L’Italia e la lotta internazionale all’Isis a un mese dalle stragi di Parigi.
All’indomani dei tragici avvenimenti di Parigi del 13 novembre scorso, la maggior parte dei commenti di politici ed editorialisti si è concentrata su due aspetti della lotta che l’Italia e gli altri partner internazionali dovrebbero portare allo Stato islamico e alla sua strategia del terrore: 1) la creazione di una grande coalizione, composta dai paesi della UE, dagli USA e dalla Russia, insieme alle principali potenze regionali, come Iran, Arabia Saudita e Turchia, in grado di sconfiggere l’Isis sul piano militare; 2) isolare economicamente il Califfato, prendendo le distanze da quei paesi che si suppone stiano appoggiando l’Isis, attraverso traffici e affari di ogni genere con i suoi dirigenti.
Molti commentatori, inoltre, hanno censurato l’eccesso di prudenza del governo italiano, in particolare del presidente del Consiglio. Il premier Renzi, infatti, pur ribadendo con chiarezza la volontà di partecipare alla lotta contro il terrorismo islamista, ha allo stesso tempo invitato governi amici e alleati a inserire ogni eventuale intervento militare in un disegno strategico complessivo, volto a stabilizzare la regione e non semplicemente a eliminare un gruppo di potere per creare l’ennesimo vuoto politico, fonte di nuova anarchia e nuova conflittualità: in breve, non interventi affrettati, attuati soprattutto per dare una risposta all’opinione pubblica, giustamente spaventata e disorientata, bensì iniziative meditate e condivise, ma non per questo meno ferme e determinate. Altra critica sollevata contro Palazzo Chigi è il mancato irrigidimento dei rapporti con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo, dal cui interno si sospetta provengano aiuti e finanziamenti per le attività del Califfato; la visita di Renzi a Riad, proprio pochi giorni prima dei drammatici fatti di Parigi, al fine di rafforzare la partnership economica tra i due paesi, è stata oggetto di giudizi assai negativi e motivo di attacchi politici e mediatici.
A un mese dagli attentati parigini, forse è possibile fare valutazioni un po’ più distaccate ed equilibrate. Le difficoltà nelle relazioni tra Mosca e Washington e il duro contrasto tra la Turchia e la Russia hanno inequivocabilmente dimostrato che immaginare la rapida formazione di una grande coalizione significa scambiare la politica internazionale per il gioco del Risiko, in cui basta mettere insieme le armate e puntare sul nemico comune. Oltre all’interesse genericamente condiviso - almeno a parole - di eliminare il Califfato, tutte le potenze coinvolte nelle dinamiche regionali hanno interessi non del tutto coincidenti, se non addirittura contrastanti. I paesi della UE hanno come priorità la propria sicurezza nazionale, per cui il nemico è il terrorismo islamista e le sue centrali in Medio Oriente, e ogni alleato in questa lotta è ben accetto; anche gli USA vogliono combattere il terrorismo e l’Isis che lo alimenta, ma allo stesso tempo vogliono abbattere la dittatura di Assad in Siria, facendone una condicio sine qua non; la Russia vuole impedire che il contagio islamista si diffonda dal Medio Oriente all’interno dei suoi confini, ma è anche determinata a difendere il ruolo di Assad, garante degli interessi di Mosca in territorio siriano, ed è mossa al contempo dalla necessità di acquisire crediti internazionali da riscuotere nella crisi ucraina, ormai quasi dimenticata, eppure molto grave; la Turchia è preoccupata per la stabilità e la sicurezza della regione, su cui è intenzionata a far pesare la propria leadership politica, ma più di ogni cosa teme che l’esito finale della lotta all’Isis sia una modifica dei confini mediorientali con il riconoscimento del diritto all’autodeterminazioni per le popolazioni curde, quelle più impegnate a contrastare sul campo l’avanzata del Califfato; obiettivo dell’Arabia Saudita è la creazione di un assetto regionale a lei gradito, in cui la componente sciita dell’Islam non diventi politicamente egemone, ragion per cui i sauditi guardano con sospetto al riavvicinamento tra l’Occidente e l’Iran, sia in campo nucleare, che nella lotta all’Isis. In breve, ognuno ha un interesse immediato e prioritario da difendere e un obiettivo da realizzare nella futura ricostruzione della Siria: finché il gioco non diventerà a somma positiva per la maggior parte degli attori impegnati nella lotta all’Isis, non si formerà alcuna grande coalizione internazionale, ma tutti procederanno in ordine sparso, senza dare un efficace contributo alla stabilizzazione dell’area.
In questo contesto, sembra condivisibile la posizione riflessiva e prudente assunta dall’esecutivo italiano, impegnato a combattere il terrorismo islamista all’interno dei confini nazionali, con gli strumenti dell’intelligence e delle forze di polizia, ma senza partecipare attivamente a operazioni militari, il cui esito non è ancora chiaro. Di fronte alle conseguenze disastrose delle precedenti iniziative militari, in Iraq e Libia, attuate senza strategie precise, non si comprende il motivo per cui il governo di Roma dovrebbe far correre ulteriori rischi al paese, già sufficientemente esposto a minacce e pericoli per via del semplice dato geografico, essendo proiettato al centro del Mediterraneo verso le coste nordafricane e il Medio Oriente.
Ma difendere la sicurezza nazionale in un paese, come l’Italia, dipendente in massima parte dalle forniture estere per il proprio fabbisogno energetico, significa anche garantire la continuità dell’approvvigionamento di idrocarburi, facendo quadrare il più possibile i conti con l’estero. Anche in questo caso, quindi, in assenza di alternative vere e concrete in campo energetico, non è chiaro il motivo per cui l’Italia, sola nella comunità internazionale, dovrebbe irrigidire i rapporti con i principali produttori di petrolio del mondo e non chiedere di reinvestire parte delle loro ricchezze in prodotti nazionali a beneficio di tutta l’economia del paese. Tutto questo, poi, dopo che per mesi media, osservatori e politici hanno sottolineato il grave danno causato alle imprese italiane dalle sanzioni contro la Russia per la questione ucraina; un atteggiamento schizofrenico, quello di una parte del mondo politico e dell'informazione, che rende sempre più difficile per l’opinione pubblica orientarsi e valutare l’azione del governo.
La politica di Renzi non è innovativa e originale, ma ricalca quella attuata con successo dai leader della Democrazia Cristiana della Prima Repubblica, impegnati a muoversi con prudenza e a dialogare con tutti gli attori politici mediorientali e nordafricani, ben consapevoli dei limiti del paese. Negli anni Settanta, Aldo Moro fece di tutto per tenere in vita le relazioni con la Libia, nonostante la presenza di un regime dittatoriale guidato dal colonnello Gheddafi, le cui prime mosse furono la cacciata della comunità italiana dal territorio libico e la nazionalizzazione di tutte le loro ricchezze e proprietà. Sempre Moro si impegnò in un dialogo con i rappresentanti dell’OLP, nella speranza di evitare che le città italiane potessero diventare il teatro degli attentati terroristici palestinesi; e fu ancora Moro a visitare le capitali dei principali paesi mediorientali all’indomani dell’embargo petrolifero deciso dai paesi arabi per ritorsione contro l’appoggio occidentale a Israele. Pochi mesi dopo la tragica scomparsa di Moro, infine, fu Giulio Andreotti a recarsi a Baghdad per chiedere al nuovo dittatore iracheno, Saddam Hussein, non solo di continuare a vendere petrolio all’Italia a prezzi vantaggiosi, ma di assegnare appalti e commesse alle imprese italiane. Si trattava, forse, di una politica di basso profilo, ma che rispondeva alle priorità del paese e che riuscì a garantire nel complesso la sicurezza dei cittadini e soddisfare il fabbisogno energetico nazionale, punto debole del sistema produttivo italiano.
* Docente di storia delle relazioni internazionali. Università del Salento
di Paolo Pombeni
di Massimo Bucarelli *
di Lorenzo Ferrari *