Europee: elezioni di svolta?
Forse si sta concludendo il lungo periodo, iniziato nel 2012 con le amministrative e arrivato ad un primo approdo con le politiche del 2022, caratterizzato da un'elevatissima mobilità elettorale, da una forte destrutturazione del sistema e da una sostanziale dissoluzione del bipolarismo a favore di un tripartitismo imperfetto. In tutti questi anni nei quali abbiamo, sulle colonne di Mente Politica, descritto e analizzato i dati elettorali e gli avvenimenti politici, le caratteristiche di una costante instabilità sono state sempre in primo piano. Il voto europeo dell'8-9 giugno 2024, invece, delinea tre tendenze: l'aumento dell'astensionismo, il ritorno della polarizzazione, l'inizio di una stabilizzazione del sistema. In quanto al primo, si è giunti per la prima volta ad avere - in un'elezione nazionale - un'affluenza inferiore al 50%: un 49,69%, che sicuramente sarebbe stato minore se non ci fosse stato l'"election day". Infatti, l'elettore sa quando mobilitarsi: alle europee meno, un po' di più (non tanto) alle regionali (Piemonte), ma molto di più alle comunali (62,61%). Non solo: la differenza con la precedente tornata ci restituisce un saldo negativo del 6,4% per le europee e dell'8% per le regionali, ma "solo" del 5% per le comunali. L'astensione è dunque selettiva. Il non voto contribuisce indirettamente alla polarizzazione, perchè nel caso italiano ha praticamente affondato leggi tutto
Le "asticelle" delle europee
A un mese dalle elezioni europee, cerchiamo di anticipare quelle linee guida per la lettura dei risultati che potranno tornare utili all'apertura delle urne. I principali partiti sono otto: tre di maggioranza (Fratelli d'Italia, la Lega, Forza Italia) e almeno cinque di opposizione (Pd, M5S, Verdi e sinistra, Stati Uniti d'Europa, Azione). Mentre cinque di questi si sono già presentati alle politiche e alle europee, i verdi e la sinistra si sono uniti dopo; infine, la galassia centrista si è composta e scomposta per poi parzialmente ricomporsi: alle europee del 2019 c'era solo Più Europa, mentre nel 2022 c'erano Più Europa da una parte e il cartello Azione-Italia viva dall'altra. Per il resto, si tratta di liste minori che aspirano a raggiungere la soglia del 4%, ma alle quali servirà una grande campagna di raccolta di consensi per riuscirvi. Gli stessi Verdi-sinistra, Stati Uniti d'Europa e Azione non partono da risultati "blindati" dalle scorse prove elettorali politiche ed europee (come l'8% di FI e Lega, tanto per capirci), quindi c'è il rischio che la rappresentanza italiana all'Europarlamento finisca per essere composta da cinque o sei partiti. I riflettori sono comunque accesi sulle due liste maggiori - FdI e Pd - e sulla Lega (il futuro della leggi tutto
Il voto in Basilicata
Il 21 e il 22 aprile si vota per il rinnovo del consiglio regionale e per l'elezione del presidente della Basilicata. Anche in questo caso, come in Abruzzo, non ci sarà il voto disgiunto, quindi non sarà possibile vedere molte differenze fra i dati alle liste e quelli ai candidati presidenti, sebbene ci sia la facoltà per l'elettore di scegliere solo l'aspirante presidente (nel 2019 lo hanno fatto solo seimila persone su trecentomila votanti). La Basilicata è l'unica regione al voto nel 2024 che almeno dal 2018 ha avuto come primo partito il M5s: i pentastellati hanno ottenuto il 20,3% alle scorse regionali, il 29,7% alle europee, il 25% alle politiche. Ciò nonostante, il "campo largo" di centrosinistra non parte favorito nei confronti della coalizione che attualmente governa la regione. Infatti, il "terzo polo" appoggia il presidente Bardi (Forza Italia). La destra allargata ai terzopolisti aveva il 51% alle scorse regionali, ma solo il 42,3% alle europee dello stesso anno, per arrivare al 48,5% delle politiche del 2022. Il centrosinistra "allargato" al M5s (ma senza i terzopolisti) aveva raccolto il 44,9% alle regionali, il 55,3% alle europee e il 46,6% alle politiche. Con soli due punti di svantaggio rispetto alla destra, la partita sarebbe giocabile, ma sommare partiti diversi come il Pd e il M5s è forse leggi tutto
Il voto in Abruzzo
Il 10 marzo si voterà per eleggere il presidente della giunta regionale abruzzese e per il rinnovo del Consiglio. Stavolta ci saranno due candidati, uno di maggioranza (l'uscente Marco Marsilio, di Fratelli d'Italia) e uno di opposizione (il civico Luciano D'Amico, cattedratico sostenuto da centrosinistra ampio e M5s). Come la Sardegna, anche l'Abruzzo è una regione nella quale nessuno schieramento vince per due volte di seguito: un precedente che potrebbe incoraggiare il centrosinistra, sebbene la partita sia del tutto aperta. La recente storia elettorale della regione lo conferma. Alle regionali del 2019 la destra ottenne il 49,2% contro il 49% di centrosinistra e M5s (allora divisi); alle europee dello stesso anno, caratterizzate dall'exploit della Lega, le destre salirono al 52,4% contro il 46,3% dell'attuale schieramento di supporto a D'Amico; il divario di sei punti si richiuse però alle politiche 2022, quando centrosinistra, terzo polo e M5s conseguirono il 48,6% dei voti di lista, contro il 47,7% della destra a trazione meloniana. La struttura della competizione, nel campo progressista, sembra ben definita. Il M5s oscilla fra il 19,7% delle regionali '19, il 22,4% delle europee '19 e il 18,4% delle politiche '22 (chissà se, come in Sardegna, anche in Abruzzo i pentastellati perderanno parecchi voti di lista, come d'uso alle amministrative); il Pd, comprese le liste del presidente, leggi tutto
Europee, tutti contro tutti
In questi mesi si vanno intensificando duelli che, almeno all'apparenza, hanno del paradossale. La Lega, invece di contribuire alla coesione della maggioranza, non perde occasione per intralciare il percorso della Meloni; dall'altro lato dell'emiciclo, il M5s dimentica che per sconfiggere chi governa bisogna limare le differenze e costruire una coalizione alternativa, mentre preferisce mettere in difficoltà il Pd e la Schlein. Si dirà che è fisiologico, in vista di elezioni nelle quali ognuno correrà per proprio conto (le europee) e si voterà col proporzionale (che fisserà fino alle politiche del 2027 i rapporti di forza) che ci sia una guerra aperta fra partiti i quali, teoricamente, dovrebbero cercare punti d'incontro per marciare assieme. Come la logica premiante del sistema elettorale per la Camera e per il Senato (ma anche per le regioni: si veda il caso Sardegna, dove il leghista-sardista ha dovuto lasciare più nolente che volente il posto di candidato presidente della regione al sindaco meloniano di Cagliari) ha spinto Salvini a un matrimonio poco d'amore e molto di convenienza con Fratelli d'Italia (la destra si ritrova sempre unita, quando c'è da conquistare e spartire il potere, cosa che la sinistra non è capace di concepire, immersa nelle sue fisiologiche lotte intestine), leggi tutto
Il partito trasversale populista
Comunque vada, anche nel 2024 l'elettorato italiano sarà orientato in buona parte (pressoché maggioritaria) verso i partiti populisti. Il quadro è chiaro, partendo dalle elezioni del settembre 2022: Fratelli d'Italia, 26%, Lega, 8,8%, Movimento 5 Stelle, 15,4% (senza contare che il primo populista sui generis fu Berlusconi e che, almeno fino al 2011, FI poteva definirsi un partito "pre-populista"; gli azzurri, alle politiche, hanno avuto l'8,1%). In totale, i tre partiti populisti italiani (quelli che non a caso hanno votato contro il Mes, il che dice e spiega moltissimo) hanno conseguito un anno e mezzo fa il 50,2% dei voti espressi. Alle europee 2019 la somma era 57,8%, mentre alle politiche del 2018 era 54,4%; alle europee 2014 era stata pari al 31%, mentre alle politiche del 2013 si era attestata sul 31,6%. In sintesi, la prima ondata del populismo come lo conosciamo oggi si ha fra il 2011 e il 2017, con percentuali di poco inferiori al terzo dei voti validi a Lega, M5S e FdI; la seconda parte nel 2018 e arriva ad oggi, con una banda d'oscillazione fra il 50% e il 58%. L'ultimo sondaggio di Pagnoncelli per il "Corriere della Sera" (31 dicembre 2023) dava FdI al 29,3%, la Lega all'8%, il M5s al 17,2%, per un totale del 54,5%: in pratica, a metà fra il 50 e il 58%, in perfetta continuità con i leggi tutto
L'anno che verrà
Il 2024 sarà un anno determinante per la politica italiana, perché tutte le scommesse di leader e partiti si dovranno confrontare con i dati di numerose e importanti tornate elettorali. In primo luogo, avremo le comunali: si voterà in ventisette capoluoghi di provincia, fra i quali Bari, Bergamo, Cagliari, Campobasso, Ferrara, Firenze, Forlì, Livorno, Modena, Perugia, Pescara, Potenza, Reggio Emilia e Sassari. Le amministrative del 2023 hanno visto il centrosinistra in grave difficoltà, quindi le città - soprattutto le maggiori - saranno il campo di battaglia dove si misureranno la destra capeggiata dalla Meloni e il centrosinistra della Schlein (con o senza il M5s, che in questo tipo di elezioni vede i suoi elettori defezionare in massa, dunque è quasi sempre ininfluente). Poi avremo le regionali in Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria, dove la destra ha tutto da perdere, perché gli uscenti sono tutti della coalizione della Meloni. In queste realtà non si vedrà soltanto se il centrosinistra avrà la capacità di rianimarsi, ma anche se i "governatori" uscenti saranno ricandidati (c'è il problema di un riequilibrio a favore di Fratelli d'Italia, visto che la scorsa volta il partito della premier era il terzo della coalizione per numero di voti, non come adesso che leggi tutto
L'ennesima Grande Riforma
La riforma istituzionale proposta dal governo è stata variamente commentata e criticata. Forse sarebbe opportuno tornare su alcuni punti che sono stati oggetto di osservazioni. Nel nostro caso, tuttavia, ci fermiamo ad una constatazione: ad oggi, la Meloni ha gli stessi poteri del premier che vorrebbe veder eletto dal popolo. Grazie alla divisione delle opposizioni, uno sciagurato sistema elettorale costruito malissimo le ha regalato la maggioranza assoluta e comoda in entrambi i rami del Parlamento; il suo stile di conduzione ricorda - ad alleati e avversari - quello di una leader che controlla sia il suo partito, sia la sua maggioranza, sia il Parlamento (per non parlare della Tv pubblica) proprio come se fosse stata eletta dal popolo; come il suo premier plebiscitato, però, anche lei ha un punto debole, perché può essere sostituita in corso di legislatura, se c'è una crisi. L'unica differenza è che oggi il sostituto può essere un presidente tecnico (se dovesse servire, mentre in futuro una crisi epocale dovrebbe essere gestita dal primo politicante di turno) o da un altro leader (Salvini ci spera, ma non ci riuscirà) che però non avrebbe il potere di sciogliere le Camere (o forse sì, non si sa mai, se non ci fossero leggi tutto
Essere liberaldemocratici in Italia
Il dibattito su un possibile polo di "centro" va analizzato sotto due aspetti. Se si considera come centro la riunione di varie anime - dai residui di Forza Italia a Italia viva, da Azione a Più Europa - col solo scopo di fare da pivot per entrare in tutte le maggioranze possibili, è meglio non parlarne. Le operazioni di potere e i "cartelli" non portano fortuna a chi li fa e non sono positivi, in generale, per il sistema politico, senza contare che le ambizioni di tanti singoli sono tali da non assicurare alcun respiro a questo genere di iniziative. Se invece alla base c'è una comunanza culturale prima che politica - e qui va ben distinta la tradizione laica, liberal democratica e radicale da quella dei cattolici di sinistra, che sono cose diverse - allora un discorso può avere un significato. Certo, non basta aggregare forze vicine e con tratti programmatici e culturali comuni o almeno affini, come accadde persino nel 1984 alla Federazione laica Pri-Pli alle europee e nel 1989 alla lista Pri-Pli-Radicali (sempre europee: allora i radicali dispersero le proprie forze fra più liste, moltiplicando così gli eletti). Quando però, come in quei casi, si pensa che iniziative elettorali possano essere l'embrione di un leggi tutto
Dalla partitocrazia all'oligocrazia
Il progresso sta allontanando i rappresentanti dai rappresentati. La disintermediazione sta trasformando il rapporto fra cittadini ed eletti in quello fra followers e leader. Durante la Prima Repubblica, fino alle prime Tribune politiche (1960) nessuno aveva mai potuto vedere un personaggio politico se non guardando le foto sui giornali o partecipando ai comizi. I partiti "entravano in casa", o quasi: avevano sezioni dovunque, erano presenti in alcuni casi persino sui posti di lavoro o comunque si facevano vivi attraverso associazioni di categoria o sindacati collaterali ai principali soggetti politici. Il rapporto fra leader e cittadini era dunque quasi "fisico", almeno per il primo ventennio della Repubblica, ma anche in seguito, fino alla metà degli anni Novanta, era ancora basato su una rete di contatti e di relazioni che passavano per strutture di partito (un po' meno per i comizi, perché la televisione cominciava a far conoscere meglio i leader, che iniziavano a partecipare negli anni '76-'80 - da "Bontà loro" in poi - ai primi talk show). Il numero degli iscritti ai partiti, sebbene in costante calo, restava a quote comunque ragguardevoli. Il crollo della Prima Repubblica ha - di fatto - portato allo smantellamento di questo sistema (tranne che per pochissimi partiti). leggi tutto