Nessuna guerra è giusta, tranne… Star Wars, o le difficili parole delle nuove guerre (1).
«Siamo isolati, siamo disarmati»
«Non è come se stessimo per riaprire i rifugi antiaerei», ha dichiarato Henry Rousso in un articolo pubblicato da Le Monde all’indomani degli attentati di Parigi «ma gli europei si devono interrogare sulla loro capacità di organizzarsi per la nuova guerra e di viverla», anche a costo di richiamare dal passato esperienze che si pensavano seppellite, come l’idea del sacrificio di sé e la necessità di saper ricorrere alla violenza delle armi. Quella di Rousso, uno dei maestri riconosciuti tra gli storici dei conflitti novecenteschi e del totalitarismo, è stata una delle voci più lucide e incisive che si è levata nel disorientamento generale seguito alle stragi del 13 novembre. Mentre François Hollande proclamava ad una nazione spaventata che ci si trovava di fronte ad una nuova guerra, lo storico si interrogava su quali strumenti culturali avessero i francesi per affrontare la nuova prova. «Di fronte alla minaccia siamo isolati, siamo disarmati». E’ difficile dargli torto. Gli europei di oggi sono gli eredi della demilitarizzazione seguita all’apocalisse del 1945, quell’età post-eroica, per usare un’espressione di James Shehaan un po’ grossolana ma indubbiamente efficace, durante la quale armi e armati sono stati rimossi dalla quotidianità e dall’immaginario, anche se non dalla politica reale. Sono i giovani (o ex tali) che hanno salutato come un segno di civiltà la fine della coscrizione obbligatoria sul continente, un atto che ha sancito definitivamente il passaggio da cittadini (dotati dalla Rivoluzione francese di diritti e doveri, tra i quali il possibile sacrificio di sé per la comunità) a consumatori (che al proprio stato chiedono benessere e restituiscono tasse). E sono sempre loro gli appartenenti a quella generazione che ha fatto della memoria della violenza del ventesimo secolo un’ossessione, prima ancora che un business: in una sorta di esorcismo collettivo, si continua a parlare dei conflitti per scongiurare di avervi di nuovo a che fare.
Le parole e le immagini della guerra
Il problema è che la cultura europea ha progressivamente perduto la capacità di parlare delle guerre come eventi legittimi e possibili nella vita delle comunità e degli individui. Una buona dimostrazione è la produzione cinematografica e letteraria che ha accompagnato il Centenario del primo conflitto mondiale, con scrittori e autori impegnati a rincorrersi sul terreno di una narrazione intimistica e demistificatoria, i cui i protagonisti sono individui disillusi, vittime senza alcuna speranza. Pierre Lemaitre, che nel 2013 ha vinto il premio Goncourt con Au revoir là-haut, ha raccontato la Grande Guerra attraverso la grottesca vendetta contro il mondo (e la propria famiglia) di un orrendo mutilato. Torneranno i prati di Ermanno Olmi, che è stato acclamato come miglior film sul 1915-18 in lingua italiana, è un’estetica riflessione filosofica sulla futilità delle passioni ideali che muovono le comunità e sull’ambiguità di virtù come il senso del dovere e il coraggio che animano da sempre il consenso verso i conflitti. Né uno né l’altro parlano della guerra in sé, come un’impresa collettiva con delle origini, delle cause immediate, degli attori e soprattutto dei nemici. L’idea che ci possa essere un antagonista da combattere è estranea alla narrativa europea dell’ultimo quarto di secolo. Il vero nemico, caso mai, è l’illusione che sia giusto combattere per qualcosa o qualcuno, e l’avversario contro cui lottare è rappresentato da tutti coloro che instillano queste illusioni nelle schiere di poveri giovani destinati al macello del fronte: i potenti, i maestri, i predicatori di virtù patrie. In Testament of Youth di James Kent, colorato adattamento dell’omonimo, affascinante (e alquanto più complesso) testo memoriale di Vera Brittain del 1933, lo spettatore viene trascinato attraverso un inferno dantesco di fango, sangue e amori distrutti, così che alla fine possa essere sufficientemente disgustato dalle motivazioni ideali che spinsero la lost generation a farsi massacrare sui campi delle Fiandre.
E’ rimasto Hollywood a parlarci di una guerra giusta?
«Non esistono guerre buone, a parte le seguenti eccezioni: la Rivoluzione americana, la Seconda guerra mondiale e Guerre Stellari», proclamava Bart nel quinto episodio della prima stagione dei Simpson. Era il febbraio 1990, la rinascita di un war cinema epico era ancora al di là da venire (avremmo imparato a farci i conti dopo l’estate di quell’anno e la liberazione del Kuwait), ma la distanza tra la grammatica del racconto bellico statunitense e i tormenti europei era già molto chiara: al di là dell’oceano, parlare di guerra era possibile e, nonostante la sindrome da Vietnam e vent’anni di antimilitarismo alla cinepresa, era possibile persino secondo uno stile eroico. Purché si scegliesse la guerra giusta, naturalmente, con i buoni da una parte e i cattivi (molto e chiaramente cattivi) dall’altra. La seconda guerra mondiale funzionava ancora e avrebbe continuato a funzionare da catalizzatore. I giapponesi – inumani e sleali – e il demone del nazionalsocialismo hanno raramente posto problemi agli sceneggiatori di Hollywood: Letters from Iwo Jima di Clint Eastwood (2006), con il suo inusitato sguardo «dell’altro», è forse l’unico esempio recente di una pellicola di un certo successo in cui il manicheismo narrativo tipico del war movie a stelle e strisce non sia debordante. Ma, in generale, chi produce un racconto di guerra negli Stati Uniti ha abbastanza chiaro che tra buoni e cattivi, tra giusto e male, non ci possono essere troppi compromessi, anche se la pellicola è un grande affresco metaforico e la guerra la si combatte in uno spazio fantascientifico, come in Star Wars.
* Professore a contratto Università di Padova