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Accordi estivi?

Dario Fazzi * - 21.07.2015
Vladimir Putin e Federica Mogherini

Il mese di luglio, per una di quelle strane coincidenze che di tanto in tanto puntellano la storia contemporanea, sembra essere un mese particolarmente propizio per la conclusione di accordi in ambito nucleare. Nel luglio del 1963 le superpotenze della guerra fredda siglavano il loro primo storico accordo, impegnandosi reciprocamente a bandire i test atomici in atmosfera. Il primo di luglio del 1968 si raggiungeva la firma del trattato di non-proliferazione, il cui merito principale, oltre a quello di aver oggettivamente rallentato la diffusione degli arsenali atomici, è oggi quello di trattenere lo stesso Iran al tavolo negoziale. Mentre fu alla fine di un altro luglio, quello del 1991, che l’allora presidente statunitense Bush e il premier sovietico Michail Gorbaciov decisero di dare il via agli accordi START e mettere così in moto un processo di progressiva riduzione degli armamenti strategici ancora oggi in continua evoluzione.

 

Eppure, la stessa storia contemporanea dimostra come spesso i buoni propositi estivi si siano dissolti con l’approssimarsi di lunghi autunni, forieri di nuvole cariche di sospetti e sfiducia. Del resto, la persistenza stessa sullo scenario globale di oltre 15.000 testate nucleari, la costante minaccia che gruppi transazionali fuori controllo possano acquisire il materiale necessario a costruire ordigni atomici rudimentali e numerose incertezze legate a scelte di politica prevalentemente interna delle varie parti riunite a Vienna pongono se non altro dei seri dubbi sulla reale portata storica e sulla effettiva tenuta dell’accordo siglato con l’Iran.

 

Tale accordo, infatti, rappresenta da un lato un passo sicuramente importante compiuto nella direzione della normalizzazione dei rapporti con Teheran. L’affermazione iraniana di voler perseguire un programma nucleare a fini esclusivamente civili è suonata credibile e al tempo stesso – è questa la grossa novità – verificabile. In cambio, Teheran ha ottenuto aperture di credito importanti che consentiranno al paese di uscire progressivamente dalle difficoltà finanziare provocate dalle sanzioni internazionali. Gli Stati Uniti e i loro principali alleati hanno ricevuto sufficienti garanzie su questioni spinose quali il numero delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, il loro rinnovamento e sviluppo, il mantenimento di un cosiddetto “breakout time” sufficientemente ampio da consentire alla comunità internazionale, qualora l’Iran fosse sospettato di arricchire uranio a fini bellici, di reagire tempestivamente e in maniera efficace, la possibilità di effettuare ispezioni ovunque e senza particolare preavviso, la  proroga temporanea all’embargo tanto sui missili balistici quanto sulle armi convenzionali.

 

Dall’altro lato, tuttavia, nella sua forma attuale, l’accordo lascia immutate alcune questioni cruciali e la sua reale efficacia dipende da una serie di variabili interne difficilmente prevedibili. In primo luogo, almeno in linea teorica, la capacità nucleare iraniana resta intatta e nessun dettaglio particolarmente rilevante è emerso in merito alla sperimentazione che il regime degli Ayatollah ha condotto negli ultimi anni. Il segretario di stato statunitense Kerry ha preferito glissare su questo punto per concentrarsi sui piani e i progetti futuri. Ma senza delle stime attendibili, fondate cioè su dati verificabili, che possano rendere evidente il reale stato di avanzamento del programma nucleare iraniano resta difficile, anche per gli ispettori dell’IAEA, valutare la credibilità e l’entità di possibili minacce future. In secondo luogo, la maggiore liquidità a disposizione di Teheran, derivata tanto dallo smantellamento delle sanzioni quanto dall’aumento delle esportazioni e dalla ripresa delle relazioni commerciali con la comunità internazionale, potrebbe tramutarsi in maggiori investimenti in armamenti convenzionali – una possibilità, questa, che stimola gli appetiti delle élite russe e cinesi. Una maggiore disponibilità finanziaria, inoltre, potrebbe tradursi in un aumento del flusso di denaro destinato a gruppi radicali quali Hezbollah, incrementando in tal modo tanto le tensioni regionali e intra-arabe quanto le tradizionali fobie israeliane.

 

Numerose incognite gravano anche sulle prossime mosse statunitensi. Qualora l’attuale Congresso a maggioranza repubblicana, reiterando argomenti e motivazioni legati a una profonda sfiducia nei confronti dell’Iran, dovesse votare per il prolungamento delle sanzioni, di fatto tentando di impedire a Obama di concludere con successo un negoziato sul quale la sua amministrazione ha scommesso molto in termini di reputazione e immagine sia interna che internazionale, il presidente non avrebbe altra scelta che ricorrere al veto. Pare difficile che un numero sufficiente di democratici possa sfilarsi, abbandonare il presidente e allinearsi ai falchi repubblicani così da rendere inefficace il veto della Casa Bianca; ma se l’accordo attuale dovesse essere formalizzato in un trattato internazionale vincolante, allora la battaglia per la sua ratifica in Senato presenterebbe degli esiti tutt’altro che scontati. Inoltre, con la presidenza Obama ormai avviata verso la sua naturale conclusione, molti degli sfidanti repubblicani hanno già espresso chiaramente e pubblicamente la loro volontà di smantellare l’accordo in caso di elezione.

 

Di conseguenza, nonostante l’ottimismo mostrato dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’UE, Federica Mogherini, che ha ripetutamente sottolineato il coraggio mostrato dalle parti contraenti nel creare un clima favorevole e di reciproca fiducia, la reale portata storica dell’accordo potrà essere valutata soltanto nel medio e lungo periodo. E molto dipenderà, in ultima analisi, dalle azioni e dalle percezioni degli attori impegnati nelle trattative. Nel luglio del 1963 i promotori della messa al bando dei test nucleari esultarono per il risultato raggiunto e celebrarono l’avvio di una nuova fase delle relazioni della guerra fredda. Ma erano coscienti che si trattava soltanto di un primo passo, al quale, con l’avvio della distensione, ne seguirono lentamente e faticosamente altri. Nel frattempo, però, il numero delle potenze nucleari è triplicato e le logiche stringenti della deterrenza nucleare non sono mai state del tutto superate. Per questo accontentarsi e abbandonarsi a facili trionfalismi risulta non soltanto fuori luogo ma anche storicamente fuorviante.

 

 

 

 

* Roosevelt Study Centre - Olanda