La lunga prigionia di Palmira: cronaca di un sequestro
«Palmira è libera». Dopo dieci mesi sotto il dominio dell’Isis, la Città ha visto allontanarsi le bandiere nere del califfato. La mattina del 27 marzo l’esercito del presidente siriano Bashar al-Assad ha sconfitto le ultime sacche di resistenza, infliggendo un potente colpo alle truppe di al-Baghdadi. La conquista del sito Patrimonio dell’Unesco, da parte dei jihadisti, era avvenuta nel maggio scorso, quando lo Stato Islamico ne aveva assunto il controllo, utilizzandola come base strategica per gli attacchi contro Damasco.
La portata strategica del successo conseguito dagli uomini di Assad non è inferiore rispetto alla sua rilevanza simbolica: la cacciata dei fondamentalisti oltre a permettere un percorso meno insidioso verso Raqqa, baluardo dell’Isis, consente di alleggerire la pressione su Deir-ez-Zor, centro vicino al confine iracheno, controllato al 60% dai terroristi islamici.
Gli eventi degli ultimi dieci mesi parevano volerci preparare allo spettacolo cui avremmo assistito dopo la cacciata delle milizie del califfo: abbiamo visto la distruzione dell’Arco di trionfo di Palmira e del tempio di Baal Shamin. E poi la decapitazione di Khaled Asaad, archeologo e storico direttore del complesso. Sembrava abbastanza. Ma il volo del drone sulle rovine ha raccontato uno spettacolo ancor più desolante: una creatura maestosa e solenne mutilata e abbandonata in un’inesauribile distesa di sabbia e rocce. “Palmira appare in condizioni meno disastrose di quanto ci si potesse aspettare” avrebbe dichiarato alla stampa Maamoun Abdulkarim, direttore delle antichità siriane. La verità è che nessuno come l’Isis, nemmeno l’incedere greve dei secoli, l’aveva sfregiata tanto. Alcuni templi – tra cui quello di Baalshamin - hanno subìto danni gravissimi. Le tombe e la torre romana, dopo l’Arco di trionfo, sono state fatte saltare in aria, cancellando -una dopo l’altra - le radici culturali siriane. (Già in Iraq i siti di Numrud e Ninive erano stati distrutti a suon di esplosivi).
Di certo questo affronto alla storia ha un valore religioso: rendere tangibile l’offesa nei confronti del retaggio pre-islamico e il disprezzo per l’identità culturale di un popolo. Ma ragioni economiche, ben più stringenti del puntiglio culturale, hanno tenuto in vita le milizie jihadiste a Palmira. A far circolare nelle loro casse cifre che si aggirano intorno ai sei milioni di dollari sono – in buona parte - traffici illeciti di reperti archeologici: saccheggi e devastazioni erano stati denunciati già nell’agosto scorso da diversi archeologi, tra cui Paolo Matthiae, professore di Storia dell’Arte del Vicino Oriente alla Sapienza. Lo Stato Islamico non si limita, quindi, ad annichilire il patrimonio storico delle proprie vittime, ma lo strumentalizza per finanziare la sua guerra. Negli ultimi mesi il mercato nero di opere d’arte e reperti è cresciuto esponenzialmente. Una stima parziale compiuta dall’Unesco parla di un ricavo pari a 36 milioni di dollari ottenuto dal traffico dei reperti trafugati nel solo sito di al-Nabuk, sempre in Siria. Bassorilievi divelti, brandelli di affreschi e capitelli di colonne: dopo lo scavo, i reperti vengono venduti a ricettatori che – a loro volta – veicolano le merci fuori dai circuiti del terrorismo. Se l’affare va a buon fine, l’intermediario intasca anche una tassa sulla transazione. Presumibilmente, l’ex direttore del sito di Palmira, Khaled Al-Asaad, è stato ucciso dopo ore di torture nel tentativo di estorcergli informazioni sul nascondiglio scelto per l’incalcolabile patrimonio artistico trasferito prima dell’invasione.
La piazza più grande per questi traffici è certamente la Turchia, insieme al Libano, alla Giordania e all’Iran: una volta imbarcata, la merce viene destinata a Ginevra, Londra e New York dove viene “legalizzata” grazie alla produzione di falsi documenti di provenienza.
Ricostruire la rete di finanziamenti dello Stato Islamico è un’impresa inaccessibile; ma a tracciare il profilo del suo imponente conto economico è sufficiente la voce “Petrolio” nel comparto “Proventi”. L’esigenza monetaria dell’Isis fonda nel commercio del greggio uno dei pilastri più redditizi della propria economia. I pozzi petroliferi e di gas naturale, di cui otto solo in Siria, producono tra i 30.000 e i 70.000 barili al giorno. Questi vengono poi venduti a 26/35 dollari al barile. Dato allarmante è sicuramente la percentuale in crescita dei sequestri di “oro nero” illegale, balzata improvvisamente al 300%. Non è un caso che l’organizzazione abbia un pied à terre in Iraq, notoriamente al quinto posto nel mondo per riserve di greggio.
Considerata la potenza di queste masse imponenti masse monetarie nei traffici dello Stato Islamico,ci si chiede come faccia Palmira a essere ancora in piedi. Nelle peggiori previsioni – fortunatamente disattese – non sarebbe rimasto che qualche sasso e molta sabbia. È evidente che, seppur così stanca e umiliata, la «Perla del deserto» non ha perso la sua caratteristica fondamentale: l’immortalità. Tra cinque anni - tempo stimato dagli esperti per rimetterla in sesto –tornerà a risplendere.
* Francesca Del Vecchio, praticante giornalista. Collabora con Prima Comunicazione e ha collaborato con il canale all news Tg Com 24.
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