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24 aprile 2024
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Quale integrazione sociale degli immigrati nella società francese? Lo Stade de France, primo obiettivo dei terroristi a Parigi

Stefano Martelli * - 21.11.2015
Attentato Stade de France

La crudele regia della mente criminale che ha pianificato i 6 attentati terroristici a Parigi ha scelto lo Stade de France come il suo primo obiettivo. Non era una partita qualsiasi, quella che venerdì 13 novembre era iniziata da pochi minuti: in campo si affrontavano, anche se solo per una amichevole, le Nazionali di calcio di Francia e Germania, ovvero dei due Stati che da anni sono, di fatto,  alla guida dell’Unione europea. In tribuna sedeva il Presidente Hollande e sugli spalti sedevano circa 80.000 spettatori. Il fatto che i controlli di sicurezza abbiano impedito ai due attentatori di entrare e che poi questi si siano fatti esplodere fuori, peraltro causando una sola vittima, non diminuisce la rilevanza simbolica dell’obiettivo ISIS. Quale modo migliore per seminare il terrore in città e, a raggio più ampio, in due nazioni europee e, al tempo stesso, per colpire al cuore il gioco del calcio  --un passatempo consumistico, indegno di veri uomini, quali reputano di essere i guerrieri dell’ISIS?

Lo Stade de France, poi, non è solo uno dei molti impianti sportivi che la Francia possiede e che sono ormai pronti per ospitare “Euro 2016”, il torneo internazionale di calcio, che all’inizio della prossima estate appassionerà centinaia di milioni di persone nell’intero continente europeo. In questo stadio, infatti, nel 1998 si svolse la finale dei Mondiali FIFA e, battendo il Brasile campione in carica, la Nazionale francese sembrò coronare l’abile regia di integrazione sociale degli immigrati tramite lo sport, voluta da Jacques Chirac, l’allora Presidente della Repubblica (1995 – 2007). Nella vittoria tutta la nazione si riconobbe nella “squadra delle tre B” – “Black, Blanc et Beur”: così fu chiamata allora la Nazionale di calcio francese, di solito denominata “les Blues” dal colore della maglia: ciò per sottolineare il fatto che i neo-campioni del calcio mondiale, pur diversi per il colore della pelle e per l’origine etnica, erano tutti cittadini francesi. Il calcio sembrava poter realizzare nella Francia d’oggi la società integrata e multiculturale, così applicando e aggiornando gli ideali illuministici.

Il 14 luglio 1998, ricevendo all’Eliseo per i festeggiamenti di rito la “squadra multicolore” guidata dal capitano Zinédine Zidane –anch’egli un ‘beur’, ovvero un figlio di immigrati dall’Algeria e però calciatore di grande talento, premiato con il ‘pallone d’oro’ 1998 dalla stessa FIFA–  Jacques Chirac sembrò riuscire nel proprio intento, quello di dimostrare che tramite lo sport era possibile integrare nella società francese quei cittadini che, sia per distanza etnico-culturale dal Paese ospitante, sia per le scarse risorse economiche, avrebbero potuto restare ai margini a lungo o divenire serbatoio di tensioni sociali.

Il past-President francese non desistette da questa politica neppure negli anni successivi, anche se tensioni etnico-religiose –dal dibattito sul foulard o velo islamico che le studentesse musulmane si ostinavano a indossare nella scuola pubblica nonostante la laicité della medesima, alle sommosse esplose nell’autunno 2005 e proseguite per 3 mesi in decine di città francesi, a seguito della morte accidentale a Clichy-sous-Bois (Parigi) di due adolescenti beur, rifugiatisi in una cabina dell’elettricità per sfuggire alla polizia francese.  Di nuovo nel 2006 Chirac volle ricevere la ‘squadra multicolore’ e nuovamente premiare tutti a cominciare dal capitano Zidane, anche se la Nazionale francese si era piazzata seconda dietro all’Italia nel Mondiale appena conclusosi in Germania, e lo stesso Zidane fosse stato espulso dall’arbitro, a seguito del noto fallo (la famosa testata a Marco Materazzi) nel corso della finale svoltasi a Berlino. “Bagatelles”, di certo pensò Chirac: per lui, ciò che contava era alimentare il sogno dell’integrazione sociale degli immigrati, dimostrando che la Francia accoglie tutti e che consente ai migliori di salire rapidamente le scale della società francese.

Questo progetto è andato in crisi ben prima che si udisse il fragore delle bombe –fuori dallo Stade de France– e gli spari dei kalashnikov  –dentro alla discoteca Bataclan e negli altri luoghi di divertimento/intrattenimento, accuratamente scelti perché simboli di consumismo e di peccato dalla mente criminale ISIS. Questo progetto è stato messo in crisi dalla riluttanza degli stessi francesi ad applicare con coerenza le misure di integrazione sociale, che alcune leggi e direttive di politica sociale a favore dell’immigrazione avevano da tempo prescritto. Ad esempio le nuove case in Francia devono riservare una quota di appartamenti agli immigrati, ma questi raramente li ricevono; così trovar lavoro per i giovani immigrati o ‘di seconda generazione’ è difficile, e non solo “perché c’è la crisi”. In breve, come hanno messo in luce prima Karl Heinemann, Ian P. Henry e altri sociologi, poi lo stesso primo ministro Manuel Valls riferendo al Parlamento francese all’indomani di un altro attentato terroristico avvenuto a Parigi –nel gennaio scorso, nella redazione del periodico satirico Charlie Hebdo–, l’enorme difficoltà che incontrano i giovani allogeni a trovare lavoro e casa (non solo in Francia), pur avendo raggiunto alti livelli di istruzione come i coetanei autoctoni, è la principale causa delle difficoltà attuali a creare una società multiculturale nei fatti. Si creano invece nelle banlieu dei ‘ghetti’, in cui gli immigrati vivono di piccoli lavori e di espedienti devianti, sostituendo all’integrazione sociale sognata la realtà dell’esclusione e il rischio di venire arruolati dall’ISIS.

Pertanto non è ‘colpa’ dello sport se gli immigrati non si integrano nelle società europee –e neppure sarebbe ‘merito’ solo dello sport, se l’operazione riuscisse. È invece responsabilità di tutti i cittadini, ma in modo particolare dei politici e degli amministratori della ‘res publica’, attuare le buone leggi –là dove ci sono– o contribuire a farne di migliori –che  però vanno applicate! Altrimenti lo sport, entro una società europea che si rivela nei fatti razzista o anche solo timorosa dell’avvenire –qui la responsabilità dei politici “imprenditori della paura”, ad es. i Le Pen in Francia o Salvini in Italia, è grande–, si rivelerà l’ennesima ideologia, e i suoi fallimenti alimenteranno attentati e la volontà di dominio dell’ISIS. Al contrario, lo sport potrebbe divenire una risorsa di integrazione sociale, assieme alle religioni, se i popoli europei vorranno essere all’altezza del progetto moderno, però sobbarcandosene gli oneri e testimoniandone i valori.

 

 

 

 

* *Docente di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, e Responsabile dello SportComLab dell'“Alma Mater Studiorum”-Università di Bologna