semplici cittadini convergono su Emmanuel Macron: l’unico tra i candidati a essersi recato in Algeria durante la campagna e soprattutto il solo ad aver “osato” giudicare pubblicamente i 132 anni di colonizzazione francese nel paese maghrebino come un “crimine contro l’umanità” (gli algerini, si sa, sono ancora in attesa delle scuse ufficiali di Parigi per la lunga parentesi della loro storia recente vissuta sotto il dominio della potenza europea).
Quale partito o quale alleanza di partiti vincerà in Algeria, invece, non interessa veramente granché: l’unico vero risultato leggi tutto
Vincitori e vinti, prima della metà del guado. Ancora sul primo turno francese
In attesa che il primo turno sia ulteriormente analizzato e che i flussi elettorali siano studiati nel dettaglio, si possono fare alcune considerazioni generali su vincitori e vinti del 23 aprile.
I vincitori del primo turno sono tre.
Prima di tutto il settimanale satirico «Le Canard Enchainé». Potrà sembrare superficiale o forse banale un’affermazione di questo genere. Ma le rivelazioni in serie su impiego fittizio della moglie, contratti di consulenza per società amiche sfruttando i rapporti con la Russia e infine conti pagati da strani faccendieri per abiti di lusso hanno reso la campagna elettorale di François Fillon una specie di “via crucis del XXI secolo”. Senza entrare nel merito delle inchieste in corso, il candidato LR è passato dalla vittoria certa di inizio dicembre, a quella probabile anche dopo l’avanzata del candidato Macron, a quella impossibile dopo l’esplodere degli affaires.
Il secondo grande vincitore è stato Jean-Luc Mélenchon con la sua France insoumise. Come mostrano i flussi elettorali egli è riuscito da un lato a raccogliere tutto il voto di tradizione comunista, ad unirvi un voto giovane e popolare di aree soprattutto periferiche e infine ha potuto contare su un numero non esiguo di delusi della campagna di Hamon. leggi tutto
Una campagna tra il pessimo e il drammatico
È accaduto ciò che tutti temevano e che molti avevano preventivato a mezza voce. A settantadue ore dall’apertura dei seggi per una delle elezioni più decisive nella storia del continente europeo dal 1945 ad oggi è arrivato l’ennesimo atto terroristico. Due anni e tre mesi dopo Charlie Hebdo la Francia, e in particolare la sua vetrina sul mondo, Parigi, sono ancora sotto assedio.
Che effetto avrà tutto ciò sul voto del 23 aprile? È impossibile saperlo e chi si avventura in ipotesi e previsioni finisce per affidarsi al caso, piuttosto che alla riflessione.
Quello che si può fare è invece un punto complessivo sulla campagna elettorale e poi collegare la stessa all’ultimo evento.
Ebbene la campagna per il voto presidenziale del 2017 è stata una pessima campagna. Non nel senso che i toni siano stati alti e il dibattito incivile. Da questo punto di vista ci si è mossi nella norma. La campagna elettorale è stata pessima perché non ha avuto uno o più temi trainanti. I candidati con possibilità di raggiungere il ballottaggio, quindi sostanzialmente cinque (anche se Hamon si è ben presto staccato dai primi quattro, almeno secondo i sondaggi) non si sono impegnati in un’operazione di organica spiegazione ed illustrazione di una piattaforma coerente di risoluzione dei principali leggi tutto
Il ruolo delle organizzazioni della società civile (OSCs) nella cooperazione allo sviluppo: un cambio di paradigma
Vi è un consenso generalizzato nel riconoscere il ruolo fondamentale delle OSCs nella promozione della governabilità democratica nei paesi terzi e nel favorire trasparenza e responsabilità dei governi.
Questo riconoscimento è stato validato dalla comunità internazionale e formalizzato in principi e dichiarazioni. Nella “Dichiarazione di Parigi”(2005) il consolidamento della governabilità democratica è considerato una pre-condizione per l’effettività degli aiuti e un antidoto contro la corruzione e la mancanza di trasparenza delle istituzioni pubbliche.
Nell’ “Agenda for action” di Accra (2008) le OSCs sono riconosciute come attori indipendenti di sviluppo mentre il 4° Forum internazionale di Busan (2011) introduce il termine partenariato pubblico/privato per la realizzazione di un’agenda globale sulla base di obiettivi e principi condivisi.
La Comunicazione della Commissione europea del 2012: “Le radici della democrazia e dello sviluppo sostenibile”, definisce i pilastri su cui si fonda il rapporto con le OSCs: i) sostenere un ambiente favorevole alle OSCs, in particolare un quadro legale di riferimento; ii) promuovere la partecipazione delle OSC nella formulazione leggi tutto
La “legge Soros” colpisce la Central European University
Da giorni un nuovo tweet sta cinguettando sul social network a supporto della Central European University (CEU) di Budapest. La stringa #IstandwithCEU ha acceso i riflettori internazionali sulla CEU, la cui sopravvivenza è minacciata dalla nuova norma approvata dal governo di Viktor Orban lo scorso 10 aprile che sembra essere stata formulata ad hoc per predisporre la chiusura dell’istituto di formazione e ricerca più noto dell’Europa centro-orientale.
Nascosta formalmente all’interno di una legge che modifica le predisposizioni in materia di istruzione superiore, la norma consente l’operatività delle università straniere solo se queste hanno una sede anche nel loro Paese di provenienza. Se apparentemente la norma va ad avere un impatto sul funzionamento di circa due dozzine di università presenti in Ungheria, di fatto essa colpisce direttamente solo la CEU, che opera nella capitale magiara in parte come istituzione statunitense (dove però non ha una sede vera e propria), priva di quel controllo governativo esercitato centralmente su altri enti di formazione accademica. La stessa nuova legislazione prevede inoltre che le università straniere potranno emettere titoli quali diplomi o lauree in Ungheria leggi tutto
Il “doppio turno” francese
Il 23 aprile i francesi voteranno per il primo turno delle elezioni presidenziali. L'articolo 7 della loro Costituzione specifica che il Capo dello Stato "è eletto a maggioranza assoluta dei voti espressi. Se tale maggioranza non viene conseguita al primo scrutinio, si procede ad una nuova votazione, nel quattordicesimo giorno seguente. Possono presentarsi solo i due candidati che, a parte un eventuale ritiro, hanno ottenuto più voti al primo turno". Nella storia della Francia, da quando, nel 1962, la riforma costituzionale voluta da Charles De Gaulle ha reintrodotto (e non introdotto ex novo: il 10 e l'11 dicembre 1848, infatti, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte era stato eletto col 74,31% dei voti espressi, pari a 5.587.759 su 7.542.936 votanti) l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, nessun presidente è stato mai eletto al primo turno: nel 1965 (5-19 dicembre) De Gaulle ebbe il 44,65% dei voti (andò al ballottaggio - vincendolo col 55,2% dei suffragi popolari - con François Mitterrand, giunto secondo col 31,72%); nel 1969 (1-15 giugno) Georges Pompidou ottenne il 44,47% (Alain Poher 23,31%), vincendo poi col 58,21%; nel 1974 (5-19 maggio) fu Mitterrand a classificarsi inizialmente primo, col 43,24%, ma Valéry Giscard d'Estaing (32,6% al primo turno) vinse al ballottaggio col 50,81%; nel 1981 (26 aprile-10 maggio) fu invece Mitterrand (25,85% al primo turno, 51,76% al secondo) a battere Giscard d'Estaing (28,31% al primo turno, 48,24% al secondo); Mitterrand vinse inoltre nel 1988 (24 aprile-8 maggio) leggi tutto
Tutto può succedere ovvero Eliseo 2017
Tutto può succedere, come cantava anni fa Vasco Rossi. Ma questa volta la frase deve essere attribuita alle prossime elezioni presidenziali francesi.
A poco più di una settimana dal primo turno, gli ultimi sondaggi fotografano un quartetto di candidati raccolti in un fazzoletto di voti. Le percentuali oscillano tra il 22% del primo (o Marine Le Pen o Macron) e il 19% del quarto (o Mélenchon o Fillon).
Senza dilungarsi troppo nel rammentare con quanta attenzione vadano presi i sondaggi, è forse meglio ricordare che nel caso di Le Pen e Fillon, siamo oltre l’80% di certezza nella scelta. Sul fronte Macron e Mélenchon non si va oltre il 60% di decisione (quindi per certi aspetti si tratta di scelte di voto ancora suscettibili di cambiamento).
Il quadro è incerto, la campagna elettorale fatica a decollare e i temi forti, quelli di reale e diffusa preoccupazione (disoccupazione, scuola e potere d’acquisto) finiscono per non essere nello specifico affrontati. L’ultima settimana è stata occupata da tre questioni principali.
La prima riguarda una serie di indagini sul voto giovanile, in particolare nella fascia 18-24, con risultati costantemente nella direzione del voto frontista. Sembra un lontanissimo ricordo la primavera 2002, con le piazze colme di giovanissimi tra il primo
L’Europa e i rischi della Brexit
Non sarà una semplice querelle diplomatica l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e non perché durante la sua permanenza Londra abbia dato un grande apporto allo sviluppo di una autentica integrazione europea. Al contrario ha sempre più o meno remato contro: le battaglie della Thatcher contro Delors sono memorabili, ma neppure Blair può essere considerato un vero europeista, basterebbe ricordare la sua politica verso l’Iraq, così debitrice del rapporto privilegiato con Washington.
Sarebbe però semplicistico pensare che l’uscita del Regno Unito dalla UE in fondo non faccia che togliere di mezzo un partner poco convinto e poco disciplinato. Piuttosto si tratta di un passaggio che metterà a nudo una serie di debolezze la cui gestione appare piuttosto problematica.
La prima questione riguarda la riuscita o meno dell’operazione così come è vista dagli strateghi britannici di questa avventura. Detto in termini molto semplificati, a Londra si pensa che sostanzialmente l’interconnessione delle economie al giorno d’oggi sia tale per cui difficilmente si potrà escludere la Gran Bretagna dal rimanere nei vantaggi di un mercato sostanzialmente aperto senza sopportarne i costi in termini di sottomissione ad una autorità di regolamentazione sovranazionale. Chi ha lanciato l’immagine del Regno Unito leggi tutto
Il peso delle parole e il vuoto della politica: a proposito di Europa
I concetti sono la più potente arma della battaglia politica: così afferma Reinhart Koselleck, uno dei più illustri esponenti della storia dei concetti (Begriffsgeschichte). E in effetti la politica dell'era moderna e la riflessione teorica sulla stessa trovano un precipitato assai importante in parole-chiave che risultano in grado di delineare nuovi orizzonti, carichi di aspettative future. Anche concetti classici in occidente quali, per esempio, quelli di libertà e democrazia, alla luce del progresso tecnico e scientifico dell'età moderna, assumono una valenza progettuale prima sconosciuta, nella misura in cui appaiono in grado di indirizzare la società e la politica verso un futuro pieno di speranza, certamente migliore rispetto al passato e aperto al coraggio del nuovo. L'Uomo moderno insomma non teme il domani, che anzi si appresta a progettare raccogliendone ogni possibile sfida, anche dal punto di vista delle parole stesse della politica che debbono risultare addirittura in grado di orientare il mutamento e la storia.
Alla luce di quanto appena affermato e senza scomodare i tanti odierni cantori della fine della modernità, noi, donne e uomini d'occidente, aventi alle spalle la duratura eredità del moderno, nelle sue tappe più gloriose (dalle grandi rivoluzioni americana e francese in poi), non possiamo leggi tutto