Empowerment femminile, sviluppo e tutela dell’ambiente nel continente africano

Secondo le stime della Banca Mondiale, l’Africa ha conosciuto un’incredibile crescita economica nel corso dell’ultimo decennio (per quanto al momento si prevede che nel 2015 le performances del continente abbiano rallentato), con una crescita media del Pil che si protrarrà anche nei prossimi anni. Le cause di questa crescita sono da attribuire all’aumento della domanda interna ed estera, agli investimenti nelle infrastrutture e ai consumi privati, sostenuti dal basso prezzo del petrolio. Esistono comunque alcuni aspetti critici: anzitutto s è registrato un calo degli investimenti diretti esteri cinesi, inoltre si stima che le rimesse estere siano diminuite nel corso del 2015, probabilmente come conseguenza dell’apprezzamento del dollaro, e infine persistono situazioni di crisi politica e sanitaria nella regione che mettono a rischio non solo l’andamento dell’economia ma anche la pace e il benessere della popolazione.
Nonostante miglioramenti in alcuni paesi e in alcuni ambiti specifici, il continente africano continua a rimanere il fanalino di coda nelle statistiche del Rapporto sullo sviluppo umano ed è particolarmente vulnerabile alla sicurezza alimentare, come evidenziato nel Rapporto 2012 dell’UNEP dedicato allo sviluppo umano in Africa, dal titolo “Africa Human Development Report: Towards a Food Secure Future”. Lo studio evidenziava che la fame continua ad essere pervasiva in questa regione del mondo, nonostante un’abbondanza di risorse agricole, un clima favorevole e la crescita economica cui si è già accennato. Uno dei principali problemi evidenziati dal Rapporto è che nel continente la spesa media nel settore agricolo è parti al 5-10% del Pil, ben al di sotto del 20% dell’Asia, a fronte, tra l’altro, di una popolazione che si stima crescerà fino a 2 miliardi nel 2050.
Dal 2000 il continente ha conosciuto diversi crisi alimentari gravi, causate da siccità, perdita dei raccolti e altri disastri naturali, che sono costate grandi perdite di vite umane. Tuttavia, la sicurezza alimentare per il continente non è collegata esclusivamente alla carenza di cibo o alla perdita dei raccolti ma, secondo lo studio, è associata a quattro variabili tra loro interconnesse: una produzione agricola sostenibile, un miglioramento della nutrizione, l’accesso al cibo e l’empowement delle popolazioni rurali (soprattutto le donne). In merito all’accesso al cibo, in particolare, il Rapporto evidenzia che in Africa esistono due principali aree di squilibrio: la prima riguarda le disparità tra aree rurali e urbane, la seconda le disuguaglianze di accesso, non solo al cibo ma anche alla terra, tra uomini e donne, con queste ultime che sono tra i principali produttori di cibo nell’intero continente ma hanno il minor grado di possesso della terra rispetto a qualunque altra area del pianeta.
La questione dello sviluppo di genere è ormai divenuta centrale in qualunque discorso – e sempre di più anche nel discorso politico – che riguarda il continente: il tema viene ribadito nel recente Rapporto 2015 sullo sviluppo umano, con un focus sulle disparità di genere nell’accesso al lavoro, ma era già presente nel Rapporto mondiale sull’equità di genere e lo sviluppo pubblicato nel 2012 dalla Banca Mondiale, dove era presente un focus sul continente africano. Vi si evidenziava infatti che nonostante alcuni progressi nell’accesso all’educazione primaria, le donne in Africa sono ancora in grande misura escluse dall’istruzione secondaria, godono di pochi diritti legali, hanno a disposizione pochi servizi sanitari e riproduttivi, hanno poca libertà di movimento e di rappresentanza politica. Per far fronte a questa carenza la Banca Mondiale ha incluso azioni connesse con lo sviluppo di genere in tutti i suoi programmi di sviluppo per il continente, finalizzate prevalentemente a intervenire nei settori della mortalità femminile, delle disparità in termini di produttività e guadagni, della rappresentanza nella società, e a promuovere l’eliminazione delle disuguaglianze di genere partendo dall’educazione dei giovani.
Nei paesi a basso sviluppo umano, infatti, quasi tre bambini in età scolare su dieci non vengono iscritti alle scuole elementari, e numerose limitazioni rimangono anche per i bambini iscritti: mancanza di elettricità, di stufe moderne e di acqua corrente rallentano spesso i progressi educativi e portano a tassi di iscrizione scolastica più bassi. E le bambine sono spesso le più colpite da queste limitazioni, perché devono abbinare la raccolta di risorse naturali alla frequenza scolastica: ciò evidenzia come mezzi di sussistenza basati sulla raccolta delle risorse naturali, che comportano un grande spreco di tempo, molto spesso favoriscono il perpetuare delle disuguaglianze di genere.
Inoltre, come ricordava già il Rapporto sullo sviluppo umano del 2011, le restrizioni alla salute riproduttiva hanno un impatto sensibile sui cambiamenti climatici, infatti i paesi in cui le donne possono fare scelte riproduttive e avere meno figli, non solo presentano un miglioramento della salute materna e infantile ma anche minori emissioni di gas serra. La pianificazione familiare è ancora un bisogno insoddisfatto in molti paesi e si stima che se tutte le donne potessero esercitare scelte riproduttive, la crescita della popolazione rallenterebbe abbastanza da portare le emissioni di gas serra sotto i livelli attuali. E’ stato infatti calcolato che se entro il 2050 venissero soddisfatti i bisogni disattesi della pianificazione familiare a livello mondiale, le emissioni globali di Co2 potrebbero essere ridotte di circa il 17% rispetto ad oggi.
Inoltre, considerando che in tutto il mondo, specialmente nell’Africa sub-sahariana, in Asia meridionale e negli Stati Arabi, le donne sono sfavorite rispetto agli uomini nell’accesso all’istruzione, alla salute e ai diritti civili, nonché nella rappresentanza politica, una maggior equità nella distribuzione del potere potrebbe portare a miglioramenti ambientali, quali un maggiore accesso all’acqua e un minore degrado dei suoli, nonché a un numero inferiore di morti dovute all’inquinamento atmosferico al chiuso e all’aperto e all’acqua contaminata. L’empowerment femminile e una maggiore partecipazione delle donne ai processi decisionali della politica può insomma portare a un miglioramento nella sostenibilità ambientale e anche a un maggiore investimento nelle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici, poiché spesso sono le donne a doversi accollare il peso maggiore della raccolta di risorse e sono le più esposte all’inquinamento dell’aria in ambienti chiusi.
Tuttavia, proprio le donne, e in generale le persone più negativamente toccate dal degrado ambientale, sono spesso quelle più povere a scala mondiale, con minore potere e minore rappresentanza politica, anche nei sistemi democratici, così che le priorità politiche difficilmente riflettono i loro interessi e le loro necessità.
* Professore associato di Geografia presso l’Università di Bologna