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01 maggio 2024
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L’Ue tra “piccole patrie” e nazionalismi: le nuove forze centripete e la posta in gioco

Massimo Piermattei * - 12.11.2015
Indipendenza della Catalogna

Negli ultimi anni si sta assistendo a un costante intensificarsi di sogni indipendentisti che attraversano diverse regioni europee. Non si tratta certamente di una novità: un fenomeno analogo si registrò già nelle fasi immediatamente successive alla caduta del Muro di Berlino quando, insieme alla contrapposizione Est-Ovest, cadde anche uno dei principali motivi che aveva spinto gli Stati nella direzione di un marcato centralismo. La fine della guerra fredda liberò energie politiche nuove che portarono (anche) a una rinnovata attenzione ai territori e alle regioni, un fenomeno che in alcuni casi favorì le riforme in senso federale, come in Belgio, in altri arrivò a toccare punte drammatiche, con le dissoluzioni della federazione jugoslava e di quella sovietica.

È di pochi giorni fa la notizia dell’inasprimento della polemica con Madrid da parte del parlamento catalano, che ha approvato una mozione con l’obiettivo dichiarato di avviare unilateralmente il processo separatista – dando così seguito al voto dello scorso settembre che aveva premiato gli indipendentisti. Ma, appunto, lo strappo deciso dalla Catalogna non è un fatto isolato, bensì si inserisce in un processo più ampio che, a partire dal (fallito) referendum scozzese del settembre 2014, agita le cancellerie di diversi Stati europei – si pensi in particolare all’Italia che, proprio su questi temi, è attraversata sin dalla metà degli anni ‘90 da spinte regionaliste raramente comprese e studiate nella loro piena portata.

Se si tralasciano per un momento le peculiarità e il retaggio storico-politico che sono alla base di ciascuna realtà, per cercare di formulare una riflessione complessiva sull’insieme di questi fenomeni, appare chiaro come il fermento che dalla Scozia alla Catalogna attraversa mezza Europa, faccia leva sull’accusa mossa dalle “piccole patrie” agli Stati tradizionali di essere incapaci di rispondere alle complessità e alle crisi del tempo presente. Il corollario di questo approccio, è il fatto che se essere inseriti in uno stato più grande non porta vantaggi, diventa preferibile recidere quel legame, cercando così di preservare le istanze localiste e di tutelare meglio i servizi ai cittadini attraverso processi di secessione. È un fermento che non va letto come un mero tentativo di rinchiudersi entro confini sempre più limitati e (illusoriamente) rassicuranti. Ne è riprova il fatto che le diverse spinte regionaliste associano sempre la lotta indipendentista a un rinnovato afflato europeista e a un convinto sostegno al processo d’integrazione. Tuttavia, la richiesta di adesione di una di queste nuove realtà all’Ue sarebbe una fattispecie del tutto nuova nella storia del processo d’integrazione europea, giacché a chiedere l’adesione non sarebbe uno stato esterno all’Ue, ma un territorio che ne è già parte. L’unico precedente, con i dovuti distinguo, è quello con la riunificazione tedesca. Che però non fu una “riunificazione” nel vero senso del termine, ovvero che vide la nascita di un nuovo stato unitario al posto delle due Germanie, ma si concretizzò con l’annessione alla Repubblica Federale dei Lander dell’Est. Nel caso della Catalogna o della Scozia, o di altre situazioni simili, si dovrebbero tracciare percorsi di adesione nuovi, diversi da quelli oggi proposti ai Paesi candidati. Sono temi sui quali gli Stati membri e le forze politiche nel Parlamento europeo fanno fatica ad avviare un confronto serio e strutturato, perché toccano sensibilità e interessi rilevanti: non a caso, nessun grande partito o nessuna federazione transnazionale condivide queste cause; anzi, nella quasi totalità dei casi, le forze politiche intervengono (pesantemente) per scongiurare soluzioni indipendentiste – i pressanti appelli in favore del “no” al referendum scozzese ne sono una prova.

La contrapposizione tra le piccole patrie e gli Stati nazionali si accompagna a un’altra, anch’essa aspra e tutta ancora da studiare, tra molti Stati membri, l’Ue e le sue istituzioni: un’opposizione che fa leva sullo stesso meccanismo fin qui descritto, cioè l’accusa mossa dagli Stati all’Ue di non tutelare adeguatamente i loro interessi e i loro cittadini. L’Ue diventa così la causa di tutti i problemi: spesso si arriva a dipingere una sorta di “paradiso perduto” a causa della Ue e del suo processo d’integrazione; un’oasi di crescita economica, sicurezza interna ed esterna che l’uscita dall’Ue garantirebbe con certezza pressoché assoluta. Così facendo si favoriscono il consolidamento e il successo elettorale di movimenti euroscettici e antieuropei, di stampo populista, prevalentemente di destra ma ben presenti anche a sinistra, che non di rado usano gli stessi slogan e le stesse parole d’ordine. Esempio lampante di questa contrapposizione è la durissima lettera inviata il 10 novembre da Cameron alle istituzioni europee circa la rinegoziazione posta da Londra come condizione per rimanere nell’Ue. Un vero e proprio ultimatum con toni nazionalistici che sembrano appartenere ad altri tempi.

A ben riflettere, entrambe le contrapposizioni descritte, per quanto apparentemente antitetiche, hanno una radice comune nell’assenza di chiarezza sulla finalità del processo d’integrazione, messa ancor più a nudo dalle crisi attuali: una mancanza voluta e ostinatamente alimentata dagli Stati nazionali. Finché non si deciderà in modo definitivo qual è lo sbocco finale della costruzione europea, finché l’Ue rimarrà un’incompiuta, le tensioni politiche, sociali ed economiche, aggravate magari da situazioni congiunturali drammatiche come quelle degli ultimi anni, si scaricheranno da un lato nella tentazione delle “piccole patrie”, dall’altro nel ritorno a divisioni nazionaliste che l’Europa e i suoi popoli in passato hanno conosciuto fin troppo bene, ma dalle quali invece, dimostrano di non aver imparato poi molto. In assenza di questo auspicabile chiarimento, in altre parole, qualunque scelta (Madrid o Barcellona, Londra o Bruxelles) potrebbe alla lunga rivelarsi perdente per i cittadini e rischiosa per la pace e la stabilità del continente nel suo insieme.

 

 

 

 

Professore a contratto Università della Tuscia