Aung San Suu Kyi, l’ultima icona pop mette il regime alle corde
Con la vittoria alle urne, si realizza il sogno del premio Nobel per la Pace. Ma per il Myanmar ora viene il difficile
La vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni rappresenta una vera svolta per il Myanmar, o una concessione alle telecamere e ai media di tutto il mondo destinata a scomparire, una volta che l’attenzione sarà passata altrove? Sicuramente, quella di domenica è stata una giornata storica per il Paese asiatico e per la vita della famosa leader di opposizione. Nessuno quanto lei è riuscita a incarnare, negli ultimi 30 anni, il grido di libertà di un’intera popolazione, sottoposta a un regime tirannico, subdolo e liberticida.
Aung San Suu Kyi è riuscita a porre all’attenzione dell’intera comunità internazionale e dell’opinione pubblica mondiale la questione democratica in un poco conosciuto Paese asiatico, ben prima dell’avvento di internet, dei social network e del villaggio globale. Una leadership, quella della dissidente birmana, che nasce da aspre rinunce sulla vita personale – su tutte, la lontananza dal letto di morte del marito, per non rischiare l’estradizione forzata dal suo Paese – e da una proverbiale compostezza, ma da una titanica determinazione, tale da dilatarne in maniera esponenziale la esile fisicità.
Il suo sguardo fermo, che traspare da ogni manifesto o semplice fotografia, è la sintesi migliore della vita sacrificata alla causa di una intera nazione e alla lotta per la libertà. Un’espressione che non nasconde ferite, che ammette sconfitte, ma che non ha mai ceduto alla rassegnazione, anche quando nessuno sembrava curarsi dei destini di questo Stato in mano a uno dei tanti regimi in divisa nel sud del mondo.
Nel corso degli anni, il cammino della democrazia in Myanmar ha subito piccole accelerazioni e pesanti battute d’arresto. Al centro, sempre lei e le piccole concessioni talvolta ammesse dal regime di Naypyidaw, un colosso rivelatosi dai piedi d’argilla, se la piccola e intramontabile “Lady” è riuscita a metterne in serio pericolo la sopravvivenza. Un regime che ha cercato di cancellare l’identità di un popolo, cambiando d’imperio il nome dello Stato e costruendo simulacri di un potere esangue come gli stradoni deserti della nuova capitale.
Legare in maniera così stretta, come Aung San Suu Kyi, i destini della propria esistenza alla battaglia di redenzione di un popolo è un percorso che solo pochissimi personaggi nella storia moderna hanno avuto il coraggio di compiere. In epoca recente, il loro operato è stato favorito dagli organi di stampa più attenti e coraggiosi, che hanno puntato i fari sulla questione di uguaglianza e sulle libertà negate. Ma anche l’arte – in primo luogo la musica, la letteratura o il cinema – hanno contribuito a rendere questi leader delle icone pop ma latrici di un messaggio dal valore universale. E la dissidente birmana vanta una pubblicistica di tutto rispetto: dal lungometraggio biografico di Luc Besson e interpretato da una magnifica Michelle Yeoh, “The Lady”, oppure alle canzoni dedicate, negli anni, da band di fama mondiale come U2 o REM, i numerosissimi saggi e romanzi anche negli anni bui in cui pareva nulla potesse cambiare. Naturalmente, con l’apice – o il punto di inizio – del premio Nobel per la Pace, uno dei tratti in comune con Nelson Mandela, legato ad Aung San Suu Kyi anche per la lunga prigionia.
Le affinità si sprecano anche con Mahatma Gandhi, ispiratore della condotta non violenta adottata dalla leader birmana contro i suoi oppressori e carcerieri. Ma la lista potrebbe essere molto più lunga. Veri e propri simboli trasversali, capaci di influenzare non solo la storia di un popolo o del mondo intero, ma anche la cultura, la politica, l’arte, il modo di pensare, il linguaggio di un’epoca. Eppure, da una parte c’è il mito popolare – che potremmo dirlo, oggi ha trionfato. Dall’altra, il leader politico, atteso da nuove e forse più profonde difficoltà.
Qualche anticipazione sul prossimo futuro può arrivare dalla parabola di Barack Obama. Così come la questione razziale in Usa non si è risolta con la sua elezione alla Casa Bianca, in Myanmar il regime non svanirà in una serata, per quanto rivoluzionaria. Nella Costituzione birmana un assurdo comma impedirebbe a Aung San Suu Kyi di diventare presidente, in quanto madre di cittadini stranieri. Ma non c’è da stupirsi: è proprio nei momenti di maggiore difficoltà che i regimi mostrano il loro lato più truce. La piccola grande leader questo lo sa bene e, ora che il suo appoggio popolare ha trovato riscontro alle urne, la sua voce urlerà più forte che mai, finalmente anche in patria.
* Classe 1984, giornalista professionista, sociologo, dottore magistrale in “Mass-media e politica”. Ha svolto esperienze in Rai (sede di New York) e Sky.
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