Confusione globale
Grande è la confusione sopra – e sotto – il cielo mediorientale. I giochi di guerra tra Turchia e Russia sono solo l’ultimo esempio del caos globale, in cui ognuno va per se, le alleanze sono duplici e triplici, e tattica e strategia di lungo termine sono spesso in contraddizione.
Partiamo da una considerazione generale: il conflitto medio-orientale è soprattutto una guerra intra-musulmana i cui principali contendenti sono Arabia Saudita ed Iran. Si tratta di una contesa geopolitica ma anche religiosa: l’integralismo sunnita di Riad intende presentarsi come l’unico vero Islam ed ha quindi i suoi nemici più forti negli sciiti di Teheran. In Occidente questo aspetto è sempre stato sottovalutato con risultati disastrosi.
Gli interventi militari americani ed europei non solo hanno alimentato il terrorismo (le guerre occidentali sono, secondo gli studi di Robert Pape, la principale giustificazione dei terroristi e kamikze) ed il radicalismo islamico, ma hanno anche, e forse soprattutto, destabilizzato la regione, ottenendo nel medio periodo risultati opposti a quelli che inizialmente prefissi. L’intervento americano in Iraq – paese a maggioranza sciita che con Saddam era governato da un regime sunnita laico, ostile tanto all’Iran che all’Arabia – ha esacerbato il conflitto tra sunniti e sciiti. Non paghi del disastro iracheno, si è poi intervenuti in Libia e supportato l’opposizione siriana, aprendo una stagione di anarchia totale. Immemori della lezione afghana – dove i legami tra USA e AlQaeda, via Arabia Saudita erano ben noti – si è ancora una volta deciso di armare gruppi di ribelli per abbattere regimi ostili all’Occidente, senza pensare alle conseguenze geopolitiche.
Tra queste soprattutto la nascita di Daesh. ISIS nasce soprattutto come creatura saudita per respingere l’offensiva sciita in Iraq. L’escalation c’è poi stata con la guerra civile in Siria, dove l’opposizione contro lo sciita Assad è stata presto egemonizzata dagli estremisti sunniti. Il tutto con l’aiuto diretto delle monarchie del Golfo e con il tacito assenso americano in chiave Assad, difeso strenuamente da Iran e Russia. L’ascesa del califfato è dunque tante cose insieme: una guerra civile e religiosa intra-musulmana tra sunniti e sciiti, una guerra per proxy tra Sauditi ed Iran, ed una revisione dei confini tra Siria ed Iraq – disegnati da francesi ed inglesi ai tempi del colonialismo, senza ovviamente tenere in minimo conto le differenze etnico-religiose.
In una situazione già così esplosiva si innestano poi gli interessi particolari dei singoli attori, spesso eterogenei e diversi da quelli ufficialmente dichiarati. Mentre l’Occidente dichiara guerra contro Daesh, tutti i nostri principali alleati nella regione – Arabia Saudita, Turchia ed Israele – hanno tutti un rapporto molto ambiguo con l’estremismo islamico.
I sauditi hanno sostenuto ISIS (e prima, AlQaeda) per estendere il loro integralismo wahabita contro gli stati islamici laici e contro gli sciiti, ma sono loro stessi incapaci di controllare il mostro che hanno creato, pronto a ritorcersi contro la dinastia reale, vista come complice dell’Occidente.
Per la Turchia l’interesse geopolitico è rappresentato dalla repressione dei curdi che approfittando del disfacimento di Iraq e Siria si stanno costruendo un proprio stato. Ankara sostiene le milizie turcomanne in Siria, schierate contro Assad ed alleate di ISIS che ha aiutato a più riprese durane il conflitto – soprattutto tenendo aperte le frontiere per aiutare la riorganizzazione militare dei gruppi islamici sotto attacco, oltre a trafficare col petrolio dello Stato Islamico. L’attacco al caccia russo trova quindi spiegazione nell’appoggio dato da Ankara ai ribelli colpiti da Mosca.
Per Israele i nemici principali nella regione sono Siria ed Iran – e le milizie Hezbollah. Milizie che combattono attivamente ISIS e che sono state recentemente bombardate da Gerusalemme, che sembra chiaramente preferire una situazione di instabilità in Siria ad una sconfitta dell’estremismo wahabita.
Anche i Curdi hanno obiettivi misti: combattono attivamente Daesh in Siria, ma non sono interessati ad una sconfitta completa del califfato in Iraq – che se ritrovasse pace e coesione potrebbe mettere a rischio l’indipendenza di fatto del Kurdistan iracheno.
La coalizione occidentale si trova dunque divisa. Gli USA hanno un atteggiamento ambiguo: vogliono sconfiggere ISIS, ma senza far vincere Assad. I bombardamenti non hanno dunque alcuna coordinazione al suolo, se non con le truppe curde e si rivelano inefficaci. L’alleanza con Arabia ed Israele è meno solida di un tempo e sono state fatte le prime aperture all’Iran, ma la confusione degli obiettivi strategici è lampante. La Francia combatte ISIS ma, come ci racconta Adam Shatz, è anche sempre più alleata con quei Sauditi che ISIS finanziano e supportano, è convintamente anti-Iraniana e sempre più amica di Israele.
E’ un mondo complesso, in cui non vale più il vecchio paradigma secondo cui il nemico del nostro nemico è un nostro alleato, un mondo in cui si combatte con una mano un nemico che viene indirettamente ma coscientemente aiutato con l’altra. L’egemonia americana è sempre più flebile, gli alleati si muovono in maniera indipendente quando anche non ostile – è il caso di Israele e Turchia – e comunque sicuri dell’impunità data dal proprio ruolo strategico – soprattutto i Sauditi. C’è però anche, ed è inutile negarlo, un problema politico legato all’incapacità dell’Occidente di individuare e perseguire coerentemente il proprio interesse nazionale.
* DPhil, Visiting Fellow, Munk School of Global Affairs, University of Toronto
di Paolo Pombeni
di Nicola Melloni *
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